Le mani sporche di Hans Castorf
Les mains sales - Schmutzige Hände di Jean-Paul Sartre Parigi, Théâtre National de Chaillot, 10-11-12 aprile 2002
Adattamento e regia: Frank Castorf
Scenografia e costumi: Hartmut Meyer
Drammaturgia: Matthias Pees
Produzione: Volksbühne am Rosa-Luxemburg Platz, Berlin
Interpreti: Henry Hübchen, Matthias Matschke, Silvia Rieger, Kathrin Angerer, Sir Henry, Milan Peschel, Pavel Straka, Hendrik Arnst
Il regista tedesco Frank Castorf è stato oggetto di una certa diffidenza da parte dall’ambiente teatrale francese e decisamente trascurato dai programmatori dei teatri, che tendevano a considerarlo un semplice provocatore privo di spunti di interesse. Ma dall’anno scorso, quando su invito del direttore del Théâtre National de Chaillot, Ariel Goldenberg, è approdato a Parigi con la prima parte de I Demoni da Dostoïevski, rapidamente trasformatosi in uno dei maggiori eventi della stagione, la sua presenza sulle scene francesi è più consistente e acclamata da una critica ormai unanimemente entusiasta. Dal 4 al 7 ottobre 2001 ha portato al teatro MC93 Bobigny, Endstation Amerika, spettacolo creato alla Volksbühne di Berlino nell’ottobre del 2000, tratto dalla celeberrima pièce di Tennesse Williams Un tram chiamato desiderio: una messa in scena delirante, con una scatola scenica in movimento, musica rock e uno schermo televisivo tipo “Grande Fratello”, con il quale è possibile spiare cosa avviene in una sala da bagno inaccessibile alla vista.
La settimana scorsa la troupe della Volksbühne ha fatto ritorno in Francia, al Théâtre National de Chaillot, con due creazioni di Castorf da tempo appartenenti al suo repertorio: la seconda parte de I Demoni e Le mani sporche di Jean-Paul Sartre; in particolare quest’ultimo spettacolo ha destato l’interesse della critica e del pubblico. Si tratta infatti di una pièce fondamentale nella storia teatrale e letteraria del teatro novecentesco francese, che pure negli ultimi anni non ha avuto produzioni di rilievo: ha evidentemente pesato nella concentrazione dell’attenzione su questa messa in scena di Castorf la curiosità di assistere a una rappresentazione estranea alla tradizione nazionale, per di più di un regista noto a livello internazionale soprattutto per il suo spirito provocatore e dissacratore. I 1500 posti dell’enorme sala Jean Vilar, un monumento del sogno di un teatro nazionale popolare che unisse tutte le componenti della società, sono quasi interamente occupati da un pubblico variegato, in cui è possibile individuare un folto gruppo di tedeschi, numerosi francesi appartenenti all’ambiente teatrale, e spettatori attratti più dalla celebrità del testo che dalla conoscenza della compagnia; sono questi ultimi a lasciare il teatro a una decina di minuti dall’inizio, forse scoraggiati dal pessimo sistema di sottotitolatura e delusi da una messa in scena straniante e evidentemente inaspettata. Ma la maggioranza resta e alla fine i prolungati applausi spingono gli attori a numerose uscite.
Les mains sales scritta da Sartre nel 1948 e messa in scena la prima volta lo stesso anno al Théâtre Antoine, da Jean Cocteau e François Perier, risponde a problemi legati al periodo storico del dopoguerra, con la netta ripartizione del mondo nei due blocchi contrapposti dell’est e dell’ovest e con il frantumarsi delle speranze sorte alla fine del conflitto mondiale nella rigenerazione della società e nella costruzione di un ordine nuovo. Nelle vicende di Hugo, Olga, Louis, Jessica e Hoederer, situate in uno stato dei Balcani scosso da una guerra non ben definita e chiamato evasivamente “Illiria” e ruotanti intorno all’opposizione entro la fedeltà dogmatica ai principi e il pragmatismo della Realpolitik all’interno del partito comunista, l’autore pone il problema fondamentale del rapporto dell’uomo con la politica: in un momento in cui la gravità dello svolgersi della storia richiede all’individuo un intervento, rimane aperto l’interrogativo che nasce dallo scarto esistente fra la purezza degli ideali e i compromessi che sporcano inevitabilmente le mani e la coscienza di chi si risolve ad agire. Il nodo problematico del dramma è concentrato nella battuta che Hoederer, che è portatore di un realismo cinico e disincantato, rivolge al giovane idealista Hugo:
“Comme tu tiens à ta pureté, mon petit gars! Comme tu as peur de te salir les mains. Eh bien, reste pur! À quoi cela servira-t-il et pourquoi viens-tu parmi nous? La pureté, c’est une idée de fakir et de moine. Vous autres, les intellectuels, les anarchistes bourgeois, vous en tirez prétexte pour ne rien faire. Ne rien faire, rester immobile, serrer les coudes contre le corps, porter des gants. Moi j’ai les mains sales. Jusqu’aux coudes. Je les ai plongées dans la merde et dans le sang.”
L’azione si svolge circolarmente entro due poli temporali, separati da un intervallo di tre anni costituito dalla prigionia del protagonista Hugo, intellettuale borghese che ha rinnegato la sua classe di origine e il suo passato per aderire al partito comunista e costruirsi una nuova identità, sognando di rischiare la vita e di uccidere per la causa in cui crede. La prima scena è collocata nel 1946 quando egli torna dalla “compagna” Olga dopo avere scontato la pena per l’omicidio di Hoederer, capo di partito che, in previsione della fine del conflitto, sta concertando un accordo con le opposte fazioni politiche. Il delitto è stato commesso per ordine dei “compagni”, ma su di esso pesa l’ombra di essere stato motivato più da ragioni passionali che da motivi politici, e il partito ha decretato l’eliminazione del suo esecutore, ritenuto ormai inutile e inaffidabile. Olga ottiene qualche ora per riesaminare con lui il passato e decidere in seguito se riabilitarlo o ucciderlo. Inizia un flash-back, più caratteristico di una sceneggiatura cinematografica che di un dramma teatrale, e vengono rivissute le vicende che hanno condotto Hugo a sparare. Dopo questo riesame, Olga decide la “recuperabilità” di Hugo, ma quando gli confessa che la memoria di Hoederer è stato riabilitata e che il partito si è in seguito alleato ai fascisti, Hugo rifiuta di rinunciare agli ideali che hanno spinto il suo gesto e si oppone all’oblio che gli viene imposto: urlando ai compagni che attendono fuori dalla porta “Non récupérable!” decide della sua morte, lasciando tragicamente irrisolta la questione della legittimità dell’assassinio politico, della responsabilità dell’individuo e della possibilità della realizzazione “pulita” di ideali puri.
Frank Castorf decide di mettere in scena l’opera di Sartre nel 1998, offrendone un’interpretazione bruciante e strettamente legata all’attualità: l’Illiria immaginaria si trasforma nella Ex-Jugoslavia, devastata da una guerra sorta proprio dalle rovine lasciate dal crollo dei regimi politici e dell’ideologia su cui si concentra Sartre. Il regista non nega la distanza che separa il 1948 dal 1998, ma al contrario, fa della messa in scena una dichiarazione esplicita dello scarto fra la situazione storica del dramma e le condizioni del mondo contemporaneo. Forzando il testo a una collocazione spazio-temporale straniante, Castorf mette in atto un corto circuito illuminante, in cui la lotta politica è vista come un insensato, isterico e terrificante gioco all’eliminazione reciproca, ormai nemmeno più giustificabile dalla tensione alla realizzazione di un ideale. Il neorealismo di cui è impregnata l’opera, le minute didascalie ignorate, e il dialogo riscoperto, dopo un lavoro di “ripulitura” degli elementi più narrativi, nella sua vitalità e nella sua potenzialità teatrale. La precisa connotazione dell’ambiente dei Balcani contemporanei viene effettuata a livello scenografico, drammaturgico e musicale: è presente su una parte della scena una grande bandiera dello stato comunista jugoslavo, le parole dei personaggi sono in alcuni momenti tratte da testi di Radovan Karadzic, Ratho Mladic ed estratti da testimonianze di bambini jugoslavi raccolte in un libro da Senada Marjanovic; infine, l’azione è intercalata dalle musiche violente di Goran Bregovic. Immediato è il riferimento cinematografico ai film di Emir Kusturica, e in particolare a Underground: come non associare i personaggi che ballano scatenati come posseduti dal ritmo al partigiano del film, che rimasto nascosto per cinquant’anni riemerge dalle profondità della terra negli anni Novanta e ricomincia a fare la guerra come prima e a sparare con il suo mitragliatore come un invasato contro i suoi nuovi nemici? Un ulteriore referente cinematografico, è costituito dal noir anni Quaranta: gli abiti hanno la foggia dell’epoca, sigari, cappelli e pistole ricordano gli eroi cinici di questi film dagli intrighi loschi e sanguinosi, e Olga, con impermeabile nero, tacchi a spillo e capelli corti incarna lo stereotipo della dark-lady, che in questo genere tenta di condurre il protagonista alla perdizione. L’organizzazione spaziale è stupefacente e riflette la circolarità temporale del testo e l’insensato scorrere della Storia: si tratta di una struttura praticabile tridimensionale, che ruota sul suo asse a ogni cambiamento di scena. Vi si aprono quattro spazi differenti: un piano inclinato bianco, delimitato ai lati da muri del medesimo colore, che termina in alto con una sorta di camino di ferro, e sulla quale è posto in pendenza un pianoforte a coda suonato in piedi dal “direttore d’orchestra” Louis. Qui sotto un’uniforme e invadente luce rossa si svolgono la prima e l’ultima scena, quando Hugo si lancia nell’impresa dell’omicidio e quando nella resa dei conti finale si lascia uccidere: lo spazio è aperto, ma allo stesso tempo claustrofobico, disagevole per i gli attori, e suggerisce l’immagine del ponte di una nave impazzita, che come la Storia, non avanza, ma gira su stessa lasciando dietro di sé cadaveri inutili. Dalla parte opposta si trova, all’interno della struttura sotto la pedana, una sorta di giardino d’inverno, con palmizi palesemente artificiali e la tenda di plastica bianca di una doccia. Gli altri due lati sono piuttosto simmetrici: da una parte una parete gialla con due porte sopraelevate alle estremità, collegate da uno scivolo rotondeggiante che crea una specie di ponte sospeso; fra lo scivolo e il muro, poggiato per terra, un enorme letto matrimoniale. Dall’altra una pedana rialzata separata dalle due aperture di accesso, con una grande scrivania perpendicolare alla parete che la divide in due parti; si tratta dell’ufficio di Hoederer, dominato dalla bandiera jugoslava. Lo spazio è quindi labirintico, caratterizzato da cunicoli, da pendenze e da sbalzi che pongono gli attori in una costante situazione di difficoltà e di disequilibrio; essi sono inoltre investiti da luci fortissime, colorate, completamente artificiali, che insieme alla musiche ad alto volume creano un effetto complessivo di frenesia e di subbuglio. A ogni scena il dispositivo ruota, mentre si diffonde la musica e gli attori danzando sulla superficie del palcoscenico si stagliano in controluce come le figure spettrali di una danza macabra. Ma mentre il susseguirsi dei quadri è ben cadenzato, il ritmo all’interno di essi è mutevole, ora serrato e più teatralmente tradizionale, ora disteso e quasi piatto. Sono presenti momenti di grande intensità emozionale, come la scena finale, in cui Olga nell’istante in cui accetta che Hugo venga ucciso si lancia istericamente su un mitra e inizia a sparare sulle pareti, per poi accasciarsi mentre i bossoli rotolano lungo il piano inclinato, o come i racconti di guerra delle due donne, tratti dalle testimonianze dei bambini jugoslavi: la tensione è alta, e la sala è avvolta in un silenzio concentrato e commosso. Quasi impercettibilmente l’azione si trasforma in sospensione: nulla accade sulla scena, se non il ripetersi meccanico di gesti e di frasi apparentemente insensate che precipitano i personaggi nella comicità dell’assurdo e del grottesco. Due momento sono particolarmente esemplificativi di questi cali di ritmo: dopo un momenti di azione rapida e violenta, costituita da un attentato a Hoederer organizzato dal partito all’insaputa di Hugo, i personaggi per qualche minuto restano quasi immobili nella serra, dove canticchiano e lanciano brandelli di conversazione, mentre un attore circola fra di essi con una scimmia al guinzaglio, a cui periodicamente dà delle noccioline. Oppure, il primo incontro fra Hoederer e Jessica è rappresentato con un quadro statico e ripetitivo: i due si ritrovano sul letto a guardarsi, mentre Hugo sullo scivolo, pizzicando un contrabbasso, intona a bassa voce una canzone romantica americana; quando Hoederer se ne va canta in maniera ridicolmente sentimentale la sua serenata a Jessica, fra le risa del pubblico. Sono momenti suggestivi, in cui recuperato il senso del gioco e della gratuità dell’azione teatrale, ma nello stesso tempo viene offerta allo spettatore una prospettiva inusuale sulla natura dei rapporti fra i personaggi, e viene rivelata l’inconsistenza del loro essere. L’insieme si profila come una “incoerenza coerente” tutti questi elementi disparati compongono il quadro di una Storia in cui l’insensatezza e l’assurdità inevitabile nulla tolgono alla verità e all’autenticità del dolore. Gli spettatori restano attoniti, sconvolti e divertiti, e lasciano il teatro spogliati di molte certezze e arricchiti di molti interrogativi. Ha dichiarato Franz Castorf:
“Un’opera di cui possa pensare: ah, ah, ecco infatti in cosa tiene la storia, e in cui la rappresentazione del mondo sia così semplificata da risultare immediatamente identificabile, non mi interessa. Ciò che mi affascina sono gli antagonismi, ciò che non può essere immediatamente identificato e che resta incerto, intuitivo.”
Frank Castorf è nato a Berlino nel 1951, cresce nella R.D.A., al ritmo della contro-cultura rock americana e inglese, divorando film di Godard, Truffaut, Wajda e Fellini.
Segnato negli anni liceali dai grandi pensatori tedeschi, persegue degli studi di storia della cultura, di filosofia e di teatro prima di essere ingaggiato come Dramaturg e regista a Senftenberg. In seguito presenta i suoi primi spettacoli nei teatri di Greifswald e di Brandebourg. Il regime li giudica scomodi e scorretti, e vengono quindi ritirati dal cartellone, e Castorf è minacciato di essere sospeso dal suo posto. In seguito a un processo da cui alla fine esce vincitore, viene inviato ad Anklam, dove le sue messe in scena di Müller, Shakespeare, Brecht, Ibsen e Goethe in particolare, attirano l’attenzione della critica occidentale. In conflitto costante con la censura, viene licenziato nel 1985. Fino al 1989, data della sua prima regia in Occidente, Hamlet, a Colonia, Castorf viene accolto come regista indipendente in differenti teatri della R.D.A.. Poco dopo la caduta del muro, presenta Ajax a Basilea, Miss Sarah Sampon a Monaco e Stella ad Amburgo.
Arrivato alla direzione della Volksbünhe, Castorf non depone le armi e intraprende l’impresa di raschiare via la ruggine dalla scena dell’istituzione berlinese: nella Berlino riunificata, dove si mira a fare sparire ogni traccia della separazione est-ovest, fa scrivere con lettere giganti sul tetto del teatro OST, Est. Tutte le sere o quasi, teatro, concerti e film attirano gli intellettuali e la gioventù dell’est come dell’ovest: egli ha fatto dell’imponente e brutto edificio della piazza Rosa Luxembourg uno dei teatri più frequentati ma più controversi della Germania.
Ammiratore di Marx, di Hegel, e dei Rolling Stones, Frank Castorf è un artista politicizzato, brillante e discusso: egli incarna da vent’anni il versante indipendente e sovversivo del pensiero e della cultura tedeschi.
Volksbünhe am Rosa-Luxembourg Platz/Berlin è uno dei più noti teatri berlinesi. Ha sede dal 1914 nel pieno centro della città e da sempre è caratterizzata da una pprogrammazione popolare e politicizzata: Erwin Piscator negli anni Venti e Benno Besson negli anni Settanta vi hanno svolto un ruolo fondamentale.
Dopo la caduta del muro la sua direzione è stata affidata a Frank Castorf, la cui programmazione paradossale, elitaria e populista, ostinata ed efficace emana tanto il sentimento di un nuovo inizio, quanto il senso della futilità. Così facendo essa rompe con la concezione classica di teatro, e nello stesso tempo la conferma. Accanto a Frank Castorf, che lavora con un gruppo permanente di attori, e a Johann Kresnik, creatore di coreografie teatrali storico-politiche, si affiancano due registi che regolarmente sono attivi alla Volksbünhe: Christoph Marthaler, conosciuto per i suoi monumenti dell’inazione, e Christoph Schlingensiefl, regista teatrale e cinematografico che influenza la Volksbünhe con l’idea di un teatro senza fondo e senza frontiere in cui mettere in scena la globalizzazione e la rivoluzione high-tech.
Erica_Magris
Tag: SartreJeanPaul (2)
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