specialemilano Milano… ma ecco il nuovo che avanza!

Nuovi lidi d'’approdo tra i Navigli

Pubblicato il 07/11/2006 / di / ateatro n. 103

A me, di parlare del teatro a Milano, non me l’’ha chiesto nessuno.
Tant’’è. Da buon milanese, intraprendente e solitario, mi rimbocco le maniche e scrivo lo stesso.
Da quindici anni, qui, faccio teatro. E produco. O comunque lo vogliate esprimere, senza togliere valore all’arte e senza svilire l’economia.
Per raccontarla in breve: in un capannone a Cusano Milanino abbiamo prima partorito la compagnia Egumteatro (ora emigrata tra i colli senesi), poi Aia Taumastica; sono passato attraverso la lunga ed emozionante esperienza di Macrò Maudit, nata con Paolo Pierobon in una cantina umida di Città Studi, fino ai recentissimi ‘splendori’ (di pubblico) di palazzo Isimbardi.
Ora mi muovo, cappello in testa, caffè e sigaretta, in questa città, per conto mio, senza enti o compagnie alle spalle, alla costante inquieta ricerca di una ‘forma’. Di un ‘modo’? Di un ‘nome’? Di un ‘modello’? Di me stesso?
Ecco, giusto.
Comunque è qui che ho (quasi) sempre lavorato e forse, Milano, sta davvero cambiando.
Di sicuro, a trentacinque anni, sto cambiando io.

E, scusate, ma mi è venuta voglia di fare alcune considerazioni aperte – e una parentesi – sull’arte e la cultura in questa città.

1) Partiamo dai problemi: la mancanza di riferimenti. So che detto così non vuol dire granché. Ma per chi ha sempre cercato, come me, di approdare a dei risultati artistici (con annessi e connessi) o comunque ad una continuità di forme se non di risultati, è sempre stata dura guardare davanti e non riconoscere a Milano i propri ‘padri’, i propri maestri. Non vorrei offendere nessuno, ma ho fatto proprio fatica in questi anni a individuare qualcuno, un regista, un ente, verso cui aspirare o tendere la mano speranzoso. E che, al tempo stesso, me la tendesse, con continuità, favorendo la mia ‘crescita’.
A Milano bisogna farsi da sé. E siamo sempre troppo grandi o troppo piccoli…
Credo che lo stesso problema si può riproporre, adesso, a chi comincia a fare teatro, se non ci poniamo nella condizione di essere, noi, dei riferimenti per qualcuno.

2) Carlo Porta è morto. Ma, sembra che a Milano, non vogliano farsene una ragione. Ovvero se tanti sono affezionati al ‘cuore in mano’, al dialetto, alla nostalgia della ringhiera, altri hanno voglia di cambiare aria. Quindi ci vuole, certo, il rispetto della tradizione, ma certe manifestazioni stile “Milano nel cuore”, mi sembrano spesso serate propagandistiche per le prossime elezioni comunali. Se si vuole festeggiare il passato che questo abbia una sua ‘valorizzazione’ specifica, reale e definita.
Invece mi sembra che le stagioni teatrali milanesi, a volte, promuovano un vago sentimento, per ‘quello che non è più’, per il vecchio, che sembrerebbe accontentare tutti. E invece scontenta i più (specie i giovani, il nuovo pubblico!)

3) Proposta: se l’arte è fatta di correnti, espressione viva di ogni singola epoca (e la nostra è piena di contrasti, tensioni, estremismi, liricità del quotidiano, contaminazioni! etc.), perché non dare luce a nuove feste sì, rassegne – organizzate da enti o teatri stabili, ma su precise elettro-stimolazioni di comune, provincia e quant’altro, per indagare, attraverso la cultura, il presente e il divenire? Iniziative che indaghino, attraverso il teatro, il mondo in cui viviamo. In luoghi alternativi, con modalità originali e sorprendenti, che promuovano il teatro come arte viva e attuale, ‘specchio del diavolo presente’,non come espressione di una lingua e di una retorica sorpassata.
Per molti, non dimentichiamolo, il teatro è ancora un castigo, fatto di noia e sipari…

3) Altra proposta: se si vuole rinnovare bisogna, soprattutto, coinvolgere persone nuove, artisti, professionisti che hanno il sangue fresco, che vivono di teatro europeo, che conoscono le performances, (il futuro insomma!); bisogna inserirli all’interno dei propri consigli direttivi e artistici. Porre in condizione chi sa lavorare bene, chi è preparato ed ispirato, di discutere, muovere, creare le stagioni in una direzione prospettica ‘elevata’.
Certo che nessun direttore artistico cinquanta-sessantenne – vero? – vorrà tra le palle l’artista o l’organizzatore emergente, specie se pagato, che metta, pure, il becco nel suo teatro ‘convenzionato’. Ma le istituzioni che ci stanno a fare se non sollecitano un forte cambio generazionale? Se non individuano (e incentivano) questo dialogo tra il vecchio e il nuovo? Questi statuti…!
A volte, qualcuno, dopo il lavoro, andrà a casa scontento ma il giorno dopo, gli sarà passata. E, intanto, le cose cambieranno. E, magari, in meglio.

(Apro una parentesi) Quando mai s’è visto che l’arte crea problemi di sicurezza? Mica siamo allo stadio…
E allora è vergognoso che in una città vivace come pretende di essere la nostra, un’artista, se vuole, non possa mettersi in una piazza a suonare, a esibirsi, anche solo a leggere dei testi, a improvvisare una scena…
Milano è ancora un luogo dove la libera espressione si scontra coi vigili – i nuovi Inquisitori di terrore e multe -, una città dove devi chiedere il permesso (e poi non te lo danno!) per realizzare una performance per strada o quant’altro; dove luoghi come piazze, metrò potrebbero essere palchi, mostre, teatri a cieli aperto… e invece restano, spesso tristemente, quello che sono.
Utopia? Se siete stati a Praga, a Londra, a Berlino sapete benissimo di cosa sto parlando… ed è anche da questa riconsiderazione degli spazi, dall’allargamento delle prospettive che si può ripensare a un’educazione artistica che, in futuro, porterà grande giovamento. (Chiusa parentesi).

Credo che sia nostra responsabilità, di questi tempi, pensare e ripensare il teatro a Milano.

Che chi lo ha pensato – e prodotto – fin adesso faccia delle considerazioni.
Che ci sia un confronto serio tra i teatri e che, oltre a discutere efficacemente dei ‘loro’ problemi, possano individuare punti in comune e in prospettiva, per diventare dei ‘punti di riferimento’, per costruire un rinnovamento, oltre a pensare alla propria continuità e a un’eredità scintillante.
Che ci sia un confronto attivo, serio, anche nel lavoro, tra le compagnie e gli artisti di questa nuova generazione (tra noi ci sono quasi sempre stati incontri frettolosi e precari), per sviluppare alcuni argomenti fondamentali: come porsi di fronte a questa città? Come affrontare i teatri e le istituzioni e individuare con loro possibile relazioni di dialogo (tanto da mungere non c’è più nessuno)? Come migliorare la percezione che il pubblico milanese, effettivo e potenziale, ha nei confronti del teatro? Come penetrare e permeare la vita culturale di questa città che risponde magnificamente solo alle sollecitazioni festaiole notturne?

E’ il momento, credo, di creare, tra i Navigli, nuovi lidi d’approdo. Signori, è il nuovo che avanza!

Giulio_Baraldi

2006-11-07T00:00:00




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