Il Mittelfest tra serie A e serie B

L'edizione 2003 dedicata alla comicità italiana e mitteleuropea

Pubblicato il 12/09/2003 / di / ateatro n. 057

“Sorrisi d’’Europa” è il titolo della dodicesima edizione del Mittelfest: svoltasi come consuetudine a Cividale del Friuli dal 19 al 27 di luglio, la rassegna ha rivisitato la comicità italiana e mitteleuropea con svariate produzioni nostrane e diverse provenienti da alcuni paesi del Centro Europa.
Ma partiamo dalla fine. Perché alla fine si traggono le somme, si fanno i conti e quasi mai tornano. Soprattutto quando si parla di teatro. Giorgio Pressburger, direttore artistico della manifestazione, ha fatto pubblica ammenda della sua decisione di creare due cartelloni, uno “ufficiale”, e un altro di eventi “collaterali”. “L’unità del festival va salvaguardata”, commenta Pressburger, “e per il futuro sarà meglio evitare sdoppiamenti”. Questa scelta, incoraggiata anche dalla presidenza del Mittelfest, ha creato qualche dissapore specie tra quegli artisti del territorio che si hanno visto il proprio lavoro relegato ad una categoria inferiore (di serie B), dimostrando invece, a conti fatti, di meritare ben altra collocazione. L’élite di Cividale ha comunque calorosamente applaudito le scelte del direttore artistico riempiendo le varie piazze della città, scenario di quasi tutti gli spettacoli di lirica, musica e balletto.
La prosa ha trovato invece spazio nel Teatro Ristori, mai gremito come nelle attese, eppure scenario degli spettacoli più intelligentemente articolati e riflessivi, anche se almeno in apparenza meno affini al tema proposto da quest’edizione: la comicità.
Il Teatr Ludowy con Un inverno sotto il tavolo di Roland Topor (tra i fondatori del Gruppo Panico assieme ad Arrabal, Jodorowsky e Sternberg), diretto da Krzysztof Rekovsky, ha ricreato la sensibilità e l’atmosfera, i modi e i ritmi della propria terra natale. È una disincantata visione di un paese, la Polonia, che si distende delicatamente su un racconto capace di emozionarci con un linguaggio semplice, umano. È il respiro di quell’Europa centro-orientale che ci alita addosso le amare speranze e le vane illusioni di vite umane disposte a cercare di guadagnarsi il diritto alla sopravvivenza, a combattere le proprie paure aggrappandosi, con il sorriso sulle labbra, a una qualsiasi mano protesa e acquietare così, almeno temporaneamente, l’angosciosa precarietà di una cruda esistenza. La vicenda è quella di un umile immigrato che cerca in Francia una via di fuga alla sua miseria. Trova asilo nella casa di una giovane traduttrice che lo accoglie mettendogli a disposizione l’unico posto della sua casa ancora abitabile. Ambientando la vicenda sotto un tavolo, spazio insolito, spazio angusto e intimo, nicchia e microcosmo, il regista trasferisce sul palcoscenico un difficile ed estremo episodio di convivenza, una bella e appassionante storia di solidarietà e d’amore. Dietro a uno spesso muro di pregiudizi, tabù, riserbo e costrizioni, si intravede lo spazio per un dialogo, magari affrettato o timidamente biascicato, che anima e rincuora l’esistenza di due disadattati, due vite diversamente colpite dall’ingiustizia della storia, che sopravvivono regalandosi la serenità di un affetto semplice, puro, vero. A non convincere del tutto è la costruzione scenica del testo: l’impressione è spesso quella di un collage di tante brevi scenette, quasi sempre interrotte prima che si risolvano drammaticamente. Sono le entrate improvvise degli attori, i repentini cambi di ritmo, le altrettanto rapide variazioni di tono a spezzare la rappresentazione in tanti vivaci ma incompiuti quadretti, che se da un lato danno freschezza e rapidità all’azione, dall’altro risolvono troppo frettolosamente alcuni episodi drammatici.
Il Teatro Nazionale del Montenegro, già ospite del Mittelfest nel 2000 con I Montenegrini, quest’anno ha optato per un’immersione nel mondo dell’assurdo. Ionescomania è il frutto di un’ampia e curata incursione nell’attività teatrale di Eugène Ionesco, drammaturgo che assieme a Adamov e Beckett ha messo in luce i paradossi e in dubbio le certezze di un secolo. Il regista Eduard Miler, che ha curato anche la scenografia, ha fedelmente rispettato le regole della poetica dell’assurdo con una messa in scena minimalista, essenziale. Gli attori hanno giocato ossessivamente con il linguaggio riflettendo sul valore della comunicazione nei rapporti umani.

Da La cantatrice calva, Delirio a due e Il rinoceronte, forse i tre testi più noti dello scrittore rumeno, il collage di temi, frasi e discorsi che hanno provocato frequenti e fragorose risate. Grande divertimento con uno dei classici della comicità goldoniana, Le baruffe chiozzotte, allestite dal Dramma italiano di Fiume assieme ad Atlantide Teatro di Verona ad A. Artisti Associati e Ateatri Aspa. Un allestimento vivace all’insegna del recupero delle radici culturali popolari, con un’attenzione particolare alla lingua vernacolare nei suoi variegati accenti. Una prova corale di grande effetto, orchestrata dal regista Pierluca Donin, grazie soprattutto all’entusiasmo, all’energia e all’affiatamento degli interpreti. Un lavoro stilisticamente impeccabile, ma sostanzialmente troppo artificioso e carente di verità, di umanità.
Da segnalare le quattro produzioni del Mittelfest, accomunate dall’intento di stupire il pubblico e meravigliarlo con adattamenti scenografici e dislocamenti spaziali inusuali e suggestivi. Scelte stilistiche che se da un lato hanno soddisfatto una poetica del bello, dell’immagine, dall’altro si sono rivelate pressoché prive di significazione drammatica. Allestimenti sfarzosi, ricercati, preconfezionati per un “divertimento facile e imbellettato”.
La piazza San Francesco ha fatto da cornice all’apertura della dodicesima edizione della kermesse, ospitando lo spettacolo di danza Per la dolce memoria di quel giorno. Per l’occasione sono stati convocati artisti del calibro e della fama di Carla Fracci, Gheorghe Iancu e Lindsay Kemp.

Una scelta di sicuro esito ed effetto voluta dal direttore della manifestazione per rendere omaggio al compianto amico e musicista Luciano Berio. La partitura che ha scandito i rimi e le melodie dello spettacolo era stata da lui realizzata nel 1974 per il balletto di Maurice Bèjart, commissionato dalla RAI a celebrazione del sesto centenario della morte di Francesco Petrarca.
Un’altra piazza ha accolto la burletta per musica in un atto di Luigi Prividali L’occasione fa il ladro, apprezzando ancora una volta le diverse trovate scenografiche che hanno impreziosito la recitazione degli interpreti. Diversi i momenti della rappresentazione ravvivati dall’entrata in scena festosa e allegra di piccoli angioletti, impersonati dalle allieve della scuola di danza Erica Bront, capaci, con la loro spontaneità, di divertire e far sorridere il pubblico. Da evidenziare l’intelligente succedersi di proiezioni video (allestimento curato da Martina Kafol con la collaborazione dell’Università di Udine e il Corso di Laurea in Tecnologie Multimediali di Pordenone), che hanno alternato le cartoline di una Napoli settecentesca a ritratti femminili sul modello di quelli di Warhol, ad animazioni e ai primi piani dei cantanti colti nell’impegno di un acuto. Ancora distrazioni estetiche, immagini affascinanti per sbalordire, strabiliare, guadagnarsi il consenso del pubblico.
Altra produzione Mittelfest, Le Ballate di Petrica Kerempuh, progetto e regia di Giorgio Pressburger, interpretate da un esplosivo ed esilarante Bebo Storti e inscenate anch’esse in una piazzetta della cittadina friulana. Ancora una dislocazione anomala per raccontare i mille modi in cui la gente ha pianto, ha riso, ha gridato, invocato e imprecato i santi. Ancora una scenografia descrittiva, animata da movimenti coreografici disarmonici e gesticolazioni alquanto approssimative con l’intento, non proprio riuscito, di accompagnare visivamente la lettura di questi piccoli e vivaci componimenti nati dalla penna dello scrittore croato Miroslav Krleza. È senz’altro mancata una concezione organica e sciolta dei movimenti individuali di comparse e figuranti, plastiche silhouettes confinate in una dimensione pittorica più che veri corpi umani. Il proposito era quello di rappresentare un vivace affresco della cultura popolare, invitando lo spettatore a parteciparvi e persino a degustare del prosciutto e della birra. Il risultato è stato ben diverso visto che il pubblico ha assistito distratto e passivo allo svolgersi della lettura più disorientato che attratto da questi personaggi evocati dalla lettura che timidamente e goffamente animavano la piazza.
Ultimo dei quattro eventi prodotti dal Mittelfest, il Satyricon di Petronio, musicato dall’eccellente compositore Bruno Maderna, il cui importante lavoro di librettista l’amico Pressburger (assieme avevano fondato lo studio di Fonologia Musicale a Milano nel 1955) ha voluto ricordare a trent’anni dalla sua scomparsa. Purtroppo lo spettacolo è stato relegato, causa le bizze del tempo, al freddo e angusto spazio di una palestra. Un gorgheggiare orgiastico, volgarmente condito di cibo, danaro e voluttuosità, forse un eccesso di scoordinati e provocanti movimenti scenici che hanno danneggiato lo svolgersi dell’azione drammatica e messo ingiustamente in secondo piano le virtù canore degli interpreti. A questo va aggiunto un travestimento approssimativo e ridicolo voluto per far partecipare anche parte del pubblico alla cena di Trimalcione). Un risultato stilistico non certo pregevole salvato dalla bravura dei cantanti e dall’impeccabile esecuzione dell’Orchestra della Toscana, diretta da Luca Pfatt.
Numerose anche le iniziative musicali che hanno trovato quasi sempre spazio nell’accogliente piazza del Duomo: vale la pena menzionare il concerto del trombettista e compositore triestino Enrico Rava, accompagnato da jazzisti di primo livello come il trombonista Gianluca Putrella, il pianista Stefano Bollani, il contrabbassista Ares Tavolazzi e il batterista Roberto Gatto. Per loro tanti applausi. Applausi più contenuti invece per la rilettura del libro Cuore a cura di Paola Cortellesi. Diretta da Francesca Angeli e accompagnata dalla voce di Matelda Viola, dal pianoforte di Fabrizio de Rossi e dal contrabbasso di Gianfranco Tedeschi, la talentuosa ed esilarante attrice non ha potuto esprimere il meglio di sé, convincendo meno del solito nella personale rilettura interpretativa del libro di De Amicis. Infine il concerto di Eugenio Finardi che ha proposto alcuni pezzi del suo ultimo album L’uomo a metà, ma anche i suoi vecchi successi.
Sicuramente uno degli spettacoli più coinvolgenti e “intimistici” del Mittelfest è stato Cercivento. La terza replica inaspettatamente segna un nuovo tutto esaurito; all’inizio sono alquanto insofferente alla scomodità: costretto in piedi per un’ora e mezza, dubito di resistere sino alla fine. Ma basta qualche minuto per ricredermi, per lasciarmi travolgere. Carlo Tolazzi riscrive e riadatta il testo di Maria Rosa Calderoni La fucilazione dell’alpino Ortis. La storia è quella di quattro alpini fucilati dietro il cimitero di Cercivento dopo un processo per direttissima, rei di “rivolta in presenza del nemico”, ovvero di essersi opposti a un’azione suicida. È il 1° luglio 1916, siamo nel bel mezzo della Prima guerra mondiale. Il controverso e oscuro episodio viene riportato alla luce dai parenti delle vittime, i cui sforzi per riabilitare le vittime non sono ancora andati a buon fine. C’è tanta rabbia nel testo, ma anche una lucida volontà di far sì che fatti tanto raccapriccianti si depositino nelle coscienze degli spettatori. Sono attento e nonostante il caldo infernale anche i ventagli hanno smesso di agitarsi; gli occhi di noi tutti sono fissi sulle azioni e sulle parole dei due interpreti della vicenda, il carnico Basilio Matiz (Massimo Somaglino) e il maniaghese Angelo Massaro (Riccardo Maranzana), i due protagonisti di questa triste storia. Sono loro a liberare la paura, la rabbia, le lacrime di chi è colpevole senza esserlo.

L’azione si svolge al centro di un cerchio, che è anche prigione, confine, un buco nero che si apre su un episodio di insubordinazione di due individui, uomini prima che soldati. Un caporale e un soldato semplice, condannati alla fucilazione, per non aver obbedito al comando di un superiore, che gli intimava una eroica, quanto avventata azione di sfondamento delle linee del nemico. In cella i due condannati trascorrono le ultime ore di vita alternando amare riflessioni a felici ricordi, scatti di rabbia ad abbracci teneri e solidali. È un fluire continuo di emozioni e lo spettatore lo percepisce, ne rimane contagiato. Un allestimento scenico essenziale e carico di significati storici e geografici: i due protagonisti sono accerchiati da diversi oggetti, citati e non, a riecheggiare immagini e visioni dell’epoca della Grande Guerra. Lo spettatore ha la possibilità di costruire il suo ricordo aprendo una nuova porta verso questo passato, recuperando immagini lette e rubate ai racconti dei suoi padri, dei suoi nonni, per scorrerle nuovamente accompagnato da un vibrante e appassionato dramma, quello che Basilio e Angelo rivivono per noi. Sono due caratteri diversi che esternano due reazioni in apparenza contrastanti di fronte alla condanna e alla morte imminente: disperato e rassegnato il primo, indomito e irascibile il secondo. Ma quando è ormai prossimo il momento dell’esecuzione i ruoli si invertono ed è proprio Angelo, in lacrime, a crollare tra le braccia dell’amico, svelando tutta la sua angoscia per una fine ingiusta e terribile. Basilio l’abbraccia nel più puro e leale gesto di amicizia. Le parole, le frasi, le speranze riversate in un fitto e serrato dialogo, motore di gran parte della rappresentazione, si condensano in un gesto di grande significato e valore. L’ultimo abbraccio di Basilio che rincuora l’amico pochi istanti prima della fucilazione. L’ultimo gesto di fratellanza e di solidarietà di fronte alla morte che accomuna tutti: il carnico al maniaghese, il nemico all’amico, il vicino al lontano, il nero al bianco, l’israeliano al palestinese. Risalta la grande fisicità della pièce che prevede un costante interagire fisico tra i due protagonisti quasi a voler rimarcare il significato di parole ed espressioni pronunciate troppo in fretta, soprattutto nei frangenti in cui lo scambio di battute si fa serrato, concitante.
L’ultimo atto del Mittelfest ha raccolto nel Chiostro della Chiesa di san Francesco il pubblico delle grandi occasioni. Nessuno ha voluto perdere le Microcommedie, sedici brevi testi teatrali commissionati ad altrettanti drammaturghi dell’Europa centro-orientale, recitati con bravura da un gruppo di dodici attori diretti da Giuseppe Rocca. Già due anni or sono i Microdrammi avevano decretato il successo di una bellissima edizione del Festival, venendo replicati in autunno alla Sala Tripcovic di Trieste, nell’ambito della stagione di prosa del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. Anche quest’anno l’applauso è scoccato unanime verso gli autori e gli interpreti di questi racconti drammatizzati, rapidi e coinvolgenti sguardi sulla comicità mitteleuropea, formula vincente di una manifestazione che ha trovato nella ricchezza artistica e nello scambio interculturale le chiavi del suo successo.

Alessandro_Romano

2003-09-12T00:00:00




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