Beckett 100: un carnevale modernista

Beckett tra teatro, video e installazioni

Pubblicato il 25/05/2006 / di / ateatro n. 099

Beckett Space: A Modernist Carnival, che ho diretto nel febbraio 1996 all’Università di New York, includeva performance tecnologiche e installazioni completamente automatizzate ispirate a otto brevi piéce di Samuel Beckett: Ohio Impromptu, Eh Joe, Not I, Rockaby, Play, Come and Go, Breath e Quad. Beckett Space conteneva anche un ambiente interattivo chiamato Beckett Space.

La motivazione di questa strategia non convenzionale di presentazione era quadruplice. Per prima cosa Beckett Space consentiva al pubblico di avere un dialogo più intimo con il testo, leggendo e rileggendo le opere in forma di performance, più di quanto avrebbero potuto fare in un’edizione stampata; inoltre, e tornando alle diverse opere, potevano esplorare le numerose interconnessioni che c’erano tra loro.
Secondo, Beckett Space metteva in luce la struttura ciclica della maggior parte di queste opere brevi. Nel corso di una performance di due ore e mezzo di Beckett Space, ripetevamo ciascuna delle opere tra le quattro (Not I) e le 35 volte volte (Come and Go). In alcuni casi il potenziale per ripetizioni infinite era già implicito nel testo di Beckett. Not I e Play, per esempio, finiscono esattamente come cominciano e Beckett stesso aveva stabilito che Play fosse ripetuto una volta.
Terzo, Beckett Space esplora l’interazione tra live performance e tecnologia implicita nelle opere di Beckett, specialmente da Krapp’s Last Tape in poi. La tensione tra live performance e immagini è stata molto forte soprattutto nella produzione di Not I.

Not I rivisitato da David Salz.

Un’immagine video della grandezza di 8 piedi di una bocca di donna veniva proiettata su un muro curvo in un piccolo spazio per 15 spettatori. La voce della donna amplificata veniva da un altoparlante posto sopra l’immagine. L’attrice che recitava dal vivo era nascosta, su una bassa pedana di fronte al proiettore. Il muro opposto alla proiezione conteneva un buco attraverso cui era possibile spiare: uno spettatore alla volta poteva guardare attraverso il buco per osservare la bocca vera e sentire la voce non amplificata dell’attrice che stava recitando dal vivo di fronte a una videocamera e a un microfono. La proiezione non funzionava come la registrazione di una performance realizzata in precedenza, e non solo come un artificio fine a sé stesso, ma come una prospettiva tecnologica su una azione live. Una visione attraverso un microscopio, una esternazione concreta del sé, un’incarnazione vivida di quello che Beckett descriveva come “veemente abdicazione verso la terza persona da parte di Bocca”.
Ultima motivazione, e per me più importante: volevo sottolineare che le produzioni tecnologiche di Beckett Space evidenziavano che il modo di lavorare dell’ultimo Beckett aveva trasformato radicalmente la relazione tra testo e performance, e così ridefiniva la nozione stessa di dramma (“play”).

Play rivisitato da David Salz.

Infatti si può osservare come la maggior parte delle ultime produzioni non siano affatto opere teatrali nel senso convenzionale. Sono algoritmi per performance. Significativamente, via via che le piéce di Beckett incrementano la loro precisione, aumentano anche le loro restrizioni. I vincoli delle direzioni di scena di Beckett, le descrizioni delle azione fisiche, le pause, le posizioni, sono spesso espressi con precisione matematica e, come in Quad, What Where, Come and Go, and Footfalls, sono accompagnati da diagrammi schematici che ne incrementano il rigore. Quad offre il più puro esempio di algoritmo performativo. Questa pièce non contiene dialogo, solo quattro “interpreti” che si muovono lungo il perimetro e le diagonali di un quadrato. Come un pezzo musicale e diversamente da un testo convenzionale, Beckett definisce costantemente un numero limitato di variabili dentro un intervallo di durata chiaramente definito, e mantiene un silenzio assoluto su tutti gli aspetti della performance non descritti da queste variabili.
Il vocabolario delle coppie di lettere sviluppato da Beckett per descrivere i “percorsi” dei personaggi non è semplicemente in grado di descrivere qualunque movimento che esca dai sei percorsi rettilinei, o qualunque pausa nell’esecuzione di un percorso. La precisione e i vincoli di Quad ricordano quelli di una partitura musicale; e dunque codificare l’algoritmo dei movimenti della pièce in un computer è un processo lineare. In Beckett Space abbiamo dimostrato la natura algoritmica dell’opera implementando l’algoritmo di Quad con diversi programmi di gestione ambienti e strumenti multimediali.

Per esempio, in una versione, un’animazione computerizzata creata con Macromedia Director raffigurava figure incappucciate che si muovevano su una griglia che ricorda quella di una scacchiera; in un’altra i personaggi erano rappresentati da semplici quadrati colorati. Quattro monitor di computer proiettavano simultaneamente quattro diverse animazioni di Quad; i monitor erano posti in un’alta colonna di tende al centro del Beckett Space. Gli spettatori entravano attraverso le tende e osservavano una serie di led luminosi sospesi sopra la loro testa. Un colore differente di luce rappresentava ciascun giocatore e i Led riproducevano i movimenti di Quad in sincrono con le animazioni sul monitor.
In altre opere teatrali come Play, Rockaby e Ohio Impromptu Beckett crea algoritmi che tengono conto di un elemento di mediazione umana. Queste opere costituiscono quelli che definisco “algoritmi interattivi”.
Questi testi sono scritti in maniera convenzionale, con battute di dialogo assegnate ai personaggi e trascritte in sequenza. Tuttavia la logica che li sottende è quella di un algoritmo costituito da due elementi principali: un testo e una regola. La regola governa il modo in cui viene detto il testo, e in ciascun caso il soggetto che emette il testo è diverso da quello che applica la regola. Per esempio in Rockaby la donna è seduta su una sedia a dondolo “controllata meccanicamente senza il suo intervento”. La battuta della donna, “Ancora”, funziona esattamente con un interruttore che mette in moto sia la voce sia il dondolio meccanico; di più, dal punto di vista tecnologico è molto semplice automatizzare il dondolio, il suono e le luci in modo che sia la voce dell’attore ad attivarli elettronicamente.
Il più sofisticato degli algoritmi performativi di Beckett è quello che presiede a Ohio Impromptu. In quest’opera un “Lettore” e un “Ascoltatore”, entrambi con lunga giacca nera e lunghi capelli bianchi, sono seduti uno di fronte all’altro a un tavolo, mentre il Lettore legge ad alta voce da un libro. Non appena l’Ascoltatore bussa sul tavolo, il Lettore interrompe la lettura, ritorna all’inizio della frase precedente, legge fino alla fine della frase e attende finché l’Ascoltatore non bussa una seconda volta prima di continuare. Per la produzione di Beckett Space ho cominciato girando un video del lettore che legge l’intero testo del libro, eliminando le ripetizoini del testo di Beckett, e poi ho trasferito il video su un disco laser. in modo da facilitare l’accesso causale in playback (all’epoca in cui ho realizzato Beckett Space, trasmettere un video di alta qualità e a schermo intero su un computer non era ancora così facile).
La scena consisteva di un lungo tavolo diviso da uno schermo sul quale in retroproiezione veniva proiettata un’immagine a grandezza naturale del Lettore, creando l’illusione che il Lettore fosse seduto all’estremità destra del tavolo (per gli spettatori), così come indicato nel testo di Beckett; tuttavia solo l’Ascoltatore era reale. Sul tavolo era posizionato un interruttore a pressione in grado di cogliere i colpi dell’Ascoltatore e collegato a un computer programmato per iniziare, arrestare e riavvolgere il videodisco, in base all’algoritmo di Beckett. Quando l’Ascoltatore batteva sul tavolo nei momenti giusti (cosa che l’attore aveva imparato a fare), quella messinscena semi-automatizata seguiva il testo e le didascalie di Beckett alla lettera; in particolare soddisfaceva in una maniera fino a quel momento inedita una delle sue richieste: che Ascoltatore e Lettore siano “simili il più possibile d’aspetto”. Grazie a questo legame cibernetico, Lettore e Ascoltatore finivano per “diventare una cosa sola” agli occhi del pubblico.
La produzione portava in scena una riunificazione romantica del sé frammentato, ma solo attraverso l’assorbimento del sé nel sistema cibernetico dell’opera. Il processo portato in scena era allo stesso tempo utopico e distopico. Di qui è nata la sua peculiare combinazione: una bellezza inquietante e una tenerezza segnata dal dolore del vuoto e della perdita.

David_Saltz

2006-05-25T00:00:00




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