La specificità del segno teatrale

Una questione di gatti

Pubblicato il 15/02/2005 / di / ateatro n. 081

I. Testo drammatico e testo spettacolare
Semiotica e semiologia

Certamente la semiotica non serve ad un teatro istituzionale che (senza mai rimettere in questione se stesso, le proprie categorie, il proprio metodo produttivo) continua a pensare e praticare aproblematicamente (e mercantilmente) lo spettacolo soltanto come illustrazione di un testo drammatico. E neppure serve a un tipo di teatro (e ce ne sono anche nel campo delle avanguardie) che concepisca la ricerca e la sperimentazione sceniche nei termini di una creatività intuitiva e ineffabile, del tutto impermeabile a categorie scientifiche.
Marco De Marinis, Semiotica e semiologia

Il punto di partenza per un tentativo di definizione della specificità del segno teatrale, è la constatazione di come sia stato il cambiamento della natura del testo teatrale a imporre una ridefinizione della stessa nozione di ‘testo drammatico’ e di come le trasformazioni interne al teatro portino ad un mutamento dei rapporti tra le componenti semiotiche in gioco.
In questi ultimi anni infatti il ‘testo teatrale’ ha subito così tante modificazioni, sia per gli aspetti che riguardano la produzione che per quelli che riguardano la fruizione, da metterne in dubbio l’esistenza stessa come traccia di un’opera riproducibile da parte di registi che possano lavorare nello spazio tra il testo e la messa in scena, colmandone la mutua distanza attraverso la propria opera ermeneutica.
La storia dell’analisi del segno teatrale può essere connotata come la storia della tensione tra il testo drammatico e la messa in scena. L’impostazione strutturalista tradizionale riconduceva lo statuto ontologico della messa in scena a ‘realizzazione del testo drammatico’; il loro rapporto reciproco era pensato come una reificazione – alienazione del testo drammatico nella sua realizzazione scenica. Per cui l’analisi semiotica teatrale era essenzialmente ricondotta ad una analisi semiologica del testo drammatico.
Tale impostazione è presente in quei modelli strutturalisti che approcciano il teatro da un punto di vista narratologico e su tali basi costruiscono il loro modello interpretativo, come l’analisi strutturalista della fiaba di Propp (V. J. Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1975), le cui categorie vengono riplasmate per la messa a punto teatrale del modello.
Altro presupposto fondamentale è l’estensione alla letteratura della semantica strutturale che teorizza la presenza di una struttura profonda nel linguaggio ritenuta responsabile della struttura superficiale degli avvenimenti linguistici.
E’ chiaro che conseguenza implicita di tale impostazione è l’assegnazione del ‘ruolo’ di struttura profonda al testo drammatico e di struttura superficiale alla messa in scena, i cui avvenimenti sono quindi come confinati nella sfera fenomenica in senso debole e come tali non possono essere oggetto di scienza, ma forse soltanto di cronaca giornalistico-mondana.
Queste considerazioni possono valere per il modello attanziale di Etienne Souriau (E. Souriau, Les deux cent mille situations dramatiques, Paris, Flammarion, 1950), che imposta la sua analisi con categorie direttamente ricavate da Propp; i ruoli attanziali vengono infatti concepiti come una classificazione dei ruoli drammatici resi attraverso una simbologia tratta dall’astrologia; posti i ruoli attanziali attraverso una combinatoria si procede quindi all’analisi del dramma. Il modello sembra valido soprattutto per gli intrecci i cui personaggi si prestano ad essere ricondotti a rapporti del tipo protagonista-antagonista, protagonista-aiutante etc, tipici della narrativa popolare o della fiaba , appunto.
Il modello di Greimas (A. J. Greimas, Semantica strutturale, Milano, Rizzoli, 1968) riconduce i ruoli attanziali al loro aspetto (secondo Greimas alla loro ‘origine’) linguistica. Il teorico francese parte infatti dalla considerazione che il linguaggio sia essenzialmente drammatico.
Il passaggio può essere chiarito da un esempio: in Souriau il primo ruolo attanziale è quello del ‘Leone’ ossia l’incarnazione nel protagonista della forza tematica che si svolge nel dramma; tale ruolo viene ricondotto da Greimas alla categoria linguistica di ‘soggetto’.
Modelli di tal genere fanno capo a un’impostazione semiologica della semiotica, la tensione di cui si parlava all’inizio è tutta sbilanciata verso la considerazione del testo drammatico.
E’ chiaro poi che altro presupposto fondamentale è la presenza di dramatis personae come unità minima della fabula. Su questo presupposto il modello, attraverso dei rapporti sintattici istituiti da una combinatoria può procedere a una analisi semiologica che sembra essere piuttosto una riduzione o tutt’al più una classificazione.
L’origine ‘letteraria’ di questi modelli è chiara e porta alla totale non considerazione della messa in scena come possibile oggetto di indagine.
Questa forma mentis è operante anche in uomini di teatro per cui la letteratura è il germe da cui il teatro nasce. Così si esprime ad esempio Luigi Pirandello:

Perché se ci pensiamo bene l’attore deve fare e fa per forza il contrario di ciò che ha fatto il poeta. Rende cioè, più reale e tuttavia meno vero il personaggio creato dal poeta, gli toglie tanto, cioè di quella verità ideale, superiore, quanto più gli dà di quella realtà materiale, comune, e lo fa men vero anche perché lo traduce nella materialità fittizia e convenzionale d’un palcoscenico. L’attore insomma necessariamente dà una consistenza artefatta in un ambiente posticcio, illusorio a persone e ad azioni che hanno già avuto un’espressione di vita ideale, qual è quella dell’arte e che vivono e respirano una realtà superiore.

Una presenza più pregnante di elementi che afferiscono alla sfera scenica è invece da rilevarsi negli studi della scuola di Praga. Nell’Estetica dell’arte del dramma, pubblicato da Otakar Zich nel 1931, si pone in un luce un aspetto fondamentale della semiosi teatrale, ossia la presenza in essa di sistemi di segni eterogenei ma interdipendenti. Zich non solo non riconosce una particolare prevalenza a uno dei sistemi, ma rifiuta esplicitamente il predominio del testo scritto come oggetto privilegiato della semiotica del teatro.
In quello stesso 1931 viene pubblicato l’altro testo fondamentale della scuola di Praga, Tentativo di analisi del fenomeno dell’attore di Jon Mukarovskj (J. Mukarovsky, Tentativo di analisi del fenomeno dell’attore in Il significato dell’estetica, Torino, Einaudi, 1973). Questo testo può essere considerato il primo tentativo di una vera e propria semiotica della performance. L’autore sottopone ad analisi la gestualità di Chaplin inaugurando un’attenzione verso gli aspetti non verbali di fondamentale importanza.
L’esito teorico della scuola di Praga è fondamentale perché riconosce il potere semiotico della messa in scena al di là del testo drammatico e in una maniera che mette in gioco tutte le componenti segniche.
In merito al dibattito odierno è necessario ricordare il contributo di Marco De Marinis (M. De Marinis, Semiotica del teatro. L’analisi testuale dello spettacolo, Bompiani, Milano 1982, pp. 24-28), che con la distinzione tra testo spettacolare e testo drammatico teorizza un modello unitario-irreversibile nel rapporto tra testo drammatico e testo spettacolare.
Il modello unitario-irreversibile di De Marinis sembra preservare la semiotica teatrale dal suo appiattirsi sull’analisi dei testi letterari proprio perché considera la messa in scena un evento parzialmente indipendente nel senso che non è contenuto in nuce nel testo drammatico e proprio per questo si pone come oggetto di studio indipendente dell’analisi testuale dello spettacolo.
Il prendere in considerazione il momento della scrittura teatrale come inseparabile (almeno in alcuni casi) dalla pratica teatrale stessa, dal momento legato al lavoro laboratoriale – attoriale ci porta ad invertire il rapporto genealogico tra testo drammatico e testo spettacolare e quindi ripensare il modello stesso.
Graficamente il rapporto di irreversibilità è così reso da De Marinis:

Testo drammatico —> Testo spettacolare

così vorremmo proporre il nostro modello:

Testo drammatico <----> Testo spettacolare

Questa rielaborazione istituisce un diverso rapporto tra testo drammatico e testo spettacolare, non soltanto, così come nel modello di De Marinis, rifuggendo da quelle impostazioni che riducono il testo spettacolare al testo drammatico ma istituendo una relazione di circolarità tra il testo drammatico e il testo spettacolare. Allora l’analisi semiotica di un avvenimento teatrale avrà come oggetto l’avvenimento stesso scevro di qualsiasi supporto letterario, proprio perché il testo drammatico può essere preso in considerazione, almeno in alcuni casi, soltanto dopo un’indebita astrazione-estrazione dal suo essere detto, agito, messo in scena.
Un’ultima osservazione riguarda la possibilità che un documento scritto possa funzionare da documento per la messa in scena. In effetti per alcuni spettacoli contemporanei la scrittura non è tanto drammatica quanto piuttosto scenica e le notazioni di regia sopravanzano di gran lunga le ‘parola da dire’. Talvolta si parla perfino di ‘scrittura corporea’ (L’Impasto) oppure si pensi a quei casi in cui la parola viene veicolata da microfoni, display luminosi, distorta da artifici tecnologici inseparabili dal portato semantico della parola stessa che viene usata in maniera parassitaria per servire da significante per le distorsioni stesse, come nel caso di Motus. Anche qui il testo spettacolare più che essere irreversibile rispetto al testo drammatico vi si unisce in un’unità inestricabile.

II. Logica teatrale: il frame e la dramatis persona.
Un tentativo di riformulazione

Vladimiro: Proprio una bella serata.
Estragone: Indimenticabile.
Vladimiro: E non è finita.
Estragone: Sembra di no.
Vladimiro: E’ appena cominciata.
Estragone: E’ terribile.
Vladimiro: Sembra di essere a teatro.
Estragone: Al circo.
Vladimiro: Al varietà.
Estragone: Al varietà.
Estragone: Al circo.
Samuel Beckett, Aspettando Godot

La struttura concettuale e cognitiva che presiede alla fruizione teatrale è data dalla cornice, o appunto frame (il termine è mutuato dalla terminologia sociologica di Bateson. Cfr. G. Bateson, Una teoria del gioco e della fantasia, in Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1977, pp. 216-235), in cui i partecipanti e gli osservatori negoziano la comunicazione segnica.
Il frame teatrale è contraddistinto tradizionalmente da due caratteristiche essenziali: in primo luogo dalla presupposizione che il pubblico non abbia né il diritto né l’obbligo di partecipare all’azione che si svolge sul palco, in secondo luogo l’accettazione della realtà teatrale come di una realtà fictional parassitaria rispetto alla realtà.
A partire da questi presupposti la semiosi teatrale è affidata agli indicatori deittici, ossia a quelle parti del discorso che hanno la funzione di indicare i reciproci rapporti tra gli attori e tra gli attori e il pubblico:

A teatro il senso è affidato in primis alla deissi che regola le articolazioni degli atti di discorso. Anche la retorica, come la sintassi, la grammatica ecc. afferiscono, a teatro, alla deissi, che sussume e smista il senso veicolato dalle immagini, dai vari generi di linguaggio (prosa, poesia), dai diversi modi linguistici dei personaggi, dall’intonazione, dal ritmo, dai rapporti prossemici, dalla cinesica dei movimenti.

Presupposto di tale impostazione è la pre-comprensione da parte dello spettatore del carattere mimetico dell’azione scenica secondo un rapporto per cui il Mondo drammatico grazie all’essere situato nel frame possa essere compreso sulla base di parziali deviazioni rispetto al Mondo reale.
Da questo punto di vista il frame potrebbe intendersi come una serie di norme di traduzione generale che permettono il passaggio da un codice all’altro, come una sorta di spazio trasparente.
Non si parla di spazio solo metaforicamente, perché è proprio la distanza spaziale tra attore e spettatore in cui tale possibilità di trascrizione a partire da una supposta mimesi si inscrive e da cui forse sembrano generarsi tali connotazioni del frame.
Da questo punto di vista tutte le performance in cui lo spettatore è più o meno coinvolto nell’azione teatrale non rientrerebbero nella definizione di teatro che una tale concezione del frame sottende.
Una tale connotazione del frame teatrale è dunque inadeguata. Non ha alcuna funzionalità interpretativa, forse gli si può tutt’al più assegnare una valenza normativa, non solo per quegli spettacoli in cui la distanza e la differenza di ruoli tra attori e spettatori viene programmaticamente infranta ma che in realtà non dia ragione del carattere metasegnico della organizzazione spaziale che ci sembra essere un aspetto fondamentale del teatro contemporaneo.
Sulla base di una tale impostazione lo spazio inteso come relazione prossemica dei segni viene a perdere ogni valenza significante per essere ridotto ad una semplice distanza in cui far circolare la comunicazione senza influenzarla, se non in quanto contenitore.
Sembra che il lavoro sullo spazio nel teatro contemporaneo abbia una valenza di organizzazione dei segni e che sia tutt’altro che un medium diafano in cui i segni stessi non facciano altro che ‘passare’. La valenza dello spazio teatrale è piuttosto quella di dare le coordinate di un mondo sì fictional rispetto al mondo reale, ma che tale finzione non vada interpretata su basi mimetiche o allusive quanto nella sua valenza costruttiva o decostruttiva.
Il tema ci sembra correlato all’impossibilità di utilizzare la categoria di dramatis persona per molti dei ‘personaggi’ messi in scena nel teatro di ricerca contemporaneo.
E’ come se ci fosse un triplice sistema di distanze ‘vuote’ e gerarchicamente ordinate che condizionano l’approccio semiologico e che si implicano vicendevolmente:

1) la distanza tra testo drammatico e testo spettacolare come semplice possibilità di passare dal primo al secondo con l’unico inconveniente della purezza del primo rispetto alla opacità del secondo;

2) la distanza attore spettatore riempita dall’ineffabile potere mimetico dell’attore e dalla capacità interpretativa dello spettatore;

3) la distanza attore personaggio che è riempita dalla rincorsa infinita del primo verso il secondo e che è direttamente simmetrica alla prima distanza.

La dramatis persona sembra essere il corrispettivo psicologico del contenuto del testo drammatico. L’interpretazione dell’attore dovrebbe sostanziare di gesti suoni, voci, colmando la distanza tra sé stesso e il personaggio da interpretare.
Così come avviene per il testo drammatico e per il frame anche per la dramatis persona si può notare un fenomeno di decomposizione che ne inficia l’efficacia all’interno dell’analisi semiotica.
Con Carmelo Bene, per esempio, la recitazione non può più essere considerata un’attività mimetica. La dicotomia attore-personaggio si appiattisce in un ibrido che non è né l’uno né l’altro, l’assenza stessa di fabula, il suo essere sopravanzata dall’intreccio, il farsi fabula dell’intreccio, il prevalere dell’idioletto sul codice-lingua, sono tutti fenomeni che si muovono lungo la direttrice di una disintegrazione di una psicologia a cui il personaggio possa essere ricondotto, per far esplodere piuttosto energie pre-psichiche, parzialità idiosincratiche che lo spettatore è portato a percepire come eventi in sé non a ricondurli ad una storia di un personaggio.

III. Segni teatrali

Eppure come è strano un viso
sistema muro bianco-buconero.
gran viso dalle guance bianche
viso di gesso forato dagli occhi
come buco nero. Testa di clown,
clown bianco, pierrot lunare,
angelo della morte, santo sudario.
Il viso non è un involucro esterno a colui
che parla, che pensa o che sente.
La forma del significante nel linguaggio,
le sue stesse unità resterebbero
indeterminate se l’eventuale ascoltatore
non orientasse le sue scelte
in funzione del viso di chi parla.
Gilles Deleuze, Come farsi un corpo senza organi?

La scuola di Praga ha il merito di avere impostato il problema della semiosi teatrale cercando di indicare lo specifico semiotico del teatro. Il modello ‘praghese’ tuttavia sembra funzionare per il dramma mimetico ma non per eventi teatrali che si muovono in direzione opposta.
Lo Strutturalismo praghese eredita da Saussure l’intento sistematico di analizzare i meccanismi comunicativi sulla base di una teoria generale dei segni, e la teoria del segno come di un’entità a due facce in cui un veicolo significante si salda a un contenuto significato (F. Saussure, Corso di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza, 1970). La prospettiva di lavoro che si pose fu quindi l’identificazione del segno teatrale.
L’applicazione al teatro dei principi saussuriani da parte di Mukarovsky (J. Mukarovsky, L’arte come fatto semiologico, in Il significato dell’estetica, Torino, Einaudi, 1973, pp. 141-148) consistette nell’identificare nell’opera d’arte l’unità semiotica. Il significante viene identificato nell’insieme degli elementi materiali che intervengono nella messa in scena, il significato nell’oggetto estetico fruito dal pubblico.
Il testo spettacolare è quindi quell’unità in cui le varie componenti si fondano in una sorta di macrosegno.
Il passo successivo è quello di studiare il funzionamento dei segni teatrali.
La funzione più generica della semiosi teatrale è individuata da Bogatyrev (P. Bogatyrev, Les signes du théâtre, in “Poetique”, 8, 1971, p. 515) nella semiotizzazione teatrale:

Sulla scena gli oggetti che hanno il ruolo di segni teatrali (…) acquistano delle qualità e degli attributi particolari che non hanno nella vita reale.

Gli esponenti della scuola di Praga sottolineano il fatto che la semiotizzazione teatrale permette di rinviare l’oggetto teatrale alla classe di cui fa parte, prima che all’oggetto come componente del mondo drammatico. Ciò può avvenire sia per un oggetto che abbia affinità evidenti, ad esempio una semplice sedia in scena, sia per un oggetto che abbia una relazione simbolica o di altro genere con la classe di oggetti cui fa riferimento.
La denotazione teatrale agisce quindi con significanti che rinviano attraverso la mediazione della classe di cui fanno parte al loro significato nel mondo drammatico.
Così impostata la denotazione dà ragione del funzionamento mimetico dei significanti.
La connotazione agisce invece rinviando il segno teatrale all’universo di senso cui fa riferimento all’interno del sistema culturale. Ad esempio una spada rinvia al vigore guerriero o a valori cavallereschi ecc.
Denotazione e connotazione sono quindi entrambe presenti nella semiosi teatrale e la loro dialettica è fondamentale nell’evento teatrale. Il segno teatrale deve poi essere pensato come polisemico, nel senso che un segno può rinviare a svariati aspetti semantici, una scenografia può rinviare ad esempi ad una tipologia architettonica, ma anche a un particolare ambiente socio-familiare o ad una condizione esistenziale. Altra caratteristica fondamentale individuata dagli studiosi della scuola di Praga è la ‘mobilità del segno teatrale’ ossia alla capacità di esso di rinviare potenzialmente a qualsiasi significato.
Per quanto riguarda la classificazione delle tipologie di segni teatrali quella del semiologo polacco Tadeusz Kowzan (T. Kowzan, Le signe au théâtre, in “Diogène”, 61, pp. 59-90) stabilisce una dicotomia tra segni naturali e segni artificiali. Nei primi il legame tra significante e significato dà un rapporto di causa-effetto ( ad esempio una ingessatura presuppone una gamba rotta), nei secondi il legame di pende dall’intervento umano. Kowzan sottolinea il fatto che i segni teatrali sono resi artificiali in più larga misura rispetto a quelli della vita reale in quella che egli chiama ‘artificializzazione del segno’.
Altre classificazioni dei segni teatrali sono state operate da numerosi autori mediante l’applicazione della categorie peirciane di icona, indice e simbolo (per questo tema vedi K. Elam, Semiotica del teatro, Bologna, Il Mulino 1988, pp. 28-30).
I principi classificatori illustrati non tengono conto del carattere unitario della messa in scena, aspetto comunque messo in luce dalla scuola di Praga. Sembra che la classificazione proceda nei riguardi del segno teatrale come se si trattasse di eccezioni rispetto al segno ‘normale’ più che tentarne di individuarne le caratteristiche specifiche.
Oltre a ciò le considerazioni sul segno teatrale devono essere comprese all’interno della performance, appunto nel loro essere un sistema integrato come sottolinea Elam :

Non si può, comunque andare molto lontano nell’esaminare la significazione teatrale, se non si procede al di là del concetto di segno verso una considerazione del “messaggio” o “testo” teatrale o dei sistemi di segni, o codici che producono la performance. (Ibidem p. 37)

Semantica teatrale: un’ipotesi
dall’opacità letteraria all’iridescenza teatrale

Si definisce iridescenza una caratteristica ottica di certi materiali che sotto diversa incidenza della luce, presentano riflessi cangianti. L’iridescenza interna è in genere causata da piccole fratture o piani di sfaldatura; quella superficiale è dovuta alla presenza di un sottilissimo strato di composizione diversa dal restante minerale.
Il senso di uno spettacolo teatrale sembrerebbe essere iridescente sia nel momento della produzione (iridescenza interna) che in quello della fruizione (iridescenza esterna). L’iridescenza interna è data proprio perché le singole componenti; ossia i segni, si fondono su piani di sfaldatura-saldatura che sono gli scarti tra i vari media utilizzati.
Ciò dà luogo a un composto chimico instabile (radioattivo) che produce appunto il materiale diverso che appare nella fruizione, ma che è già nel momento della produzione, almeno in alcuni casi, essenzialmente composito.
Nella prefazione all’edizione Mondadori della Vita di Rancé Roland Barthes analizza un passo dell’opera da cui trae considerazioni generali sulla parola letteraria:

L’abate Rancé aveva un gatto giallo. Forse questo gatto giallo è tutta la letteratura; perché se la notazione rinvia senza dubbio all’idea che un gatto giallo è un gatto disgraziato, randagio, dunque trovato e ricongiunto così ad altri particolari della vita dell’abate, attestanti tutti la sua bontà e povertà, quel giallo è anche semplicemente giallo, non porta solamente un senso sublime, intellettuale, rimane, testardo, al livello dei colori (…) dire un gatto giallo e non un gatto randagio, è in un certo modo l’atto che separa lo scrittore dallo scrivente, non perché il giallo “fa immagine”, ma perché compie un incantesimo sul senso intenzionale, rivolge le parole verso un al di qua del senso; il gatto giallo dice la bontà dell’abate Seguin, ma anche dice meno, ed è qui che compare lo scandalo della parola letteraria. Essa è in qualche modo dotata di una duplice lunghezza d’onda; la più lunga è quella del senso (l’abate Seguin è un sant’uomo, vive poveramente in compagnia di un gatto randagio); la più corta non trasmette alcuna informazione, se non la letteratura stessa: è la più misteriosa, infatti , per causa sua, non possiamo ridurre la letteratura a un sistema interamente decifrabile: la letteratura, la critica non sono pure ermeneutiche.

Se la parola letteraria è di per sé opaca e il suo codice semantico essenziale va ricercato in tale opacità o in tali onde corte prive di informazione, la parola teatrale è essenzialmente de-formata e resa iridescente dal suo interagire con gli altri elementi significativi all’interno di uno spettacolo. Se in letteratura la critica non è una pura ermeneutica, per quanto riguarda il teatro, l’analisi semiologica non consiste nell’analisi dei singoli elementi in gioco pensando che il risultato complessivo sia il risultato di una sommatoria. E’ come se ogni interazione corrispondesse ad un maggior grado di opacità semantica sulla lunghezza d’onda del senso e di maggiore iridescenza sulla lunghezza d’onda teatrale.
Da questo punto di vista è forse un’azione non teatrale la riduzione di un testo letterario, specie quando tale riduzione, al di là degli esiti estetici, va verso una chiarificazione del testo di partenza.
La ricerca teatrale va verso il teatro quando appunto cerca l’iridescenza data dallo scontrasi delle proprie componenti segniche. Il senso sarà forse opaco, forse non ci sarà un senso criticabile o da potere sottoporre ad una ermeneutica. Se la letteratura può essere il gatto giallo dell’abate Seguin il teatro può essere il gatto di Alice nel paese delle meraviglie, un sorriso senza gatto o un gatto senza sorriso che con la sua possibilità di slittare lungo i piani di una realtà diverse frantumate, ibride e virtuali sembra continuamente cambiare colore.
L’ottica di uno spettacolo teatrale sembra più vicina alla teoria dei colori di Goethe che a quella di Newton, i colori (il senso) si formano sulla saldatura dei piani dei diversi mezzi espressivi usati e non dalla divisione prismatica della luce bianca nelle sue componenti.

Clara_Gebbia

2005-02-15T00:00:00




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