Lungo viaggio verso Santa Cristina

Al lavoro con Luca Ronconi

Pubblicato il 31/10/2006 / di / ateatro n. 102

Prendo un treno di buon mattino da Bassano del Grappa. Se tutto va bene in serata dovrei arrivare a Perugia. Devo fare quattro cambi, la giornata è assolata e sono molti mesi che non ho un giorno di pausa. Dormo.
Durante il viaggio mi sveglio più volte, il telefono, il cambio dei treni… e per la prima volta trovo la mente sufficientemente vuota per riflettere su quello che sto per fare. O meglio, quello che sto per fare l’ho già valutato e scelto per bene, ma non ho avuto ancora il tempo di investigare l’aspettativa che si è annidata in me dal giorno in cui avevo incontrato a Trevi il Maestro.

Roberto Latini e io eravamo arrivati a Trevi sapendo che quest’anno a Santa Cristina il corso di regia non si sarebbe tenuto. Così, esattamente come speravamo, si trattava fare gli uditori, dei veri e propri studenti chiamati a studiare: un’occasione assai più rara che seguire la messinscena di uno spettacolo, in Italia.
Un centinaio di ragazzi in tenuta da provino tentavano come potevano di affrontare la tensione che avevano addosso: chi ripassava la parte, chi dava sfoggio di tecniche di rilassamento del corpo. Altri formavano capannelli intorno a chi era stato già dentro.

Mentre guardo fuori dal finestrino le immagini in movimento si sovrappongono a quelle del giorno dei provini. Chissà chi avrà preso Ronconi?
Scopro così di non aver dedicato abbastanza tempo a questo avvenimento. Sono stanco e se potessi ci ripenserei. Leggo i testi su cui si lavorerà e penso che a settembre sarò di nuovo occupato con il mio lavoro e che anche quest’anno non farò vacanze. Tra i materiali di lavoro non c’è Itaca, il testo di Botho Strauss: peccato, mi sembrava interessante, mi ricordo una fantastica messinscena di Besucher. Spettatore/attore, l’ho vista all’Eliseo, ne ho una memoria confusa, ma mi piacque molto, Umberto Orsini era straordinario.
Comunque Santa Cristina è un’occasione che non voglio perdere. E poi negli spettacoli di Ronconi a volte ci sono cose che non capisco e questa può essere l’occasione giusta per capirle. E poi adesso che si fa sera e sono meno anestetizzato dal caldo, penso che addirittura gli potrò chiedere di spiegarmele, e magari nei momenti di pausa sarò partecipe delle sue riflessioni e dei suoi pensieri. In fondo questo incontro sana una lacuna nelle mie esperienze: quello di cui Ronconi è un illustre esponente è un sistema con cui non mi sono mai confrontato, e difficilmente lo farò in futuro.
Quindi ho diverse aspettative. E come potrei non averne? Anche se, come mi capita spesso, sono di carattere esperienziale.

Tra i materiali del corso c’è Il gabbiano di Cechov. Chissà se sarà lo spettacolo di fine corso? Ma ha pochi ruoli, come fa a metterlo in scena con trenta attori? Forse, come in alcuni spettacoli di drammaturgia contemporanea – penso a Infinities o a certi lavori più recenti – sdoppierà le coppie, creerà un rapporto speculare di frantumazione dell’identità… Ma no, non c’entra niente con Cechov, questo non lo farà di sicuro, Ronconi ha sempre un rispetto integrale nei confronti del testo; e soprattutto in un corso di alta formazione, cioè per attori professionisti, sicuramente si porrà anche il problema dell’approccio al testo…

Quello che mi ha sorpreso di più nel lento incedere delle giornate a Santa Cristina è la quasi totale – anche se apparente – assenza di volontà pedagogica. Ronconi infatti non propone un metodo, né un modo. Si parte – e non sembri poco – da una lettura trasversale, puntuale e totale dei testi. Il suo sguardo rivela la disarmante rapidità di un pensiero che circuisce la parola e le frasi, e attraverso le intenzioni ne rivela ambiguità e tensioni.
La sensazione è quella, per velocità e violenza di estorsione, di quando con un gesto d’impulso si getta a terra un anguria e poi la si osserva esplodere e rivelare il suo interno. Non riesco a trovare esempio più calzante del mondo in cui Ronconi opera sul testo. E in questa azione tempestiva anche i più piccoli frammenti e i semi che schizzano più lontano sono oggetto di attenzione maniacale, come se conservassero nel loro piccolo gli effetti più risonanti di un macrosistema.
Un gesto della mano e un’intonazione trasmesse per infusione o meglio ancora per osmosi rivelano con il passare dei giorni il germoglio di uno stato interiore, di una condizione. La posizione in cui l’attore deve stare nell’abitare il ruolo è sempre di sguincio, non coincide con il personaggio. La storia che gli avviene è in una sorta di consapevole incoscienza e non di inconscia consapevolezza. E’ questo è un punto di vista, il cannocchiale attraverso il quale nei primi giorni si sta osservando Il gabbiano di Cechov.
Ronconi sostiene che il testo è quasi un’anamnesi, una dissezione che Cechov da medico applica ai sentimenti e alle persone. I personaggi non sono scolpiti, ma tratteggiati. Sono funzioni, che veicolano delle esistenze mancate e che dunque vanno rigorosamente lasciate nella loro incompletezza. Anche se vanno vissute fino in fondo, come figurine animate per svolgere il loro compito: rivelare il loro desiderio di essere qualcosa di diverso da quello che sono.
Così i primi giorni trascorrono in una sorta di confusa certezza: stiamo per afferrare qualcosa di impalpabile ma profondamente necessario. Ognuno cerca di prendere le misure, le distanze, per comprendere in un modo concreto ma non razionale, in un modo logico ma non replicabile, come interpretare le dinamiche di queste essenze anelanti che come un carillon sono coinvolte in un gioco di teatro nel teatro che in entrambi i casi, nel Gabbiano, è la vita.

Scendo a Firenze, è l’ultimo cambio. E’ sera. Telefono a una certa Flaminia che si occupa delle questioni logistiche. Ho perso la coincidenza, quindi arriverò alle 22.30 e non alle 20.30 come era previsto… Dall’altra parte della cornetta, quella che diventerà insieme ad altri compagna di tante scorribande notturne, mugugna – non è particolarmente felice – che devo scendere a Ponte San Giovanni: mi verrà a prendere lì.
Non è felice. A Santa Cristina hanno iniziato a lavorare da qualche giorno, ma io ero in tournèe e riesco a raggiungerli solo ora. Mi sono perso le presentazioni, arriverò quando si sarà già creato un certo clima, e forse nei primi giorni subirò questo ritardo…
Vabbè, ma che problemi mi creo? In fondo chisseneimporta, mica ci sto andando per conoscere delle persone… Che pensiero da primo giorno di scuola! Saranno le dieci lunghe interminabili ore di questo viaggio sotto il sole, tra un interregionale e l’altro, che mi fa avere questi rigurgiti. Mi viene in mente il film Dead Man di Jim Jarmush, l’inizio, quando Johnny Depp sale sul treno.
Ma sono un po’ emozionato, lo devo riconoscere: e lo faccio su una panchina di marmo alla stazione Santa Maria Novella di Firenze, mentre aspetto il treno per Perugia.

La consequenzialità è determinata in primo luogo dal motivo per cui si fanno delle azioni. L’attore dovrebbe avere un pensiero interiore che lo muove, che non è la funzione che ha il suo personaggio nella commedia, ma la logica che muove il personaggio che interpreta.
Ecco farsi strada la necessità di una motivazione profonda per ogni istante di interpretazione. Una frase preannuncia una mira, e la reazione a quella frase tradisce il doppio senso attraverso il cambio d’atteggiamento. Il corpo è il primo a reagire, mentre la mente architetta difese, cambia, il respiro si fa più affannato, gli occhi si inumidiscono appena, ma il livello della conversazione porta su altri piani, non permette lo sfogo, ne tollera solo un accenno. E’ lo spettatore che comprende la trama segreta, l’attore la dipana in una consapevole incoscienza.
Nel corso delle giornate ci si concentra molto, affrontando Il gabbiano, sul concetto di cerniera che il maestro sottolinea spesso. La cerniera è una chiave di apertura del testo davvero illuminante: infatti permette di comprendere quale frase regge il significato del brano e quale la richiama o la rimanda funzionando esattamente da cerniera e giustificando spesso quello che logicamente ci sembrerebbe occasionale o d’appoggio. Inoltre permette di individuare il passaggio fra stati d’animo diversi che modificano il tono e il senso.
Dunque la lettura non può che essere una, e il significato universale letterario non cambia il contesto, semmai ne direziona la tensione e il valore: allora l’interpretazione è una scelta e differenzia le messe in scena.
Individuare le cause delle sofferenze dei personaggi nelle righe del testo significa comprendere cosa li anima e perché sono inautentici: inautentiche sono le ragioni della loro sofferenza, non la sofferenza, quella è vera. Nella commedia Arkadina è un vuoto assoluto, cerca di raggiungere un modello inesistente e la sua sofferenza nel non raggiungerlo è autentica, e determina la sua relazione con gli altri. Non si tratta di trovare un modo per dire, ma un motivo.
Si entra nel vivo del lavoro e tra una parola e l’altra ecco spalancarsi abissi prima infrequentabili, ma necessari alla concretezza di una relazione scenica.

Ecco il treno finalmente. Salgo. E’ vuoto.
Beh, ma a metà luglio, in una sera d’estate: chi deve andare da Firenze a Perugia? Ho parlato troppo presto, ecco arrivare un gruppo di extracomunitari pieni di buste e di pacchi, ambulanti di ogni sorta, compresa qualche prostituta che rientra, o forse va a lavorare. Due si siedono accanto a me e già so che cominceranno a parlare fitti fitti come fanno loro e io non potrò leggere… Faccio le parole crociate, così il tempo passa prima.
Mi chiama più volte Flaminia ma la linea cade e mi si scarica definitivamente il cellulare: ora se succede qualcosa sono fregato… Lo riaccendo e le mando un sms, così almeno sa che non possiamo sentirci finché non scendo. Intanto diventa buio.

Malgrado spesso sembri tutto patetico, l’attore non dovrebbe mai sapere di sembrarlo, altrimenti diventa una caricatura… E’ un po’ come nei meccanismi della comicità alla Bergson: si tratta di fare una cosa nel momento sbagliato, e fare in modo che si riveli come tale. Dunque per l’attore l’azione compiuta deve essere una cosa naturale lo spettatore che invece segue e raccoglie le informazioni, comprende il contesto e la vive come patetico al limite del ridicolo.
Francesca, una delle attrici/uditrici del corso, sembra particolarmente estasiata dalle conclusioni di questa sessione di lavoro. Vedo che ha molta voglia di parlarne, mi avvicino e come un torrente in piena mi sovrasta di considerazioni sulla consapevolezza, sul ricatto sentimentale che c’è tra madre e figlio, su quanto questi personaggi siano prismatici e di quanto per un attore sia difficile andare aldilà della lettura, che a tratti sembra sempre un po’ semplicistica, dopo aver fatto una scena e il Maestro interviene con le sue considerazioni.

Le giornate si dipanano in modo molto omogeneo e tutto sommato in un clima rilassato. Si lavora dalle 10 del mattino all’1, poi si passa nella sala da pranzo e si mangia a buffet; alle 14,30 si riprende e si continua fino alle 18-19 poi si attende la cena.
Dopo una breve introduzione, Ronconi chiede a tutti di preparare delle scene dal Gabbiano e di presentargliele. Tutti si scelgono i partner della scena e ci si concentra su alcune scene direi chiave per i rapporti e le relazioni tra i personaggi.
Qualcuno opta per un monologo, qualcuno come al liceo evita il confronto diretto e tergiversa.
Così dopo aver visto qualche scena il Maestro interviene evidenziando le problematicità del brano presentato. Inizia un vero e proprio momento di apertura del testo e di lettura dei diversi significati, spiegando perché la scena era troppo segmentata, che cosa non permetteva una fluidità, perché alcuni passaggi erano solamente recitati, cosa non permetteva ai corpi di avvicinarsi o di allontanarsi. In queste digressioni che interrompono il susseguirsi delle scene si annida una capacità assolutamente didattica di Ronconi: lavorando sullo stretto passaggio da un’azione all’altra, sviluppa una quantità di stimoli incredibili. Gli attori, quelli che non lo conoscono, sono disorientati. Sono tutti disorientati da questo terremoto che si scatena in modo imprevisto e imprevedibile, mosso magari da un gesto insignificante o dall’aver trascurato uno sguardo.
In effetti, la relazione tra i personaggi e lo studio delle azioni e reazioni sono il punto su cui si insiste di più , quello che un attore abituato a fare un lavoro su se stesso, di modo e non di motivo, trascura di più.
Gli attori/allievi tendono a sciogliere i nodi e risolverli dentro il proprio personaggio, mentre le contraddizioni , sottolinea più volte il Maestro, sono l’unico elemento che rende vivi questi personaggi; la capacità di leggere le loro motivazioni determina i gradi di temperatura a cui bisogna arrivare affinché la distanza o la vicinanza con questi personaggi non sia fuori fuoco.
La sera dopo cena tutti si rintanano da qualche parte a verificare e a provare delle scene. Io e Roberto ancora non abbiamo legato con nessuno e ci andiamo a prendere un gelato a Umbertide: chissà poi perché, visto che Perugia è più vicina e offre di più.

Non si arriva mai e io comincio ad avere una fame che non mi permette di fare nessun tipo di considerazione che vada aldilà di quanto manca. Non ce la faccio più, quando arrivo speriamo che Flaminia mi porta a mangiare.

A Santa Cristina i pranzi e le cene sono dei veri momenti di relax, è l’unico momento in cui si parla d’altro e si comincia a instaurare una logica di gruppo. Le persone cominciano a conoscersi e individuano le similitudini e le lontananze. Nei giorni la casuale scelta dei posti diventa uno scegliersi e un riconfermarsi per poi arrivare a riconoscere le tensioni tra le persone anche solo dalla scelta del posto.
Qualche volta mi siedo vicino al Maestro e con sorpresa mi trovo ad ascoltare aneddoti e racconti di persone che fino allora avevo solo studiato sui libri. Non so che tipo di rapporto si stia instaurando in questo periodo tra noi: è strano, perché si ha la sensazione di ricevere qualcosa di molto profondo. Ronconi si concede moltissimo attraverso il suo lavoro, quindi si ha l’impressione di essersi scambiati o meglio di aver ricevuto qualcosa di intimo, ma siccome questo non avviene in forma diretta attraverso una confidenza o il racconto di un’esperienza personale (e mi sembra fondamentale che sia così) rimane un oggetto da contemplare.
Chissà se sono riuscito a spiegarmi.

Roberto deve accompagnare la moglie e le sue bambine in Calabria e arriverà domani. Anche lui non fa una pausa da mesi e dopo questa esperienza andrà a fare la ripresa di Martone al Teatro India.
Stanotte dormirò da solo. Chissà dove dormo? Speriamo che non sia lontano dal posto dove si lavora, se no come ci vado?
Gli attori sono alloggiati in un ostello a Ponte San Felcino. Io e Roberto, mi diceva Claudia, saremo in un appartamento, o meglio in una stanza in una specie di agriturismo… ’Sto treno se le fa proprio tutte, le fermate!

Santa Cristina è un posto davvero straordinario, in mezzo alle colline umbre. Ci si arriva passando da Casa del Diavolo, dove la mattina se vai a fare colazione malgrado tu sia sperduto tra i monti puoi trovarti al bar con Jacopo Fo o vedere passare Gae Aulenti: non è un’allucinazione, abitano qui, o meglio Jacopo Fo ha la sua Università di Alcatraz proprio li vicino.
Quando si sale lungo la strada per arrivare a Santa Cristina, sembra di stare in una foto di Gianni Berengo Gardin. Quando arrivi, ti trovi un caseggiato grigio e lungo, composto da due sale prove molto grandi e un altro corpo dove ci sono la sala da pranzo/salone, una piccola sala biblioteca e una serie di stanze da letto. Tutto è arredato in modo sobrio e rigoroso, senza fronzoli, eccetto le lampade che sono le uniche concessioni un po’ barocche del complesso.
Alcuni di noi abitano proprio lì e presto diventiamo il gruppo di scorribanda notturno che va a Umbertide a prendere il gelato e si alza presto per scendere in paese a fare colazione. Una sera ci abbiamo portato anche Iaia Forte e Mario Martone.
Mario è venuto a fare una lezione: in quella giornata, diversa dalle altre, si sono affrontati temi di politica culturale e di scelta dei testi. Si discuteva di contemporaneità. Ma non è stata l’unica lezione: anzi, nei giorni ne susseguivano diverse, oltre al fatto che un gruppo di attori nel pomeriggio lavorava su Svevo con Massimo de Francovich (ma non ho mai seguito questo lavoro, perché era quasi sempre in contemporanea con scene del Gabbiano o con la lettura delle lettere che sarebbero poi diventate l’oggetto del saggio finale).
Mentre mangiavamo il gelato Iaia mi raccontava di come Ronconi le avesse cambiato la prospettiva con cui affrontava il teatro. Fino ad allora le era sembrato di farlo per passione. Dopo aver lavorato con Ronconi, proprio in un momento in cui stava decidendo di smettere, aveva capito cosa è la vocazione… Me lo spiegava mentre mangiavamo un gelato al pistacchio. Avevo veramente convinto tutti a mangiare il pistacchio, a me ricordava la Sicilia, gli altri lo facevano perché erano incuriositi dal fatto che tutte le sere mangiavo una coppetta di solo pistacchio e bevevo un amaro alla liquirizia che non piaceva a nessuno.

I ragazzi somali scendono, paese dopo paese il treno si svuota. Ora c’è solo una famiglia dell’est, rumeni credo, con due bambini che corrono lungo il vagone: i genitori gli strillano di sedersi, immagino, perché non li capisco. Il telefono è scarico, lo riaccendo, e trovo una decina di chiamate di Flaminia, speriamo non abbia contrattempi. Riprendo in mano le lettere e continuo a leggere. Alcune le conosco già, quelle do Emily Dickinson me le aveva fatte leggere tutte H.e.r. quando facevamo Sample from die die my darling; anche quelle di Artaud. Le altre le leggo con curiosità, perché la biografia o i frammenti di privato degli autori mi sono sempre piaciuti molto.

La grammatica dei testi è soltanto una, sono le sintassi a essere diverse. La sintassi per Ronconi è un conflitto. Ogni frase lavora sempre all’opposto, questo personaggio dice questo perché non può dire altro o non può dire quello che vorrebbe. In questa sorta di carillon si annida l’incapacità di comunicare e la costruzione della rappresentazione di sé che si vuole dare, che è il territorio di falsità costruite sulle quale ci si incontra.
C’è un aspetto di identificazione e di espressione dei sentimenti con matrice autobiografica che inquina il tragitto del personaggio e rischia di non rendere nitido il percorso, così come considerare la biografia dell’autore come viatico verso l’opera da parte dell’attore. Quando abbiamo cominciato ad affrontare le lettere, queste indicazioni sono esplose con un’evidenza sconcertante, così come il problema della legittimità si è amplificato all’estremo.
Se interpretare o mettere in scena un testo ci pone dei problemi di legittimità irrisolvibili ai quali si può tentare di porre risposte, interpretare una lettera di un poeta o di uno scrittore è sempre e comunque illegittimo: non si può credere di essere la Woolf o Pasternak. Bisogna trovare delle regole nuove, come se il teatro fosse inadeguato.
Se escludiamo la lettura burocratica e l’interpretazione, chi siamo quando si rappresentano delle lettere? Quello che le riceve? Il postino che le legge di nascosto, o la cameriera che le spia?
A Santa Cristina comincia un lavoro di analisi con un approccio fortemente guidato da quelle che paiono essere intuizioni del Maestro, che sembra passo passo essere con noi, scoperta dopo scoperta. Si parte intanto dal fatto di essere un io che non è. O meglio, un io che non è né il destinatario né il mittente. Non c’è bisogno di avere un’identità precisa.
Allora l’interprete è forse una sorta di medium, come se l’autore suggerisse a un orecchio, una sorta di incarnazione del foglio su cui l’inchiostro verga parole che altrimenti non sarebbero lette, parole scritte nel vuoto. Assenza di partecipazione, evitare la soggettività
Lo sguardo cambia direzione come se seguisse il pensiero, come se si attuasse una ricognizione su cosa si sta dicendo. Anzi, meglio: su come si sta muovendo il pensiero. Tentare di rappresentare una solitudine scenica senza far sì che il monologo diventi un soliloquio, cercare la dialettica, quasi a invocare una risposta.
Riempire il tempo con le parole: non è l’economia della comunicazione quotidiana. La comunicazione giusta è intermittente, la lettera non è una cosa parlata.
Momento dopo momento, giorno dopo giorno, le lettere sembrano meno problematiche. Sono diverse: alcune presuppongono una risposta, altre no. La relazione tra chi scrive e chi riceve cambia il tono e la forma.
A quale momento della vita di una lettera ci si riferisce a quando è stata pensata? A quando è stata scritta o a quando è stata riletta? La forma è la prima linea guida che ci aiuterà a rintracciare come stabilire nuove regole per attraversare questa forma di comunicazione e come riuscire a rintracciare una legittimità nel riesporle. La gestione del tempo interno e esterno determinerà lo spazio, il luogo.

Arriva Emanuele Trevi, che ha raccolto le lettere e ne ha fatto un mosaico. Passerà qualche giorno con noi. Ci illustra le lettere e le divide per tematica e per il codice alle quali fanno riferimento.
La lettera è il limite di una consapevolezza linguistica. Riferendosi all’arabo, Trevi introduce la terza persona singolare. Io-ovvero colui che parla, tu-ovvero colui che sta davanti a chi parla, lui-colui che è assente. E attraverso una serie di considerazioni sostiene che la scrittura privata che diventa pubblica – già nota a Platone, e tipica delle persone che sanno che potrebbero essere pubblicate o lette – introduce già nella mente di chi opera questa interpretazione della terza persona.
Le lettere scelte non contengono informazioni, non sono letteratura né intercettazioni.
“Quando scriviamo”, dice Trevi, “citando qualcun altro siamo come dei padroni che si sottomettono agli schiavi.”
In questi giorni Trevi è una presenza molto frizzante, ha un’energia completamente diversa da tutti gli altri che si stanno lentamente accordando. Una notte armato di scopa tenta di rendere di nuovo agibile l’ufficio di Flaminia, che non ci entrava da qualche giorno a causa di un topolino di campagna che la mattina la passava a trovare. Ma tra queste colline e in piena campagna i veri abitanti sono gli insetti e gli scorpioncini, gli intrusi siamo noi e infatti siamo in netta minoranza.
Il pomeriggio verso le 16 piove sempre e questo crea un clima decisamente più sopportabile: malgrado sia agosto bisogna indossare i giacchetti. Qualche volta piove talmente forte con lampi, fulmini e tuoni, che non si riesce a lavorare; ma le manifestazioni così violente della natura hanno un sapore catartico e scaricano anche le tensioni personali, che si accumulano qua e là quando non si riesce a trovare una chiave, quando si tenta di rispondere alle richieste implicite nel lavoro.

Arriva la pausa, si riprende dopo il 16.

Torno il 19, le lettere sono state assegnate: ognuno sa quale farà e il rapporto diventa individuale, ognuno con la sua lettera. Solo alcune lettere sono fatte da più attori, altre – come quelle della Dickinson – sono raggruppate per mittente e quindi per contenuto; vengono fatte in gruppo ma senza relazione.
Il Maestro tenta degli accostamenti, apparentemente casuali, poi lentamente, come sempre, si scopre che nascondono una logica di ferro e un pensiero che le fa sembrare scritte per essere messe in quell’ordine.
Ogni tanto, per staccare, Ronconi vede ancora delle scene del Gabbiano, ma la concentrazione è rivolta alle lettere, a rintracciare il senso profondo, il proprio luogo rispetto a quello che si sta dicendo, ad applicare queste nuove regole che però si spostano da lettera a lettera e trovano una risoluzione diversa in base alla grafica, alla forma, al destinatario, alla punteggiatura, al motivo che le origina quello apparente e quello segreto.

Sale la tensione tra gli attori/allievi che sentono avvicinarsi lo spettacolo.
Inutile per il Maestro tentare di spiegare che non è uno spettacolo ma la sintesi di un lavoro, che alcune cose sono volutamente trascurate proprio perché il lavoro non si deve mascherare da spettacolo. In fondo per la maggior parte di loro tutto questo significa aver fatto un’esperienza di lavoro con Ronconi e ora sta arrivando il momento di rendere pubblico questo fatto.
Ora la sera siamo diventati molti, e allora ci trasciniamo un po’ più spesso fino a Perugia con Pilar, Roberto, Flaminia, Irene e Carmelo. Lì ci raggiungono anche quelli che stanno all’ostello e il rum prende il posto dei gelati e dell’amaro alla liquirizia che a me comunque piaceva. Francesca esce con noi solo la mattina, la notte studia.

Il presidente di Santa Cristina è Roberta Carlotto e trascorre ogni giorno nelle classi e segue il lavoro. Un giorno verso la fine di questa esperienza mi chiede: “Ti va di fare una sorta di relazione sul lavoro, che la diamo a Oliviero Ponte di Pino per il sito di ateatro?”
Io accetto di buon grado, poi nei giorni mentre prendo gli appunti comincio a chiedermi: “Ma come faccio? Da quale punto di vista devo affrontare questa cosa?”
Se fosse un diario di bordo potrei essere – come dire – invisibile e riportare la successione dei giorni.
Ma i miei appunti a oggi – ossia al giorno in cui mi è stata fatta la richiesta – non sono strutturati in questo modo: ci sono per lo più frasi che ritenevo importanti dette dal Maestro in risposta a occasioni e a situazioni di lavoro, che ho riportato integralmente, oppure mie considerazioni rispetto al lavoro, rispetto alle cose, ai comportamenti. Dovrò trovare un modo per scrivere una sorta di relazione, certo è che non sono un critico né uno studioso. E poi ci sono fatti e dinamiche che non so se mi va di togliere dal privato.

Ci trasferiamo in teatro a Gubbio. Le filate della serata, aldilà della durata, non sembrano preoccupare nessuno. Funzionano. Funziona la sequenza delle lettere, funziona la disposizione nello spazio, funzionano queste piccole lame di luce che attraversano lo spazio e fanno sembrare il palco uno specchio rotto in cui si riflettono i frammenti di identità che evocano un movimento, o una voce.
Maria Consagra, che cura i movimenti e il training tutte le mattine, pulisce i gesti e dà gli ultimi ritocchi ai movimenti. Intanto Carmelo appunta tutte le piccole sbavature su cui tornare.
Mancano una manciata di giorni e il lavoro è più di routine, gli attori/allievi sono rassicurati da una forma che li comprende, si attende il giorno fatidico.

Scendo finalmente dal treno sono le 22,45, in stazione non c’è nessuno, ho molta fame e due valigie enormi che fatico a trascinarmi dietro. Vedo Claudia che mi viene incontro e conosco finalmente Flaminia, dopo che le ho parlato tutto il giorno al telefono.
Ci fermiamo a prendere un panino. Mi raccontano i primi giorni del corso, io sono stanco, le seguo poco e in fondo penso che nei prossimi giorni avrò modo di capire. Facciamo circa 18 chilometri di superstrada ed entriamo a Ramazzano.
Passiamo per Casa del Diavolo poi imbocchiamo una salita che presto abbandonerà l’asfalto a favore di uno sterrato da jeep. E’ notte, non si vede niente, non riesco a credere che saremo a 15 chilometri dal primo centro abitato. Tra un sobbalzo e l’altro arriviamo. Scendo, entro nella mia camera, vado a dormire, dentro di me penso: “Domani inizio”.

Fabrizio_Arcuri

2006-10-31T00:00:00




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