La casa delle origini e del ritorno

Discorso in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa dall'’Università di Varsavia, 28 maggio 2003

Pubblicato il 06/06/2003 / di / ateatro n. 053

Rettore Magnifico, professori, autorità, studenti, signore e signori,
permettetemi, come segno di gratitudine, in questa cerimonia che onora i miei compagni dell’Odin Teatret e me, di ricordare gli inizi: le prime parole di un noto testo teatrale:

Merdre!

Il più conosciuto fra gli incipit del dramma europeo, forse andrebbe evitato in questo solenne consesso. Ma non si può, perché questa sorprendente esclamazione è, senza dubbio, la più significativa.
La provocazione con cui Jarry aprì Ubu Roi, quando fu scritta e detta la prima volta, dovette essere deformata (Merdre!) per risultare accettabile. Oggi, se non fosse deformata e contraffatta, sarebbe talmente banale da passare inosservata. Questa parola distorta dovrebbe essere scritta sulle bandiere dei nostri teatri, se i teatri alzassero ancora bandiere in cima ai loro tetti, come a Londra ai tempi di Shakespeare.
Quella parola sulla bandiera non è un insulto. È un rifiuto. È questo che il teatro, lo sappia o no, dice al mondo che lo circonda. E, per dirlo con efficacia e coerenza, deve allontanarsi dal linguaggio quotidiano, rielaborarlo e situarlo in uno spazio paradossale.
Lo spazio paradossale è l’unica patria del teatro.
Per questa patria Jarry ha creato un’immagine sarcastica e antitetica, degna di figurare come emblema su una bandiera:

Quant à l’action, qui va commencer, elle ce passe en Pologne, c’est à dire Nulle Part.

Era il 10 dicembre 1896, quando alla ribalta del Théâtre de L’Oeuvre di Parigi Jarry pronunciò queste parole, che possono risultare amare, ironiche, persino disperate – tutto tranne che tristi o provocatorie. Sono allegre e piene di vitalità, come l’humour noir che ho imparato a conoscere ed ad apprezzare qui in Polonia. Dovremmo però riflettere su un fatto: quando Jarry mise sulla carta quelle parole gioiose e nichiliste, Nulle Parte lo scrisse con le iniziali maiuscole. Non come un’assenza, ma come un’identità.
La Polonia è la mia patria professionale. L’ho sempre pensato perché qui ho vissuto gli anni fondamentali del mio apprendistato. Qui assimilai la lingua di lavoro, l’atteggiamento critico verso la storiografia, le basi del sapere e le tensioni ideali dell’artigianato teatrale. La Polonia fu l’ambiente che guidò i miei primi passi verso il mio destino. Oggi, nel momento del ritorno alla casa delle mie origini, dopo quasi mezzo secolo, mi chiedo se la Polonia non sia rimasta la mia patria professionale soprattutto per la sua forte vocazione a rappresentare per me il reame di Nulle Part.
Che cosa voleva dire Jarry con quell’espressione, nel lontano 1896? Accennava soltanto allo smembramento politico della nazione polacca? E a che cosa accennava scrivendo le parole maiuscole? Il greco l’aveva studiato seriamente, a scuola. E in greco nulle part diventa oû-tópos, Utopia. Era anche a questo che alludeva nel suo gaio e vitale humour noir? Noi lo sappiamo fin troppo bene, attraverso le nostre esperienze e la Storia che ha accompagnato le nostre vite, quanto l’Utopia abbia a che vedere con l’humour noir.
Parlo di Jarry, pensando alla mia Polonia di più di quarant’anni fa, ed ecco emergere Witold Gombrowicz e il suo Ferdydurke. Lo sapevamo a memoria. Il libro di Gombrowicz, come un grande mito beffardo, forniva le parole, i paradigmi e le tipologie attraverso cui Grotowski ed io ci parlavamo. Ed immediatamente, nel teatro interiore della mia mente, Gombrowicz e Jarry si accostano ad un artista che ha popolato di immagini indelebili il teatro del secondo Novecento, e del quale vorrei evocare la presenza: Tadeusz Kantor.
Di nascita e scuola sono italiano. D’educazione politica, norvegese. Professionalmente, polacco. Nel 1963, quando nel teatro-laboratorio 13 Rzedów di Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen dovevo mettere in scena un testo per il mio saggio di regia, pensai alle mie radici, alla Divina Commedia di Dante Alighieri. Progettavo uno spazio teatrale doppio, due palcoscenici ai due estremi della sala, e il viaggio di Dante in mezzo, fra gli spettatori, nello spazio del Disordine – una parola anche questa da scrivere con la maiuscola, come Nulle Part. Cercavo uno scenografo e mi rivolsi a Kantor. Ci incontrammo e parlammo a lungo. Era curioso e gentile. Non mostrò affatto il caratteraccio che si diceva. A Opole? E in quale teatro, al Ziemi Opolskiej? Gli risposi che lavoravo con Grotowski. Ricordo il lampo del suo sguardo. Kantor si alzò senza una parola e mi piantò in asso. Non l’ho più rivisto.
Questa è aneddotica, non è storia. Le rivalità, le gelosie, le glorie e le paure sono schiuma effimera e non vanno confuse con le potenti onde del mare che si accaniscono contro la stabilità della terra ferma.
Se richiamo alla memoria le onde apparentemente scomparse, non faccio l’appello d’una umar³a klasa, di “una classe morta”: Tadeusz Kantor, Heiner Müller, Julian Beck, Carmelo Bene, Jerzy Grotowski. Queste onde sono diventate correnti profonde, temperano il clima in cui noi agiamo professionalmente, sono il nostro mondo. Se questo mondo, questo potente reame di Nulle Part, tentiamo di rinchiuderlo nei confini che chiamiamo “passato”, siamo noi, in realtà, a morire. Quelle persone apparentemente scomparse non sono i nostri ricordi. Sono il nostro sangue, sono lo spirito vitale che ci mantiene in vita.
Chi mi conosce lo sa: più d’ogni altra esperienza, per me la Polonia fu Grotowski,. Non serve ripetere ciò che ho detto già tante volte. Questa cerimonia del 2003 è la scena più recente di un intreccio che cominciò nel 1961, con l’incontro a Opole d’un italiano di 25 anni, emigrato in Norvegia e che aveva molto viaggiato, e un regista polacco di 28 anni che aveva girato poco per il mondo, ma aveva cominciato a esplorare la geografia verticale, conosceva l’arte della politica e della dissidenza e sapeva metterle al servizio della sola libertà spirituale.
Riconosco in Jerzy Grotowski il mio Maestro. Eppure non mi sento né un suo allievo, né un suo seguace. Le sue domande sono divenute le mie. Le mie risposte sono sempre più diverse dalle sue.
Jerzy Grotowski aveva buon senso, per questo era distruttore del senso comune e delle illusioni. Era l’uomo del paradosso e trasformò il paradosso in un concreto paese. Conquistò la propria autorevolezza nei territori del teatro. Era un profeta, nel senso originario della parola, perché non parlava in nome proprio, ma in nome di un’oggettività poco evidente.
Pose la domanda fondamentale per il teatro del nostro tempo, la più dolorosa e decisiva per il suo avvenire. Il teatro come arte lo interessava solo come punto di partenza, né si illudeva che dall’estetica e dall’originalità dipendesse il suo potenziale futuro.
Chiese semplicemente: che cosa vogliamo farne del teatro?
Le domande profetiche non coniano parole nuove. Sovvertono le espressioni comuni. Quante volte l’abbiamo sentita ripetere questa domanda: “A che serve il teatro?”. Le vere risposte non ci raggiungono attraverso le parole, sono fatti.
Che cosa vogliamo farne, del teatro? Dobbiamo rassegnarci ad essere custodi delle sue forme, governati dai turisti, dai funzionari del mecenatismo, dai regolamenti del solenne museo dello “spettacolo vivente”? O vogliamo decidere con le nostre azioni perché questo artigianato sia così necessario ad ognuno di noi, che cosa vada estratto da questo prestigioso reperto d’una società che non c’è più, con chi lottare per riconoscere i segreti e le potenzialità del nostro artigianato, come e dove rifondere ed utilizzare i suoi materiali e le sue sostanze?
Grotowski ha trasformato un modo di dire, un disagio diffuso e la scontentezza della gente di teatro, in una vera domanda. E ha risposto con l’evidenza dei fatti compiuti. Ha preso dalla professione teatrale ciò che serviva per creare una rigorosa disciplina di libertà sganciata da legami con qualsiasi metafisica o dottrina. Ha circoscritto una regione molto particolare del reame di Nulle Part: uno yoga senza una mitologia condivisa. Ha tracciato la rotta di un viaggio verticale a partire dal teatro.
Alla radice della domanda fondamentale, Grotowski piantò un totem: la tecnica. Non si riferiva alla manipolazione degli oggetti e delle macchine, ma all’indagine empirica dell’azione umana, dell’essere umano nella sua interezza e integrità. La tecnica era la premessa per un’unione difficile, a volte precaria, di quel che nella vita quotidiana è diviso: il corpo e la mente, la parola e il pensiero, l’intenzione e l’azione. Il totem era la tecnica dell’attore, cioè della relazione fra un essere umano e l’altro. “Attore” si dice al singolare, ma sottintende sempre due persone: senza spettatore non c’è attore – e neppure Performer, anche se scritto con lettera maiuscola. Qualunque sia poi il modo in cui la nozione di “spettatore” venga da noi interpretata, definita, incarnata o immaginata.
Domande identiche – risposte divergenti. Non è l’ortodossia fedele, ma l’incontro attraverso le differenze che permette al passato di circolare in noi come in un sistema sanguigno.
Il reame di Nulle Part promette accettazione, ispira senso di isolamento, esala chimere e, in alcuni rari casi, spinge verso la profondità. È questo che la tecnica regala, quando si avanza lungo la sua strada: la consapevolezza che la costrizione diventa strumento di libertà.
Nel reame di Nulle Part, sentieri che partono da luoghi distanti, si incontrano e si fondono. Altri, che hanno la stessa origine e sembrano indissolubili, si biforcano. Possiamo scoprirvi le scale che esplorano, verso l’alto e verso il basso, la geografia verticale. E possiamo trovare fortezze “dalle mura di vento” in cui tecnica e tensioni ideali inventano strategie che ci permettono di vivere nel nostro tempo senza essere del nostro tempo. Nello spazio paradossale del teatro si possono costruire storie parallele a quella della Storia che ci ingloba e ci trascina, e trasformare in solide relazioni umane valori che paiono solo sogni e ingenuità.
Parlo di fatti compiuti. Basta avere uno sguardo sufficientemente acuto e sperimentato per distinguere la storia sotterranea del teatro nel mondo moderno.
Cosa farne del teatro? La mia risposta, se debbo tradurla in parole, è: un’isola galleggiante, un’isola di libertà. Derisoria, perché è un granello di sabbia nel vortice della storia e non cambia il mondo. Sacra, perché cambia noi.
Sperimento il reame di Nulle Part come un regno abbandonato dai suoi re e della sue regine. La sua vita è regolata da molte discipline e nessuna Legge. È il luogo in cui si può dire “no” senza sprofondare nella negazione degli obblighi e dei legami. È il luogo del Rifiuto che non si separa dalla realtà circostante, anzi, dove l’atto di rifiutare può essere cesellato come un gioiello, come una favola attraente, che poi ci sorprende, quando ci sembra che parli di oggi e proprio a noi.
Oggi io sono commosso, perché sono dentro una favola, e questa favola è a Varsavia che mi viene raccontata. Quale luogo può rappresentare il castello delle favole meglio dell’università delle origini del mio percorso professionale alla quale ritorno come doctor honoris causa nel quinto atto della mia vita?
Eppure, in questo stesso momento, rivedo le ossa che i bulldozer scavavano alla luce fra le macerie di Varsavia ancora all’inizio degli anni Sessanta. Appartengo a quella generazione di giovani affamati di libri, che quando alzavamo gli occhi rischiavamo di vedere ossa fra la terra e le macerie portate vie dai camion che ricostruivano l’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Scoprivamo un’altra fame, oltre quella per il sapere e i libri. Come se senza leggere non si potesse respirare, ma tutti i libri, poi, fossero lì per nascondere la verità.
Per alcuni di noi che hanno goduto l’eloquenza e la poesia dei libri accanto all’’orrido mutismo della ossa degli anonimi assassinati, il teatro è stato un ponte fra la fame di sapere e la fame di quel che si rivela quando si abbandona il sapere. Un ponte che si può costruire con metodo, secondo le migliori regole dell’architettura, ma che non è fatto perché ci si fermi su di esso, come se fosse un traguardo.
Sì, il teatro è un’arte. Ma la sua bellezza non basta a rapirci. Quest’arte è stata a lungo svalutata. Poi finalmente è stata apprezzata e premiata come merita. Degli apprezzamenti e dei premi, i miei compagni dell’Odin ed io vi ringraziamo, commossi. Ma abbiamo visto le ossa. Non si può pretendere che la pompa delle cerimonie teatrali e la loro solennità appaghi la nostra fame. I vasti palazzi delle favole sono fatti per essere visitati e lasciati. Se ci attacchiamo ad essi, ci trasformiamo in figure illusorie nelle mani delle streghe e degli orchi che siamo diventati.
Amo il teatro perché mi ripugnano le illusioni. Non credo che lo scontento – questo spirito di ribellione che mi cavalca – possa alla fine acquietarsi. Quando sembra ridotto al silenzio, sento l’odore della menzogna salire alle nari. Se lo scontento si acquietasse, del teatro non saprei più che farmene.
Ripetere, ripetere, ripetere. L’azione, in teatro, è fatta per essere ripetuta, non per raggiungere uno scopo ed andare oltre. Ripetere significa resistere, opporre resistenza allo spirito del tempo, alle sue promesse e minacce. Solo dopo essere stata ripetuta e fissata, una partitura può cominciare a vivere.
Cadrà ancora molta neve, il gelo tornerà. Dall’interno di questo laborioso scontento fatto di azioni, applicando questo artigianato della dissidenza che chiamo teatro, i miei compagni dell’Odin ed io ci sforziamo di non cedere alle tentazioni del progresso e all’impeto del tempo. Senza turbamento, con accanto i nostri morti amati e per noi sempre in vita, guardiamo quel che di noi giorno per giorno se ne va.
Ancora una volta i miei compagni dell’Odin Teatret ed io vi ringraziamo. A coloro che hanno oggi venti o venticinque anni, da questa cattedra, non abbiamo altra lezione da trasmettere a parole.

Eugenio_Barba




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