Teatro: la libertà di non esistere

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Pubblicato il 15/02/2002 / di / ateatro n. 029

La differenza tre giornalismo e letteratura, ci ha detto Wilde, è la seguente:“ Il giornalismo è illeggibile. La letteratura non è letta. Ponendomi a riflettere su certe problematiche della società teatrale contemporanea, sposto di poco il gioco: quale è oggi la differenza tra informazione e critica teatrale? Una prima risposta potrebbe essere: l’’informazione non conosce. La critica non è riconosciuta. Per quanto, se nell’’aforisma di Wilde l’’accusa sembra andare in gran parte al lettore, o al pubblico, qui s’’individua invece una malattia intrinseca alla stessa sfera culturale e politica che s’intende indagare. Se l’’informazione teatrale proposta dalle testate giornalistiche risponde ai criteri di una ben vestita superficialità, scandagliando solo i falsi segreti del gia noto, facendosi dunque strumento commerciale anziché conoscitivo, la critica stenta a venire allo scoperto. Secondo una problematica che vede la critica ora non essere pubblicata – è noto ormai, purtroppo, la denuncia della cronica mancanza di spazio dato al teatro nelle pagine della stampa nazionale – ora invece non assumersi in pieno il proprio ruolo, quello del rischio, dello sguardo che punta lontano e che scommette, è il teatro, infine, a risultare suo malgrado illeggibile.
Illeggibile è l’’informazione-promozione, legata ai lanci di ufficio stampa, spesso ricalcata su di essi, mai autonoma, talvolta poco competente, in preda al gusto e incapace di creare sano interesse. Illeggibile è certa critica che, anche quando trova spazio, non sempre dimostra di aver messo a punto un linguaggio, uno strumento, un genuino motivo di scrivere. Illeggibile è infine il futuro dell’’arte se chi è chiamato a occuparsene ha la debolezza di lasciarsi invece sedurre dal passato, l’’ansia di affrettarsi a stabilire origini sancire appartenenze. Fatta eccezione del lavoro encomiabile di Rai 3 – che spazia largamente nei territori del teatro tra materiali e collegamenti, tra approfondimento e cronaca con attenzione al nuovo, fino a sperimentare le forme più alte di drammaturgia radiofonica – questi sono gli anni in cui mass media, se adottano la parola “arte è per parlare di un museo, o di un restauro, oppure per inserirla nelle categorie di un nuovo quiz formato americano. Questi sono i decenni in cui della parola “cultura si sono impossessati gli assessori e gli “operatori interinali. Ed è il millennio che non sa più dove siano nascosti gli intellettuali, ovvero “ il sale della terra i cani da guardia della società, i pionieri dell’avvenire, gli ingegneri dell’anima. Lo spazio critico è legato del resto per propria natura alla libera iniziativa dell’auto produzione. Vi sono maestri in questo campo, pochi, pochissimi, grandissimi, che si sono fatti carico di colmare lacune editoriali enormi, di creare spazzi mentali, allargando i confini geografici, drammaturgici, sventrando a ogni appuntamento i dogmi con visionaria ispirazione.
Ci insegnano che fuori dal compromesso si ha il vantaggio della libertà di pensiero. Ma se a questo vantaggio, di tutta risposta da parte della società teatrale, c’è il silenzio, oppure, nella migliore delle ipotesi, lo scontro; se la possibilità di un lavoro comune va interamente a impegnarsi in minuscole corporazioni, in alcuni casi addirittura monologanti, di quale libertà stiamo parlando? Della libertà di non esistere? “Cristallizzatevi e sarete qualcuno è stato detto. In questa odissea preferisco chiamarmi Nessuno, applicare questa “meravigliosa facoltà di opporsi che il senso critico mi offre e che il teatro m’impone.
L’’ultimo decennio teatrale ha nutrito speranze. Abbiamo assistito e in qualche modo partecipato al determinarsi di una congiuntura a dir poco favorevole, ovvero a una rinnovata curiosità critica parallela al nascere di una nuova generazione teatrale. Qualcuno nell’osservatorio ha esercitato il coraggio, qualcuno lo esercita costantemente, qualcun altro non avendo tale dote mette in circolo astio personale o diffidenza congenita.
L’’ingranaggio del mondo va avanti così, chi produce ruggine, chi con pazienza o imprecando provvede a oliare. Alcuni teatri ed enti hanno risposto con propria intraprendenza alle sollecitazioni della critica, qualche nucleo artistico aveva a sua volta fertilizzato il terreno per la nuova coltura, sono nate altre identità, che l’Europa ha saputo presto ammirare. Il fenomeno è ciclico, ma è proprio con questa ciclicità che si entra in conflitto e anche chi, in tempo di sua vita, ha potuto verificare una generazione, non ha poi saputo accoglierne un’altra. A me piace rileggere le “cronache di un maestro che sollecitava, già negli anni ’70, l’arte dello spettatore a questo andamento, alla necessità di ripartire ogni volta, a spostare sempre l’attenzione e a disporsi in allenamento verso il futuro incombente.

Tutti questi gruppi (e altri ancora in stato d’emergenza) sono rapidamente maturati in virtù di una coesione di fondo e di una sintonia di richiamo, attirando l’attenzione e l’intervento di studiosi, di intellettuali, di artisti, di scrittori e assorbendo intorno a se consensi sempre più ampi e più intensi. Così essi anno potuto sopravvivere a rassegna con particolari definizioni, e a pressioni di politici e di intellettuali desiderosi di appropriarsi di esperienze vitali dal punto di vista comunicativo e di consenso; e in un certo senso hanno messo a tacere o comunque resi innocui critici che ne avevano ostacolato lo sviluppo e anche, magari, ne avevano mondanamente fiancheggiato l’apparizione; legandosi strettamente al loro pubblico, ai loro coetanei, e non solo, e dividendone riferimento culturale, non per bassa mitologia, ma per assedio puro e semplice.
Gli spettacoli, le pratiche di quei gruppi rimandano a molti particolari, autonomi, la loro sfilata dando luogo a un paesaggio italiano e in essi esistendo una difesa della propria origine e un insediarsi al di dentro del lavoro contemporaneo.


Questo scriveva Giuseppe Bartolucci circa vent’’anni fa riferendosi a un panorama teatrale che andava dal Beat 72, ai Magazzini e Falso Movimento fino agli “ultimi, allora della Raffaello Sanzio (“e altri ancora in stato d’emergenza).
La stessa biologia artistica individuiamo oggi nel nuovo ciclo di gruppi, che abbraccia Motus come L’’impasto, Libera Mente come Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander come Accademia degli Artefatti o Egum Teatro o il Laboratorio di Domenico Castaldo. Biologia che anche in questa primavera si compone di una chimica esplosiva, esplora senza cautela i confini del teatro, proponendo in altri campi, con il gesto di chi per allacciare cognizioni filosofica e impatto popolare, codice contemporaneo e disciplina dei maestri, assume in prima persona il senso critico. Ne risulta l’urgenza di ritemprare il rapporto fra artisti e osservatori, stringendo nuovi modi fra teatro e critica, in un idea di teatro che uccide quella di genere e disperde la temporalità.
Il timore è però che, quella che ci aspetta, più che una nuova fase di restaurazione, sia un ingresso nell’oblio: ignoranza è al governo e la Polizia ha ricominciato a picchiare; ignoranza è all’opposizione e gli intellettuali sono rimasti in pochi a denunciare. L’’esercizio critico è un lusso che questa società non vuole permettersi, uno specchio in cui non vuole guardarsi. La critica teatrale stessa del resto non è avulsa da segni di pigrizia, o da deliri d’onnipotenza. Il vuoto che viene a crearsi internamente al mondo dell’arte scenica, con ripercussioni su tutto ciò che ad essa è legata – per esempio la vita culturale di un paese, – è un vuoto di relazioni e di confronto teorica, di collegamento fra alto e basso, di forza. Un vuoto di spazio dell’azione, oltre che un vuoto d’ironia. E se esiste ancora, in uno stato di solitudine, una verità della critica, “la nostra società che non vuol nient’altro se non ciò che già possiede, un certo benessere, una certa paura, che bisogno può avere di un linguaggio, cioè del teatro?

Cristina_Ventrucci




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