Ossimori

Intervista a Enzo Moscato (Livorno, 7 aprile 2003)

Pubblicato il 20/07/2003 / di and / ateatro n. 055

Questa intervista, condotta da Concetta D’’Angeli insieme a Anna Barsotti, costituisce l’inizio di un laboratorio, La scrittura di scena, tenuto a Livorno, fra il 7 e l’11 aprile 2003, da Enzo Moscato e Concetta D’Angeli. Esso rientra di un più ampio Progetto per un Teatro Studio denominato “La Casa del Teatro”, che il Comune di Livorno, il CEL Teatro di Livorno e il Dipartimento di Storia delle Arti dell’Università di Pisa hanno promosso, avvalendosi della cura e della direzione di Fernando Mastropasqua, e della collaborazione dei DAMS di Torino e Bologna.

Concetta D’Angeli Comincerei da una curiosità che ho sempre nei confronti di chi scrive: quando tu incominci a scrivere, che cosa ti prende forma per prima? Voglio dire: la tua scrittura muove da una ispirazione, come dicevano i Romantici? Oppure da un ricordo o un racconto o un’immagine, un sogno o un personaggio?

In particolare poi, dato che i nostri incontri si concluderanno con la tua rappresentazione di Compleanno (il testo e lo spettacolo nascono per “decantare”, in qualche modo, la morte di Annibale Ruccello, che avvenne nel 1986, quando Ruccello aveva trent’anni), vorrei che tu ci parlassi delle emozioni da cui è nata questa opera, che secondo me servono molto per capire fino in fondo il senso dello spettacolo.

Enzo Moscato Ogni volta che vengo strappato dal mio carnaio del fare teatro, per essere messo di fronte a una riflessione su quello che faccio sono sempre contento; però rispondere alla prima domanda, cioè che cosa mi succede quando mi metto a scrivere un testo, forse è la cosa più difficile… Qualche giorno fa, terminavo di leggere La montagna incantata di Thomas Mann, un libro che ho aspettato vent’anni per leggere perché ero spaventato dalla mole! Poi alla fine ce l’ho fatta, ho seguito il consiglio dell’autore: “Non vi preoccupate se ci mettete una vita a leggerlo, leggetelo”. Alla fine del libro c’è una piccola appendice, che Mann scrisse quando era in America, nel 1939, già esule dalla Germania, e doveva parlare della Montagna incantata agli studenti di Princeton. A proposito delle critiche ricevute (non solo per La montagna incantata) afferma: “Benemerita sia la critica, perché ha uno scopo per me, che è quello di ricordare l’autore a se stesso”. Spesso l’autore è infatti la persona meno indicata a parlare del proprio lavoro; e io sono perfettamente d’accordo con Thomas Mann.

Certo che dirvi questo all’inizio di uno stage è un po’ disperante…

Quando scrivo, non so bene che cosa nasca per prima cosa: se l’immaginazione scenica o una scrittura a sé stante. Certe volte è successo che ho iniziato a immaginare cosa volevo mettere in scena e altre volte è successo il contrario, cioè ho immaginato solo la partitura grammaticale, sintattica, stilistica, contenutistica, tematica… Perché la faccenda che riguarda me è estremamente complessa: io non possiedo solo una identità doppia, ma una identità molteplice: autore, regista, attore, cantante, spesso anche capocomico.

All’inizio della mia attività, forse, esisteva la scrittura, cioè la mia propensione a voler scrivere quello che provavo e che immaginavo, quello che mi accadeva dentro. Però la cosa si è complicata, perché questa scrittura mi è stato chiesto subito di metterla in scena, e con me dentro, non solo come attore ma anche come direttore di me stesso. Questa è un’esperienza unica, molto particolare, che sia io sia Ruccello abbiamo vissuto: nell’universo teatrale napoletano esistono dei drammaturghi puri, ma a noi è capitato, per destino e per necessità economica, di essere invece anche gli esecutori di quello che scrivevamo. E ormai non mi posso più permettere, per un anno o per dieci anni, di non fare più questo, di mettermi a fare il teorico del teatro. Magari potessi! Perché io sento fortissima l’esigenza di riflettere su quello che faccio. Perciò è benemerito questo incontro, che mi concede di poter riflettere almeno per un po’.

Certe volte ho proprio il semplice desiderio di scrivere una certa cosa, senza neanche tanto immaginarmela… C’è solo la scrittura, la mano che si muove, che segna la prima parola che affiora. E poi a una parola segue una frase, a una frase un periodo, a un periodo una pagina, a una pagina il profilo di una storia, e poi dopo capisci se è una cosa che devi destinare al teatro oppure se vuole restare nel cassetto. Ci sono tantissime cose che ho scritto e non ho messo in scena, magari perché non erano destinate al teatro. Ma per quelle destinate al teatro devo fare un distinguo. Alcune tra le cose che ho scritto hanno una veste, un abito, che, alla prima occhiata, sembra avere poco a che fare con il teatro. Questo succede soprattutto per quello che ho scritto negli ultimi anni: questi testi hanno una veste davvero poco teatrale: non c’è didascalia, non c’è indicazione di personaggi, ci sono solo delle parole, dei frammenti: qualche volta mi limito ad aggiungere per me, solo per chiarire a me stesso, dei piccoli snodi di significanza. Sono testi che potrei chiamare poetici, ma è una definizione che non dice niente… Comunque non si tratta di prosa, né di narrazione; o forse invece sì, si tratta di prosa e di narrazione, ma in un’altra chiave. A volte è stata un’avventura di scrittura; e questa caratteristica è evidente nella composizione del testo. Faccio qualche esempio: La pyichose paranoiaque parmi les artistes del 1993 nasce come un saggio di semiologia, è proprio un saggio di semiologia che poi è diventato spettacolo. Perché diventasse spettacolo, ho dovuto fare un lavoro di teatralizzazione di quella saggistica. Il testo è dedicato a Lacan, che è uno dei miei Maestri, non in senso fisico, ma nel senso che ho adorato questo filosofo e psicanalista. L’ho studiato quando facevo filosofia e ho voluto scrivere un omaggio alla semiologia e alla psicanalisi di Lacan, trasferendolo però, teatralmente, nell’universo-Napoli con tutto quello che il trasferimento significa: c’è dentro il mio corpo, la mia eredità culturale popolare, quello che so del teatro… A chi legge il testo, che è stato edito [da Flavio Pagano Editore], esso potrebbe sembrare costituito da una serie di aforismi, ma invece in scena succedono tutt’altre cose.

Oppure a volte il mio testo nasce dalle immagini o dai desideri. Perché sapete che noi, noi teatranti, siamo schizofrenici: ognuno di noi è in realtà un’assemblea di persone. Una mattina tu, teatrante, ti svegli e dici “Voglio essere questa cosa”; in questo caso il testo nasce non tanto come una scrittura, ma come un desiderio corporeo. Poi da questo desiderio corporeo, nasce l’esigenza di metterlo su carta. Quindi: è il desiderio che dice questo, è il desiderio che si muove in un certo modo, eccetera…

Nel caso mio non è applicabile lo schema del drammaturgo che si mette là e scrive per sé e per gli attori e poi mette in scena. Un punto da sottolineare è per esempio l’esplicito tradimento che io faccio compiere ai miei attori nei riguardi di me autore e l’esplicito tradimento che io attore faccio nei riguardi di Enzo Moscato drammaturgo; e l’esplicito tradimento che io compio rispetto alla mia eredità culturale teatrale napoletana, rispetto a Eduardo, rispetto a Viviani, a Petito, a Scarpetta, a Patroni Griffi, a De Simone, a chi volete; insomma rispetto a tutti gli autori di teatro che ci hanno preceduto e che ci hanno lasciato una qualche eredità. Per quanto riguarda Annibale e me (parlo di Annibale perché lo conoscevo meglio e perché avevamo la stessa età e la stessa formazione – filosofo lui, filosofo io; e poi perché eravamo entrambi capocomici, avevamo delle piccole compagnie), c’è una spezzatura molto forte fra noi e la tradizione che ci ha preceduto. Questo però a livello molecolare. A livello atomico invece, sotterraneo, a ben guardare ci sono delle continuità, soprattutto con Viviani, ma in fondo anche con Eduardo. È un tradimento, ma con una grande fedeltà di spirito dentro.

Concetta D’Angeli Il discorso del tradimento autorizza a tradirti. Attenzione, visto che i gruppi poi lavoreranno a un’ipotesi di messinscena di un tuo testo…

Enzo Moscato Ti dirò che mi è capitato che mi abbiano chiesto delle traduzioni da alcune opere classiche; io le ho fatte, anzi dal ’91 in poi una porzione del mio lavoro è stata dedicata alla traduzione. Ma siccome io non sono capace di ubbidire alla lettera delle cose, ho ragionato sulla metafora: ho tradotto Burgess, Jarry, Molière, e altri (testi tutti messi in scena, ma da altri registi e altre compagnie), tradendoli, nel senso che mi sono affidato alla metafora, e non alla lettera, dei loro discorsi. In primo luogo, perché non sono uno specialista delle diverse lingue dalle quali traducevo e quindi non potevo praticare la strada della filologia della parola. Inoltre ho visto quei testi con il mio sangue, con la mia capacità di vedere il mondo, e dunque di interpretare il discorso fatto da quegli autori. Perciò preferisco non parlare di traduzioni, ma di trad-invenzioni, cioè di invenzioni che tradiscono quei testi: sono insomma dei tradimenti che partono dall’invenzione di quel testo; ma all’interno di queste invenzioni e di questi tradimenti sussistono delle plaghe di fedeltà letterale.

Il tradimento, dicevo, prima di tutto è nato per necessità, perché io non posso essere un traduttore letterale. Anche se traduco devo essere me stesso; e comunque i committenti mi chiedevano proprio questo, cioè di trasferire un determinato testo nel mio sangue. In genere, poi, trovo che chi non tradisce fa un cattivo servizio all’autore, soprattutto se gli autori da tradurre sono cronologicamente lontani da noi. In effetti stiamo parlando di ‘600, di ‘800: in questi casi le operazioni strettamente filologiche non hanno molto senso… Solo tradendo si restituisce la vita che l’autore ha messo in un testo.

Anche alcuni testi miei sono stati messi in scena da altri; e poi mi hanno chiesto, sempre con un po’ di perfidia, se ero contento di quelle regie. Sì, ero contento; ma non l’ho detto per una piaggeria. Io mi metto nei panni di chi fa quella operazione di messinscena: innanzitutto ritengo che non sia facile mettere in scena un testo mio; poi c’è il problema che io sono vivente, il pubblico mi ha visto recitare… Le messinscene degli altri le considero sempre un gran regalo: perché un altro regista, nel mettere in scena un mio testo, può imboccare una strada completamente opposta alla mia: se io sono dentro una logica onirica, un altro regista può lavorare sul contrario, su una logica narrante, realistica, oggettiva. Va tutto bene, purché ci sia coerenza, dal principio alla fine. Quello che mi può portare a qualche critica è quando uno imbocca una strada e poi non la percorre fino in fondo con radicalità. Agli altri, come a me stesso, io chiedo solo la radicalità della via intrapresa: che insomma il tradimento sia consumato fino in fondo.

Il tradimento non è un’invenzione qualunque: esiste anche a livello biologico, nel passaggio dal padre al figlio, perché il figlio, pur riproponendolo, tradisce il padre nel genoma, così che si ottiene una sorta di discontinuità nella continuità. Ritornando al discorso di me e di Annibale, direi che in questi termini bisogna vedere la nostra avventura drammaturgica: noi operiamo una rottura all’interno di una grande tradizione. Però attenzione: io mi vedo come un autore tradizionale, non mi ritengo fuori dalla tradizione. Tradizione infatti non è convenzione: la vera tradizione è sempre qualcosa che fa male, che spiazza e tradisce ciò che la precede. Penso di non essere affatto un autore troppo innovativo o estremo; penso di essere tradizionale, ma nel senso vero della parola. Così come I Dieci Comandamenti di Viviani furono un fortissimo ribaltamento della tradizione che lo precedeva; e così pure, all’epoca, nel 1945, Napoli Milionaria di Eduardo. Domani può darsi che anche quello che ho scritto io diventi convenzione e allora noi dobbiamo essere pronti al tradimento.

Anna Barsotti Alcuni studenti presenti a questo incontro hanno seguito il mio corso di “Storia delle poetiche e delle teoriche del teatro”, conoscono quindi la tua opera, il tuo pensiero ed in particolare lo spettacolo Compleanno, che abbiamo analizzato e commentato in video. Anche perciò mi piacerebbe farti una domanda che riguarda il linguaggio del tuo teatro: comunque si declini, è stato sempre un teatro connotato da un uso linguistico molto speciale, fin dall’inizio, anche se forse Compleanno è il testo in cui comincia a manifestarsi con evidenza la commistione dei codici e delle lingue. Vorrei che tu mi parlassi di questo aspetto della tua produzione drammaturgico-scenica.

E poi un’altra domanda a proposito di Isa Danieli, che ha avuto grande importanza nel tuo teatro e in quello di Ruccello. Vorrei che tu parlassi del rapporto fra te attore, fra te corpo, fra la tua opera ed un altro corpo d’attore. Luparella per esempio, inizialmente, la facevi tu. Poi l’ha fatta Isa Danieli…

Ecco, queste due domande, secondo me, sono collegate dall’uso del linguaggio.

Enzo Moscato In effetti convergono… Be’, comincerei da Compleanno, quindi dal rapporto e dall’esperienza condivisa con Annibale… Alla questione dei linguaggi ci arriverei dopo.

Ritorno a quello che diceva T. Mann: chi fa qualcosa ha poco tempo, o ha poca possibilità di meta-rifletterla. Poi, alla distanza, la guardi meglio e riesci a vedere le connessioni…

Inizialmente, con Annibale… in effetti le nostre esperienze teatrali sono nate quasi insieme. Il 1980 è la data che solitamente si pone come nascita della cosiddetta “nuova drammaturgia” (è un nome, questo, sul quale io non sono mai stato d’accordo): c’erano in giro Le Cinque Rose di Jennifer di Annibale e c’era il mio Scannusurice, il testo che mi ha fatto conoscere alla critica napoletana. Sia io sia Annibale eravamo visti molto male dall’ambiente teatrale, perché passavamo come due conservatori, dal momento che facevamo un uso massiccio della parola, in un’epoca in cui in Italia quasi nessuno usava più la parola a teatro. Poi con il tempo si è vista la radicalità con la quale noi usavamo la parola. Basta leggere uno qualsiasi dei nostri testi per rendersi conto della differenza tra il nostro uso della parola e quello che veniva fatto in precedenza e soprattutto con quello che facevano i contemporanei. In seguito, per me, si è passati dalla parola ai linguaggi. Parlo di linguaggi anche se essi possono essere variegati in relazione alle lingue che adotto, oppure, al contrario, sono monolitici, nel senso che uso solo il napoletano. Lo stesso Compleanno ha dentro di sé linguaggi diversi, sebbene sembri omogeneo; invece contiene delle stratificazioni, delle rotture, delle cristallografie linguistiche.

Non so perché l’ho fatto. Stranamente Bordello di mare con città e Compleanno vengono da una stratificazione di piccoli frammenti che avevo già composto; poi c’è stata la morte di Annibale, che mi ha dato il filo conduttore per mettere insieme questi piccoli tasselli testuali. Bordello l’ho scritto dall’ottobre ’86 al gennaio ’87, che è il periodo dopo la morte di Annibale. Direi che questa circostanza si sente nella struttura del testo: si sente un prima e si sente un dopo. Il primo tempo è caratterizzato in una maniera, nel secondo tempo succede la rivoluzione copernicana… Il prima per me era la speranza, il lavoro in comune, il progetto; e il dopo… be’, in quel momento lì non capivo proprio che cosa sarebbe accaduto. Se se ne va uno di ottant’anni, non dico che non si provi dolore, ma è un po’ come se se ne andasse il passato; se se ne va uno che di anni ne ha trenta è diverso. E infatti così è stato per la morte di Annibale. Questo prima e questo dopo sono l’uno la faccia dell’altro, uno è monolitico e l’altro è variegato; uno è giocato su una sola figura e l’altro su molteplici figure; e poi c’è il gioco del maschile e del femminile, come assenza o come attesa.

Tornando alla questione dei linguaggi, posso dire che ho abbandonato il pensiero della parola a sé stante forse proprio nell’85-’86. Ci sono state varie fasi nella mia vita drammaturgica: forse i primi cinque anni, come mi facevi notare tu, Anna, c’era un rapporto più ravvicinato con la tradizione, a parte Scannasurice che è un testo singolare. Ma da Trianon a Bordello di mare a Ragazze sole io mi colloco, più o meno, lungo un’asse che si mantiene vicino a ciò che mi aveva preceduto. Però già in questa fase introduco dei trabocchetti, dei trompe-l’oeil: una sorta di naturalismo fittizio che invece apre altre strade. Questa fase si può definire il periodo poetico; e poi, verso il ’92-’93 all’incirca, mi sono spostato su temi che potrei chiamare antropologici. Le cose che si vedono ancora in giro, di me, sono i monologhi; mentre non si è visto (o si è visto molto poco) il lavoro che ho fatto con il molteplice, cioè su molti attori.

Agli inizi l’incontro tra me e Annibale ha realizzato una condizione di specularità: appartenevamo alla stessa generazione, avevamo quasi gli stessi gusti teatrali, forse lui con un amore maggiore per la narrazione. Annibale amava molto Eduardo, io un po’ meno (specie come drammaturgo). Ma lui aveva una vera passione per le mitologie napoletane: aveva studiato con De Simone, quindi amava molto l’antropologia della maschera e il folclore (che poi ha fatto entrare nei suoi testi in una maniera originale e depistante), mentre a me questi aspetti non hanno mai interessato tanto. Abbiamo anche scritto delle cose a quattro mani, e spesso abbiamo recitato insieme. Infine siamo stati scoperti insieme, al festival di Montalcino nell’86, un mese prima che Annibale morisse: io facevo Occhi gettati e lui Mamma. Ci hanno scoperti allora, anche se io l’anno precedente avevo vinto il Premio Riccione e lui aveva vinto l’IDI. Prima, coi nostri monologhi estremi, finivamo in paesini sperduti, dove abbiamo rischiato di essere linciati; se andavamo in un teatro a Napoli per rappresentare le nostre opere, non ci davano credito. Oggi mi meraviglio di quanti vogliono vedere i nostri spettacoli.

Quello che mi sembra interessante, per chi si occupa di teatro, è la concretezza dell’atto teatrale, che ci ha messi subito in grado, me e Annibale, di capire come si fa il teatro e quindi anche di avere un effetto di feed-back sulla scrittura. Scrivere per il teatro deve avvenire a posteriori dell’atto scenico. Se non conosci il palcoscenico, non c’è niente da fare, rischi di scrivere un’altra cosa.

Tornando a Compleanno ho sentito personalmente l’esigenza di fare un’operazione di abreazione del dolore, di allontanamento, di distanziamento del dolore.

Concetta D’Angeli Vorrei farti ancora una domanda a proposito della lingua e in relazione a Compleanno. C’è una particolarità formale in questo testo che mi colpisce molto e vorrei che tu ce ne parlassi perché penso che essa faccia “lievitare” il livello emotivo del testo e dello spettacolo; mi riferisco al rapporto tra te e Annibale Ruccello come traspare dalla tessitura linguistica di Compleanno. Bisogna che premetta che l’operazione che spesso Enzo Moscato fa sulla lingua delle sue opere presuppone un riferimento stretto alla tradizione, a ciò che la tradizione consegna della scrittura teatrale. I suoi testi sono costituiti spesso da intarsi di citazioni, rimandi, riferimenti, eccetera; se si vanno a guardare da vicino, ci si caccia in un gioco di riconoscimenti, divertente ma pericoloso, perché uno si possono fare delle figuracce tremende, dal momento che Moscato è molto colto e perciò il gioco dei riconoscimenti, con lui, è molto difficile. Nel caso di Compleanno l’operazione linguistica di rimandi, riferimenti, allusioni riguarda l’opera di Annibale Ruccello. Anche questo mi sembra, in qualche misura, sia un modo per controllare il lutto, sia per ridare voce teatrale a chi ormai non ce l’ha più.

Vorrei che queste allusioni, questi riferimenti tu ce li mostrassi, Enzo, che ci facessi qualche esempio. E anche che tu ci spiegassi come questi riferimenti e allusioni hanno funzionato per te, nella testimonianza di amicizia e di lutto nei confronti di Ruccello, che tu hai voluto esprimere con Compleanno.

Enzo Moscato Con Compleanno io credo di aver fatto come sempre ho fatto: mi sono procurato un’apertura con me stesso, cioè una situazione psichica emozionale passiva – “Voci, aggreditemi”. Mi sono messo nella posizione del medium. E per prima cosa sono venuti fuori dei frammenti di esperienze che io e Annibale avevamo vissuto insieme, parole che avevamo sentito, questioni su cui avevamo riflettuto o riso o su cui ci eravamo incazzati o addolorati. E questa è una parte delle voci. Altre voci sono le voci drammaturgiche di Annibale, i suoi deliri, le traiettorie che lui seguiva per costruire i suoi testi, e che io conoscevo molto bene.

Compleanno è un testo aperto, polisemico; nel presentarlo, anche all’estero, ho dichiarato a volte che lo spettacolo è dedicato al mio gemello drammaturgico, Annibale Ruccello appunto. Ma ho notato spesso che avrei anche potuto non fornire questa avvertenza, perché si capisce immediatamente che si parla di una cara presenza, di un caro fantasma che non c’è più e che vuole ritornare. Tant’è vero che di solito chi ha visto lo spettacolo mi fa domande su tutto, non solo sulle parole (che significano, perché sono dette in quel modo), ma anche sul senso delle musiche che ho scelto. In particolare, c’è una musica che uso da sempre in Compleanno: è Tu quieres volver, una bellissima canzone spagnola dei Gipsy Kings – dice: “Tu vorresti ritornare”.

Uno spettacolo (qualunque spettacolo) si fa indipendentemente da te e come un fiume raccoglie tutti i detriti che trova sul suo fluire. Sono 17 anni che rappresento Compleanno: chi lo ha visto più di una volta ha sempre l’impressione che sia uno spettacolo diverso. A parte le varianti che nel tempo ho introdotto, è proprio la struttura aperta dell’opera che permette di fare questo. Certamente la prima volta ho fatto piangere tutti: la sera della “prima” chi conosceva Annibale si è liberato, assistendo allo spettacolo, del dolore della sua morte. Però poi come si fa a continuare a dare quella stessa emozione per 17 anni? Il fatto è che non si riesce a dare per così tanto tempo un’emozione del genere se non ti mantieni aperto. E questo significa rischiare di perdere ad ogni momento quello che hai accumulato.

Vi sto dando un’indicazione di metodo che mi sento di dare a qualsiasi attore o drammaturgo.

Questo spettacolo si rinnova ogni volta, ma sempre rimanendo uguale a se stesso: io non muto una parola! Addirittura gli snodi vocali sono uguali! Però lo spettacolo è sempre diverso. E’ che dal pubblico che ti guarda, dai luoghi dove fai lo spettacolo, ogni volta ti arrivano delle sollecitazioni che fanno emergere alla luce alcuni pezzetti che sono pronti a emergere e che poi confluiscono nello spettacolo. In alcuni punti mi sposto indietro di 30/40 anni: in quei casi non si tratta di ricordi o emozioni miei o di Annibale, ma per esempio dei racconti di vecchie signore, che ho sentito quando avevo 3-4 anni e che mi hanno parlato, mettiamo, dei bordelli. Io non ho mai conosciuto un bordello, ma evidentemente questi racconti mi si sono fermati nella testa e di lì, per esempio, si è generata Pièce Noire. Ogni testo è solo una parte della vitalità che acquisirà in seguito; e da questo punto di vista è molto importante il momento in cui lo si mette in scena, sia la prima volta sia nelle repliche. In genere io sono un autore fedele a se stesso; ma come attore sono invece un gran traditore dell’autore. Ripetendo tante e tante volte una determinata performance, io, come attore, provo delle idiosincrasie verso alcune zone del testo e degli amori, invece, verso altre zone: dipende anche dai momenti o dalla tua situazione psicologica di quel momento. Certe volte a me degli spettacoli piacciono soltanto le sbrodolature, le schiume. In Compleanno, c’è il secondo monologo di Pagnottella, che è molto comico, la gente ride, e a me certo questo fa piacere; ma magari a me piacciono altre zone del testo, dove intervengo, cambio, senza avvertire. A me piace molto il momento dello spogliarello, che è fasullo e stilizzato naturalmente, dedicato al fantasma; di questo momento approfitto per tirarci dentro alcune frasi di un altro mio testo che si chiama Little Peach.

Concetta D’Angeli Enzo Moscato fa spesso queste operazioni di smontaggio, trasferimento di pezzi di testi precedenti a testi successivi. Effettivamente la tua, Enzo, sembra un’opera continua, un’opera che non si chiude mai. Questa mi pare una caratteristica importante della tua opera, una sorta di predilezione per il “non finito”: potrebbe trattarsi di una difficoltà a staccarsi dai testi che scrivi, come una volontà di mantenere una continuità fisica con loro? Mi sembra in effetti la riproposizione di una precarietà che appartiene propriamente al teatro.

Enzo Moscato Devo di nuovo premettere che tutti i miei convincimenti teorici, tutte le considerazioni su quello che ho realizzato derivano dal fatto che gli altri me lo hanno fatto notare; oppure io ho avuto il tempo e la distanza per ragionarci su quello che faccio. Appena finisco una scrittura e realizzo la sua eventuale messinscena (dico “eventuale”, ma di solito alla mia scrittura segue sempre la messinscena), io mi distacco dalla mia opera, me ne allontano, essa appartiene agli altri e io non la penso più come mia. Poi col tempo, magari mentre scrivo qualcosa d’altro, riemerge, attraverso percorsi sotterranei che mi sfuggono, una parola, un suono, una significanza; e mi dico “guarda questo che cosa vuol dire…”. E comincia così una qualche consapevolezza, che io acquisto guardando da lontano. Del resto, anche se guardate un quadro dovete guardarlo da lontano per vedere tutte le connessioni.

Devo dire che io non sono molto affezionato a quello che ho scritto, soprattutto le cose teatrali. Perciò la riutilizzazione di frammenti di testi che passano da un’opera all’altra, sembrerà paradossale, ma in sostanza nasce da disamore e dalla mia distrazione nei riguardi di quello che faccio a teatro. Io nego a queste cose un’identità precisa; anche perché tutto il mio teatro è giocato non sull’identità ma sulla disidentità, a partire dal mio essere napoletano. Cioè, io nego la mia napoletanità affinché affiori una vera identità di napoletano. Quei frammenti insomma rientrano nei nuovi testi che scrivo in primo luogo per una distrazione. Come una madre o un padre, che non hanno mai guardato troppo i figli e poi si dicono “Però, avrei potuto guardarli di più”. Così a volte mi capita di pensare, di una mia frase, per esempio, “Ma guarda questa frase come è bella…”. Mi capita perfino che, se sento un attore dire una frase mia, non la riconosco e gli chiedo “Chi l’ha scritta questa roba?”, e loro si stupiscono: “Ma come! Questa è una frase tua!”.

C’è insomma una mia volontà di dimenticare quello che scrivo, e poi uno sguardo da lontano, che recupera quello che ho scritto, o una parte. Lo sguardo da lontano è molto importante. Io dico che una situazione d’amore può nascere solo da uno sguardo da lontano. Lo sguardo da vicino è quasi sempre miope, è distorcente. Non è che, quando guardo da lontano e recupero quello che ho scritto, lo recupero per intero: prendo solo quello che mi serve in quel momento; del resto, nulla si crea, nulla muore e tutto ritorna. Come Beckett, penso che non facciamo altro che girare intorno allo stesso punto e dire sempre le stesse cose; se siamo fortunati, lo facciamo da angolature differenti. Ma in sostanza siamo prigionieri di un linguaggio, siamo prigionieri di un passato… La cosa più giusta forse è cercare di essere consapevoli di questa prigionia e farla diventare un fatto deliberato.

Scannasurice, che vuol dire “ammazzatopi”, nasce perché, quando ci fu il terremoto a Napoli, si diceva che i topi (una certa leggenda – o forse una verità – vuole che a Napoli ci siano 6 topi per ogni abitante), sotto l’urto del terremoto, si erano messi a migrare: mettiamo, i topi del porto erano saliti al Vomero, i topi del Vomero se ne erano scesi da qualche altra parte… Con Annibale ci facevamo un sacco di risate su questo… In Scannasurice volevo che i topi tornassero ad essere il punto cardine. Io credo nella migrazione, cioè nel fatto che le cose si devono muovere anche all’interno dello stesso sistema. Se le cose si muovono, questo ti permette di vederle anche da angolature differenti. Per esempio, se tiro fuori una frase da Scannasurice e la metto in Occhi gettati’, come è davvero successo, non è per pigrizia, ma è anche, se volete, un esercizio della memoria, un ricordarsi a se stessi; ma non con narcisismo (cioè non perché quello che ho fatto è prezioso e va salvato a tutti i costi) perché non c’è nessuna logica di economia borghese, del tipo “salviamo le cose, non le gettiamo via, sennò sono guai o porta male…”. Il fatto è che bisogna essere legati al passato; e la mia scrittura è legata al passato, il rapporto col passato per me è molto forte. Direi anzi che sono più legato al passato che al presente o al futuro. Naturalmente è un passato visto con una lente presente, che non può non essere distorcente. E’ questo che mi ha portato a fare dei lavori specifici sulla storia: Luparella per esempio, Sull’ordine e il disordine dell’ex-macello pubblico.

Certo che per i filologi queste “migrazioni” interne alla mia scrittura sono un vero rompicapo; ma che importanza ha! Mi piace molto una frase di Eduardo, forse apocrifa, che ho usato nel finale di Recidiva, un testo dedicato a Copi, che è uno scrittore di teatro poco conosciuto e direi anche rimosso. A Eduardo piaceva mettere tutto in ordine, era un cartesiano; ma prima di morire pare che abbia detto: “voglio lassa’ tutte ‘e ccose ‘mbrugliate, ropp’a mme non s’ha da capi’ niente”. È bello, un autore deve fare così; i grattacapi sono di chi resta, chi resta ha il compito di mettere a posto… Che tutto sia sempre perfettamente a posto non fa bene neanche alla vita di un’opera. Anche Anna Maria Ortese, uno dei miei miti, faceva così e la filologia delle sue opere è un grande rompicapo: non si capisce da dove nascono, dove stanno… Anche la vita, d’altra parte,è così, è caos…

E poi il teatro è perdita, non è acquisto. Anche se è vero che le cose vanno tenute anche in un certo ordine: un ordine/disordine, ecco!

Anna Barsotti Da parte di Eduardo c’era anche una certa malignità nel sovvertire il luogo comune. Non per niente ha seminato date contraddittorie dappertutto. Secondo me, proprio perché era tanto razionale, aveva il gusto di mettere in crisi l’ordine apparente, di mostrarne la “confusione” nascosta! “Mo se sono imbrogliate le lingue”, dice un personaggio di Le voci di dentro.

Per questa via vorrei ritornare al problema delle lingue, che mi interessa particolarmente, ed anche al problema del passaggio dei corpi. Quel tuo linguaggio teatrale contaminato di lingue differenti, il napoletano sì, però anche tutte le lingue della modernità, canzoni, fumetti, televisione, inglese, spagnolo, tedesco, per ritornare magari al latino (in Arena Olimpia citi Virgilio), come è nato? È nato tutto insieme? Sei partito dalla reinvenzione del dialetto … ma come base dove hai innestato la combinazione babelica delle “voci” oppure sei partito proprio da una visione caleidoscopica del linguaggio?

Lo stesso discorso vale forse per i corpi, non so…

Enzo Moscato La mia risposta sarà un po’ improvvisata perché su questo argomento rifletto adesso per la prima volta. Allora: è evidente che il sostrato di base che io uso nelle mie opere teatrali è il napoletano, anche se un certo tipo di napoletano. E qui è necessario che io aggiunga qualche cosa. Intanto il napoletano è per me la lingua materna: da bambino ho avuto la fortuna di apprendere il dialetto come prima lingua e poi la gran fortuna successiva di continuare a parlarlo, in casa, con tutti. E poi, a 6 anni, come i bambini del popolo dell’epoca, quando in tutta Italia si parlavano ancora tanti dialetti, ho imparato l’altra lingua, più castigata, l’italiano insomma.

Dico forse una banalità, ma è come se si fosse creata in me una personalità doppia, una persona ambivalente, che parlava un “vernacolo nazionale”. Forse sarebbe stato diverso se, invece che nei quartieri Spagnoli, fossi nato in un quartiere di Napoli più borghese, al Vomero o a Posillipo. La cultura che ho appreso da bambino però non è soltanto cultura linguistica o quella pseudo-cultura mediata dal patrimonio canzonettaro; c’è anche una componente che chiamerei “cultura vista”. Ricordo per esempio gli anni passati nei Quartieri Spagnoli, dove abitavo… e certo vedevo tante cose, e non avevo bisogno che me le spiegassero: le capivo, le sentivo. Questo mi ha dato una certa apertura rispetto agli altri. Poi mio padre decise di trasferirci a Fuorigrotta, che era un quartiere operaio perbenino. Lì non si poteva fare vita di strada… Poi ho fatto gli studi superiori, mi sono laureato… E poi, un bel giorno, è venuta fuori la possibilità di fare l’attore…

C’è anche da dire che la dimensione dello spettacolo è sempre stata un po’ presente in casa mia, mi sembra di averla sempre vissuta, perché un po’ di spettacolo lo facevamo, noi fratelli; anche i miei fratelli più grandi di me avevano avuto esperienze teatrali, il maggiore ha fatto avanspettacolo con Isa Danieli… Anche per questo quando è venuta fuori l’opportunità di fare teatro non è che ci sono stato a pensare troppo: l’ho fatto e basta. Poi ho avvertito lo scarto tra la teatralità naturale della mia famiglia (a Napoli tutti si sentono un po’ attori) e il vero lavoro in teatro. Il teatro vero e proprio è arrivato tardi: prima ho fatto l’insegnante, e la prima volta che ho visto il teatro avevo 25 anni, la mia formazione, in quanto uomo di spettacolo, è semmai cinematografica. Questa informazione forse può interessare: voglio dire, il fatto che la mia prima formazione è stata cinematografica, non teatrale. Infatti direi che la mia opera è molto poco teatrale; è più cinematografica, oppure teatrale ma non nel senso prosastico della parola.

Torniamo alla mia lingua. Non c’è mai stato un momento in cui ho pensato “ora scrivo in napoletano”. Sta di fatto che il primo titolo che mi è venuto in mente, per una pièce, è Carcioffolà, che è il titolo di una vecchia canzone napoletana. E’ significativo: significa che rimane comunque una sonorità di base, natale direi, che è il napoletano. L’ultima cosa che ho fatto, per esempio, Kindertraumseminar, il “Seminario sui sogni dei bambini”, è derivata dalle mie letture psicanalitiche, da Jung soprattutto; questo lavoro risulta (e questo lo dico riferendo l’opinione di molte persone) è più comprensibile di altri lavori miei. Qui c’è molto napoletano, ma c’è anche molto italiano, e anche molto tedesco. Mi hanno chiesto perché. Dal punto di vista testuale, questo mio ultimo è un grosso lavoro, ci ho messo tre anni per raccogliere il materiale, tradurlo, re-inventarlo, scriverlo: ho usato la letteratura sacrificale, ho dato ascolto a tutte le voci (da Primo Levi a Etty Hillesum a Kantor…) che hanno parlato dell’olocausto. Avevo a disposizione testi in italiano, e quindi è stato inevitabile che la mia scrittura, molto sostanziata di citazioni, fosse in italiano. La maggiore comprensibilità di quest’ultimo testo (almeno al primo approccio) dipende dal fatto che, mentre al nucleoo significante di un testo come Compleanno, per esempio, tu devi arrivare per percezioni e intuizioni, stavolta ci arrivi immediatamente, se non altro perché si sa a che cosa è dedicato lo spettacolo.

Io sto sempre molto attento a integrare le varie lingue che uso: scrivendo, faccio un lavoro di caratura, nel senso che sto attento a carare il peso delle varie incidenze linguistiche. Ci sono dei lavori che ho fatto interamente in italiano, nei quali non ho mai ceduto al ricatto del farmi comprendere, e in cui sentivo che la comprensione (che è uno dei livelli dell’atto teatrale, poi ci sono altri livelli: l’intuizione, l’emozione…) la affidavo al corpo: in Compleanno, quello che non si capisce da un punto di vista semantico-linguistico, si capisce da un punto di vista prossemico. Sono sicuro che, se facessi Compleanno in Cina, in qualche modo risulterebbe comprensibile.

La presenza dei corpi, e poi i gesti, i movimenti, sono essenziali; e qui si apre un altro problema importante, che è il modo in cui mi relaziono agli attori che sono capitati nel mio teatro, a parte gli attori che lavorano con me. Potrei parlare di Isa Danieli… Lei è una donna straordinaria, anche dal punto di vista delle capacità umane… Nella mia vita si potrebbe dire che Isa c’è stata da sempre, e anche nella vita di Annibale: ricordo che io facevo (e c’era anche Annibale fra gli attori) Caffè di notte e giorno e Toledo di notte, due atti unici di Viviani: io facevo Saponariello, un personaggio bellissimo, che deve anche cantare. Era un personaggio di solito interpretato dallo stesso Viviani, e sua figlia, quando vide lo spettacolo, rimase molto commossa dalla mia interpretazione. Ricordo che c’erano pochissimi spettatori e fra loro c’era Isa Danieli, che noi tutti conoscevamo, perché aveva fatto Amore e Magia nella Cucina di Mamma della Wertmüller, aveva fatto la Gatta Cenerentola… E’ stata lì attentissima, disponibile… E’ raro che un’attrice così nota vada a vedere degli sconosciuti. Ecco, questa è lei: ancora oggi porta in teatro un testo di una scrittrice pressoché ignota, Letizia Russo, perché ha un grande senso del teatro e grande attenzione e rispetto per le persone che fanno teatro. Dopo averci conosciuti in quella occasione, Isa cominciò a frequentare soprattutto Annibale; si entusiasmò al suo Ferdinando. Annibale mi diceva spesso: “ma vai a trovare Isa, è curiosa di te, ti vuole conoscere”; ma io avevo un po’ paura di questa maga. “Vai, vai”, mi spronava Annibale, “portale Luparella“. Alla fine ci andai: lei aveva perso da pochissimo tempo il fratello, era vestita di nero, una bellissima donna. Lesse Luparella e si mise a piangere. Disse: “Questo testo, qualsiasi cosa tu mi dica, prima o poi io l’aggi’a fa’”. Lo ha fatto nel ’97, una quindicina di anni dopo.

Con Isa, come con un’altra grande attrice della tradizione teatrale napoletana, Angela Pagano, bisogna stare attenti, perché avere a che fare con loro significa in pratica confrontarsi con tutto il patrimonio culturale. Io credo che sia presuntuoso mettersi a dire a Isa o a Angela: tu devi fare così o cosà. Isa possiede una grande visionarietà e io, nel relazionarmi con lei, assumo quasi un atteggiamento buddistico, mi dico: “vediamo che succede”, aspetto… Solo che “vediamo che succede” non è l’unico atteggiamento che si può assumere quando si deve realizzare un lavoro teatrale; però mi pare corretto assumere un atteggiamento di estrema delicatezza, bisogna avere una disposizione di grande apertura, bisogna essere disposti alla perdita insomma. Sono stato a guardare come il grande amore di Isa per Luparella passasse per tutte le fasi alchemiche: entusiasmo, denigrazione, disperazione. Può succedere che inizialmente ci sia un fraintendimento; ma a me non è successo quando ho lavorato con Isa in Luparella. Annibale invece ha avuto dei problemi, a un certo punto era disperato: sebbene fosse molto innamorato dell’attrice Isa Danieli, non sapeva proprio come comportarsi. Io assumo un atteggiamento di distanza, come vi ho detto, di attesa; invece Annibale si dava, e più si dava più naturalmente diventava imperiosa, da parte di Isa, la richiesta successiva di darsi. Immaginate come si deve trovare un ragazzo di 26 27 anni… A me la richiesta di Isa di farle la regia è venuta quando ero in età più matura; e poi io sono diverso da Annibale. Isa mi accusava di trascurarla: “Ma tu te ne fotti proprio, ma tu non mi guardi proprio”… E’ che io penso che bisogna mettersi da lontano e far accadere quel che deve accadere. E infatti alla fine qualcosa è accaduto; però attraverso una serie di passaggi che forse un altro regista al posto mio non avrebbe giudicato positivi. L’effetto finale che si è verificato tra me e Isa è stato una vera simbiosi: in Trianon lei era me, non nel senso “copiativo” della parola, ma nel senso che (non saprei dirvi come ha fatto) Isa è riuscita a trasmettere al pubblico, insieme alla sua, anche la presenza fisica del regista.

Dunque per me è molto importante la distanza. E questo rientra bene nel nostro discorso sulla messinscena. L’unico punto imprescindibile per me è la coerenza (che poi è incoerenza, se volete). Per coerenza io non intendo l’atteggiamento caparbio di uno che, pur accorgendosi di aver sbagliato, va comunque fino in fondo alla sua strada. Questa non è coerenza per me. Coerenza è sì tenere fede a dei principi, ma con una certa mutabilità interna, con una certa elasticità. Se prendo la strada A, devo tener presente che esiste B. Lo sbaglio, la nevrosi stanno nella unilateralità.

Distanza, d’altra parte, non vuol dire freddezza o disinteresse. La distanza è uno sguardo da lontano, con le giuste angolature. Il teatro è un mass-media freddo, nel senso che è giocato su due sensi: la vista e l’udito, che, come tutti sanno, funzionano sulla distanza. Io ho visto moltissimi esempi di persone che si sono chiuse e infine bruciate in quello che fanno, perché non adottano un momento di allontanamento, che è fondamentale. Se ti allontani, se guardi altro, questo altro ti arricchisce, e questa ricchezza poi ti ritorna in qualche forma. Io non vado quasi mai a teatro; anche quando facevo l’insegnante e mi chiamavano di pomeriggio per le riunioni o con le famiglie, lo dovevo fare ma lo trovavo una delle esperienze più brutte del mio lavoro. Perché due volte nello stesso posto non ci volevo tornare. Mi dico: se faccio una cosa che già mi uccide la salute, perché devo avere l’obbligo di ripeterla anche quando non sono obbligato? Secondo me bisogna affacciarsi su qualcosa di altro; e infatti io credo che sia molto più interessante, per uno che fa il mio lavoro, andare al cinema o in un pub, insomma essere nella vita, cercare di evitare la tautologia del proprio lavoro. E anche questo può essere un consiglio per un’ipotetica messinscena.

[domanda dal pubblico] Questi discorsi valgono anche per un ragazzo o una ragazza che vuole entrare nel mondo del teatro?

Enzo Moscato Qui è necessaria una chiarificazione a monte. Quando io faccio gli stages con aspiranti attori, chiedo sempre se vogliono fare teatro o se vogliono fare spettacolo. Sono due cose completamente diverse su cui spesso le persone si ingannano. D’altra parte, non è facile rispondere a questa domanda. Io stesso inizialmente non sapevo cosa volevo fare, sapevo solo che sentivo l’esigenza di esprimermi. Non è detto che frequentando continuamente il teatro si abbia una maggiore possibilità di fare bene questo lavoro. A volte è possibile il contrario, perché potrebbe incontrarsi solo con gli aspetti più negativi del teatro.

Comunque il problema sollevato è grosso; io penso che il problema di come rispondere al desiderio di fare teatro è in parte lo stesso problema della formazione del pubblico. Chi lavora in teatro si lamenta molto perché il teatro interessa a pochi; però nessuno si pone il problema della formazione del pubblico.

Per tornare alla tua domanda: se un giovane ha desiderio di teatro (e non solo di spettacolo), ho sempre pensato che debba studiare profondamente. Se tu non conosci a fondo ciò di cui ti vuoi occupare, non puoi neanche sapere quale potrebbe essere il tuo apporto personale, lo spazio e il ruolo che ti puoi assumere nel lavoro che farai. Penso infatti che non esiste il teatro, ma i teatri: il che significa che non c’è nessun limite alla soggettività. Voglio dire che il teatro è dei soggetti, mentre, per esempio, il cinema è dei registi. Chi ha fatto sia cinema sia teatro sa che come si è soggetti in teatro non si può essere soggetti in un film. Nel teatro l’attore è autore: non nel senso che si scrive da sé il testo, ma nel senso che metabolizza il testo. A un ragazzo che ha il desiderio del teatro bisognerebbe dare subito da leggere gli scritti teatrali di Artaud, per capire se è portato al teatro.

Secondo me il teatro lo dovrebbero fare tutti, non dovrebbe essere relegato solo al professionista. Il teatro è desiderio di auto-espressione, e dunque chiunque dovrebbe avere il diritto, prima o poi, di salire sul palcoscenico: perché si tratta di un’esperienza unica, anche solo per conoscere lo sconvolgimento organico che succede. Se nelle scuole ci fosse il teatro praticato, noi avremmo qualche livello in più di consapevolezza.

Peraltro devo aggiungere che la vita quotidiana del fare teatro, in una società che di teatro sempre più non ne vuole sapere, è molto tosta. Quindi, soprattutto per onestà, bisogna informare un giovane anche di questi aspetti pratici. Prendersi in una scuola di recitazione un ragazzo, per cinque anni per esempio, impartirgli una serie di insegnamenti tecnici, assicurargli che poi, alla fine dei cinque anni, diventerà un attore… be’, questo è criminale.

[domanda dal pubblico] Nelle sue risposte è venuto fuori due volte un riferimento non troppo implicito ad una maschera che per me rappresenta una delle chiavi interpretative del suo lavoro: Pulcinella. Ha detto in precedenza che tra lei ed Annibale Ruccello c’erano delle forti differenze: ad esempio Annibale era molto più legato alla tradizione teatrale napoletana, amava molto l’antropologia della maschera e il folclore, mentre a lei questi aspetti non sono mai interessati tanto. Poi ha detto che ha sempre odiato le “pulcinellerie” e con questo termine penso intenda la trasposizione negativa della maschera di Pulcinella in semplice burattino privo dei connotati originari. A me sembra di notare però in Compleanno, che purtroppo è l’unica sua opera che ho visto, una massiccia presenza della maschera di Pulcinella, che sappiamo essere un medium tra la vita e la morte, tra il mondo terreno e quello ultraterreno, tra il maschile ed il femminile, …tutti questi aspetti, potremmo dire antropologici, ricorrono nel suo spettacolo…

Enzo Moscato C’è un aspetto deleterio nelle “pulcinellerie”; ma io ci tengo a ricordare di avere fatto Orfani veleni, che è uno spettacolo interamente dedicato a Pulcinella. Agli inizi della mia carriera Pulcinella non mi interessava, perché agli inizi urgono altre cose. Solo nel ’90 ebbi una sollecitazione esterna a scrivere qualcosa su Pulcinella, e è nato così Fuga per comiche lingue tragiche a caso, un monologo dedicato a Pulcinella. Dopo tredici anni e dopo aver accumulato altri materiali, è venuto fuori Orfani veleni. Secondo me Pulcinella, il vero Pulcinella, non ha niente a che fare con il personaggio insignificante a cui è stato ridotto, perché davvero Pulcinella è stato trasformato da divinità a burattino. Ma Pulcinella non è Arlecchino, non è solo una maschera comica popolare! E anche in tempi moderni, ha ispirato tutti i più grandi artisti. Pulcinella è la terribilità dell’inconscio: se si mette la maschera, è per proteggersi.

Quando ero ragazzino, sui Quartieri c’erano ancora le cosiddette guarattelle, cioè i teatrini fatti coi pupi, le marionette insomma. Adesso se ne vedono pochi, bisogna andare nei musei per vederli. Pulcinella nelle guarattelle piglia sempre un sacco di botte, muore e risorge centinaia di volte. Da bambino ne avevo paura, ho odiato Pulcinella; non mi faceva ridere, mi era antipatico. Evidentemente già da allora io vedevo dell’altro, dietro la marionetta: quella maschera era inquietante, per me, e me ne rendevo conto. Più tardi, in età adulta, leggendo, ho scoperto che Pulcinella rappresenta la morte, e per di più una morte metamorfica, cioè una morte terribilmente collegata alla vita. E’ un’immagine di morte di cui la nostra società avrebbe molto bisogno, perché noi vediamo troppa morte nel senso brutale della parola.

In Compleanno si fa un esercizio catartico di contenimento del dolore per arrivare alla vita. Direi che è questo pensiero ciò che Pulcinella ha sempre veicolato e che sempre ha fatto paura: e cioè che possano saltare i confini tra vita e morte, tra sanità e follia…

Questo io voglio mettere in evidenza nella maschera di Pulcinella; e lo faccio in aperta polemica con quello che di Pulcinella normalmente si fa: nient’altro che burattiname. In questo senso polemico parlo di pulcinellerie. E invece Pulcinella è la lava, è la possibilità che tutto sia sterminato da un momento all’altro; è la possibilità della sovversione, quando il servo potrebbe mettersi al posto del padrone; e poi è una figura che si apre al Mediterraneo, è in qualche modo il tragico visto di spalle. Assomiglia in questo a Totò, che è stato un grande inventore di lingue. Totò non ha mai fatto Pulcinella, pensate che grande umiltà! Totò mi fa ridere per la sua straordinaria capacità di invenzioni linguistiche. Sere fa ho rivisto un suo film, insieme a Peppino De Filippo. Anche Peppino era un grande sconvolgitore di lingue e secondo me, come attore, era molto più grande di Eduardo.

Concetta D’Angeli Su questa linea ti volevo chiedere qualcosa a proposito del comico che c’è nei tuoi testi ma anche nelle tue messe in scena. Però è un comico che non si oppone all’altra dimensione, che è quella tragica. Mi pare che il tuo comico spesso nasca da una manipolazione linguistica, come se tu trattassi la lingua allo stesso modo di come stavi rappresentando adesso la lingua di Totò, come fanno a volte anche i bambini, quando giocano con le assonanze, le analogie (è stato Gianni Rodari a mettere in luce l’importanza di questi modi di giocare col linguaggio sia per acquisire competenza linguistica sia per divertirsi).

Ecco, vorrei che tu parlassi del tuo comico, che non è mai staccato dall’altra sua faccia, quella seria e addirittura quella tragica, secondo la grande lezione shakespeariana. Mi piacerebbe infatti che nel lavoro di gruppo dei prossimi giorni questo aspetto non venisse ignorato, anche là dove è prevalente la morte, la tragedia…

Enzo Moscato Innanzitutto c’è un pregiudizio che io voglio sfatare a proposito del mio teatro. Siccome sono considerato un autore di ricerca, si pensa che sono pesante, noioso, troppo serio; mentre chi ha visto i miei spettacoli sa che io, col corpo e la voce, cerco di far volare, di alleggerire le parole, che in effetti possono essere pesanti. Una parola leggera può essere pesantissima, se detta in una certa maniera, così come tante battute comiche “non arrivano” al pubblico perché non c’è levità; io cerco di raggiungere la levità, sul palcoscenico, attraverso il corpo. Uso il palcoscenico come un altare. Vedere e fare teatro è un atto di estrema discrezione: mi fa orrore quando un attore fa rumore, sul palco, mi pare che non sia un attore. Ma soprattutto cerco di praticare l’ossimoro; non credo né di essere una persona tragica né una persona comica, penso di essere una persona grottesca. Ci sono dei lavori che ho fatto, come Cartesiana, che sono esplicitamente comici, anche se il testo nasce da un problema gravissimo, quello dell’identità. Ma penso che sia un testo molto divertente, anche lo spettacolo è divertente, soprattutto se lo si vede più di una volta, perché allora si capiscono meglio gli snodi drammaturgici e linguistici. Ma mentre lo faccio io sono fra le persone più infelici di questo mondo, perché recitarlo con i ritmi che tengo è davvero molto difficile. È uno spettacolo comico per gli altri e tragico per me. In questo senso parlavo di ossimoro.

Un attore che, per eccellenza, usa l’ossimoro è Eduardo; pensate alla disciplina, che definirei orientale, alla quale, da occidentale, sottopone il suo corpo. A monte c’è una concezione artaudiana. Eduardo diceva sempre che l’attore deve recitare col gelo.




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