Padri e fratelli

Un mail di risposta a Fanny & Alexander

Pubblicato il 04/01/2004 / di / ateatro n. 025

Un mail di risposta
di Oliviero Ponte di Pino
caro luigi,
ho letto il testo e mi sembra buono e importante, e in qualche modo tangenziale (tra l’altro) al tema del “teatro di guerra” (o meglio, dal tuo punto di vista, la dicotomia tra “teatro di rivolta” e “teatro di rivoluzione”) che da qualche tempo si prova a esplorare in “ateatro”.
affronti infatti una serie di problemi che riguardano in primo luogo l’evoluzione dell’arte teatrale, e più precisamente il ruolo della critica (e più in generale dello spettatore): in altri termini, spingi a esplorare le possibilità “tattiche e strategiche” per condurre una battaglia culturale all’interno del teatro.
sono d’accordo su molte delle cose che hai scritto, anche se poi, dal mio personale punto di vista, gli intrecci tra “fanciullo” e “adulto” si rivelano spesso un po’ più complessi e ricchi di ambiguità (a volte trappole, a volte feconde). e l’indulgere alla fanciullaggine alla lunga può portare a un estetismo narcisista e un po’ inutile.
e poi – ecco, forse qui non sono del tutto d’accordo con te – sopravvaluti forse il potere dello “sguardo adulto” rispetto alla “solidarietà fraterna” (anche il signor manzella, un tempo, forse è stato fanciullo… e forse ha avuto, e ha ancora, fratelli e fratellastri, e cugini…)
le opere, certo, quelle si fanno in solitudine. c’è bisogno di uno scarto, di un distacco. anche le rivolte si possono fare da soli (come rimbaud) ma anche con qualcun altro, se capita, ed è pure bello.
le opere nuove costruiscono anche, contemporaneamente, nel loro offrirsi, un nuovo sguardo. non tutti i padri sono in grado di riaccordare-risintonizzare il loro occhio critico, ma i fratelli, quelli, hanno visto lo stesso mondo, e probabilmente stanno imparando a guardarlo pure loro in maniera diversa. così accade anche – pare – con i paradigmi scientifici: non è che i padri, gli inquisitori, quelli convinti che il Sole giri attorno alla Terra, cambino idea e si convertano (salvo rare eccezioni). semplicemente si estinguono e alla generazione successiva, semplicemente non esistono più, salvo casi particolarmente bizzari o straordinariamente geniali…
ecco, per chi crede che la critica non sia soltanto una barriera, una censura da superare, un padre da cui farsi finalmente apprezzare e forse amare: sono convinto (altrimenti farei un altro mestiere, l’arbitro di calcio oppure il giudice) che la critica svolga – nel momento in cui l’opera esce dall’isolamento in cui è nata e cresciuta – un ruolo indispensabile anche agli artisti: oltre “propaganda e diffusione” nei confronti del pubblico, è anche specchio e verifica, porta alla costruzione di un linguaggio comune, aiuta a mettere a punto il rapporto tra il possibile (le intenzioni del creatore, ma anche gli sviluppi di una poetica) e il reale…
altre prospettive che a partire dalla tua riflessione si potrebbero esplorare, sono quelle del “diventare adulti” (in soggettiva, e non da fratello minore che guarda i maggiori) da un lato e dall’altro il rapporto con la storia. c’è una logica, un senso, in questa successione di fanciulli che vengono accettati dal mondo degli adulti, o è sempre lo stesso teatrino “paterno-genitoriale” che ci stritola, sempre uguale a se stesso, generazione dopo generazione, e allora l’unica possibilità è quella della rivolta a oltranza, vitalistico-giovanilista, contro tutti i poteri, quelli semplicemente conservatori ma anche quelli rivoluzionari? oppure è possibile trasmettere in qualche modo un sapere “non castrante” da una generazione all’altra? e come? soprattutto in un’arte carsica come quella teatrale, dove i vecchi maestri continuano a riemergere nelle maniere più impensate (vedi sopra il pezzo di Fernando Mastropasqua su Craig ibseniano suo malgrado, grazie a Ronconi)
insomma, solo per dire (ripetere) che mi sembra un testo che coglie dei nodi, che fa venire in mente dei pensieri, che varrebbe la pena, ancora, di discuterne, tutti insieme…
perché – lo ripeto – ritengo che una riflessione su questi temi debba avere anche qualche immediata conseguenza pratica. dal concetto di fratellanza, per continuare a usare questa metafora, possono venire anche indicazioni sul versante della politica culturale. in determinate circostanze l’eroismo solitario è indispensabile e doveroso. in altri casi rischia di restare velleitario, una specie di comodo ghetto, un pulpito – alla fine – per giocare a scandalizzare: una consolidata strategia di marketing, che porta a parlar male di tutto senza cambiare niente (se non incrementare il proprio personale successo, l’affermazione di sé).
ecco, se posso dare un consiglio non richiesto (non tanto a te, che in questi anni di fratelli ne hai trovati molti, sia tra gli artisti sia tra gli studiosi di teatro): l’importante è sapere di non essere soli, non parlarsi addosso, trovare qualcuno con cui scambiare le proprie esperienze (e magari fare rivolte non solitarie)
un abbraccio & a prest-o.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2004-01-04T00:00:00




Tag: Fanny & Alexander (17)


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