Chi l’ha detto che Bruxelles è grigia?

L'edizione 2007 del Kunsten Festival des Arts

Pubblicato il 05/09/2007 / di / ateatro n. 111

Dopo dieci anni Frie Leysen ha lasciato la direzione del Kunsten festival des Arts di Bruxelles e passato il testimone al suo principale collaboratore, Chrisophe Slagmuydler (resterà nel consiglio di gestione ma si occuperà ora di un progetto dedicato ai paesi arabi). L’intervista Silvia Bottiroli sul numero 2/2007 di “Hystrio”, in un pezzo ricco di stimoli e molto opportuno (oltre che -– mi è parso – giustamente affettuoso): la Leysen è nota in Italia per le presenze assidue, la curiosità e la partecipazione con cui ha scovato, coltivato negli anni e contribuito a lanciare a livello internazionale gruppi italiani come Raffaello Sanzio, Scimone Sframeli, Teatrino Clandestino, Fanny&Alexander, Kinkaleri. Gruppi scelti in coerenza con le linee anomale di quel festival, sempre alla ricerca – sul fronte europeo e extraeuropeo – di linguaggi diversi da mettere a confronto fra loro e con la scena locale.
Personalmente non ero mai stata al Kunsten, ma ne avevo osservato i programmi e avevo avuto spesso occasione di incontrare la sua direttrice in giro per il mondo, nell’Est europeo soprattutto, e di intuire il suo “fiuto” e di cogliere i suoi gusti, decisamente “radicali”. Ero curiosa del cambiamento.
Quando un festival italiano – o anche un teatro – cambia direttore il nuovo cosa fa? Difficilmente interpreta una linea a una tradizione, quasi mai “studia” i programmi passati (neppure si legge i cataloghi), quasi sempre “salva la situazione” con la sua forte personalità. E’ anche colpa dei criteri con cui i direttori sono nominati, ma è anche per questo che non abbiamo istituzioni, o quasi, ma al massimo manifestazioni. Forse perché all’estero non si fa così, forse perché la missione del Kunsten è stata disegnata con molta chiarezza e la personalità del direttore uscente è molto forte, o forse perché era da anni al suo fianco, Chrisophe Slagmuydler, che firma l’edizione 2007, ha intrapreso invece una strada che mi sembra segnata da una continuità sostanziale e intelligente e assieme da un gusto personale, che sarà più evidente nelle edizioni future, ma imprime comunque già nel programma di quest’anno, alcuni precisi segni (cercherò di coglierli dopo aver riferito del programma e di qualche spettacolo visto).

Regia di René Pollesch, L’Affaire Martin! Etc. ((c) Michèle Rossignol).

La continuità, è nella missione artistico-politica e nell’impostazione organizzativa del festival che sintetizzerei in tre punti essenziali.

Sostenere opere artistiche contemporanee “singolari” (nell’accezione di originali e assieme d’autore), “raccogliere persone, far circolare e condividere idee, visioni, intuizioni provenienti da più parti del mondo, in un crocevia di influenze che sottolinea (e valorizza) le differenze e assieme indica l’incontro come possibile.
(Gli incontri – a mio parere – sono tali anche semplicemente nell’accostamento di spettacoli in un programma, e sappiamo che non sempre gli artisti si cercano a vicenda. Ma qui i gruppi circolano e si respira nelle sale e nel caffè-ristorante che è un po’il cuore del festival un clima di comunità, si avvverte energia, anche grazie alla presenza di un drappello di giovani “osservatori”, operatori e critici riuniti in un gruppo di lavoro-seminario. Una “tecnica” ormai molto diffusa ma che caldamente raccomanderei a tutti i festival perché contribuisce molto concretamente alla formazione di una società multiculturale di teatranti – se impostata con criteri motivati e non strumentali – il cui entusiasmo è contagioso per il pubblico e che garantisce quella particolare euforia e cordialità che si definisce di solito “atmosfera”).

– Aprire quel piccolo paese che è il Belgio con le sue due comunità – in fondo antagoniste – quella francofona e quella fiamminga, e favorire l’incontro delle scene locali con quelle mondiali e il rimescolamento dei pubblici.
Se i programmi dei teatri di Bruxelles sembrano aperti – anche a ospitalità internazionali, italiani inclusi – le separazioni fra le istituzioni e a livello produttivo sono invece rigide e una delle funzioni “storiche” del festival è proprio rimescolare le carte, distribuendo il programma in tutte le possibili sale cittadine – quindici per l’esattezza, facenti capo a organizzazioni delle due comunità: questa funzione è riconosciuta e condivisa dai teatri, che costruiscono una risorsa non irrisoria per il festival, mettendo a disposizione le sale – e spesso i materiali e gli staff – gratuitamente. Un festival internazionale deve a mio parere, mettere sempre a fuoco anche precisi obiettivi locali).
– Dedicare particolare cura ai gruppi, attraverso la pratica della coproduzione, i “ritorni”, l’incontro. La continuità di alcune presenze (anche per gli italiani che ho citato sopra) è una delle caratteristiche del Kunsten, ma a monte c’è una scelta che matura nell’incontro e nell’approfondimento delle poetiche di un gruppo il più possibile all’interno del contesto in cui opera.
La co-produzione è la conseguenza di questo metodo e la consapevolezza della funzione che un festival con questi orientamenti può svolgere nei confronti di gruppi non convenzionali: il budget per la produzione è di 1 milione di euro su un budget totale di 1.600.000 euro.

Il programma dell’edizione 2007 presentava all’interno una serie di filoni precisi, non certo casuali, ma assieme – ammette Christophe Slagmuydler – nati in corso d’opera dalle scelte e dalle riflessioni (le linee tematiche rigide e predeterminate – si sa – sono sempre deleterie, l’assenza di ”intuizioni” preliminari impedisce però di dipanare fili conduttori, fondamentali per costruire un progetto).

Rimini Protokoll, Das Kapital ((c) Lieven de Laet – Academie Anderlecht).

Un fil rouge è la ricerca delle tracce del comunismo, Pollesch a Berlino, Hermanis a Riga, Rajkovic e Jelcic a Zagabria, si chiedono fondamentalmente se ci sia (dal catalogo) “un posto oggi, in fase di neoliberismo trionfante, per altre ideologie”, se c’è un’alternativa al modello occidentale soprattutto in previsione di un processo più drastico di unità, ma forse di omologazione europea. Domande simili si era rivolto nel 2005 il festival di Wroclaw (che per inciso annuncia un’altra bella edizione in ottobre). “Gli artisti non esitano a risalire ai testi dei padri fondatori, come i Rimini Protokoll con Das Kapital o La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo di Forsythe” (entrambi tedeschi, da Berlino e Francoforte).

Un secondo filone – collegato – è l’immaginazione del futuro, ed è una “necessità” che si alimenta nella consultazione del passato e nella perlustrazione di una modernità degradata, in particolare nelle installazioni video (una sezione emozionante del festival)

Wooster Group, Didone ((c) Delphine Coterel – Academie Anderlecht).

E anche nella Didone del Wooster Group (dall’opera di Cavalli e Busenello) una fantascienza dal sapore antico (proiezioni dal film italiano Terrore nello spazio di Mario Bava, del 1965) entra in sinergia col barocco: era uno degli spettacoli più attesi, coprodotto con Edimburgo, e corrisponde a un filone di ricerca del Kunsten legato all’opera barocca e al gruppo americano, ma a mio parere anche uno dei più deludenti, forse proprio per la distanza fra le aspettative e la realtà: una combinazione non troppo riuscita e anche un po’ noiosa di tecnologia, opera e cinema nel teatro.
Un ultimo tema ricorrente riguarda il punto di vista dei ragazzi, dei giovanissimi e il loro linguaggio: ancora attraverso il video (gli adolescenti di Tallin mostrati da Anu Pennanen, Helsinki), e nel linguaggio delle parole e dei copri, anche violenti, col giapponese Okada, l’americano Maxwell, il sudafricano Grootboom.

Tokishi Okada, chelfitsch – Five days in March ((c) Rebecca Lee – Academie Anderlecht).

La presenza extraeuropea è uno dei punti interessanti del programma, e di questi tre autori in particolare.
Con Cinque giorni in marzo, l’autore regista, coreografo giapponese Toshiki Okada (Yokyo) colloca nei giorni dell’offensiva americana sull’Iraq una storia senza storia: le vicende minime (scuola, sesso, locali, discoteche) e i dialoghi-monologhi a due, tre personaggi di un gruppo di giovanissimi. Nello spazio minimo, spoglio e obliquo, in stretta prossimità con gli spettatori, il linguaggio di una crudezza teatralmente inaudita, ma vera e verosimile si associa all’ondeggiare quasi rituale dei corpi, alla gestualità tipica dell’imbarazzo quotidiano giovanile, e poco a poco diventa astratto, si trasforma nella danza disarticolata di una generazione disorientata. E così dall’impatto iniziale un po’ Tokyo decadente ci si trova trasportati in una rituale, sconosciuto e inquietante (insomma: da solo lo spettacolo valeva il viaggio).

Vorrei raccomandare Richard Maxwell e il suo gruppo The NYC Players, già presente alla Biennale di Castellucci – e oggi fra i più apprezzati autori e registi americani- ai direttori delle Scuole d’Arte Drammatica che vogliano ripulire gli studenti dallo stanislavskismo di maniera. E anche a chi – come me – è un po’ dipendente da telefilm polizieschi notturni americani (e non), pur cogliendone la fondamentale stupidità (o forse proprio per quella), o se no perché?

The NYC Players, The End of Reality ((c) Lieven De Laet – Academie Anderlecht).

Più che l’iperrealismo che si attribuisce al regista americano, mi sembra che il tono dominante di The End of Reality sia il punto di vista sarcastico su un mondo che si sente (o è?) minacciato. In un ufficio sotterraneo nel cuore di Manhattan sorveglianti e agenti catturano, ammanettano liberano visitatori-malviventi (o forse no), si battono in un esilarante karaté al ralenti e soprattutto si scambiano dialoghi senza senso (che ci sono tuttavia incredibilmente familiari: i dialoghi da telefilm appunto), in una recitazione non recitata. Minacce immaginate, minacce vere, una storia non storia, forse una metafora, banalità ineluttabili, televisione a teatro: il tutto con intelligenza e ironia. Alla Biennale Maxwell non ha entusiasmato, io a Bruxelles sono rimasta entusiasta.

Un realismo un po’convenzionale per una storia ambientata in una bidonville metropolitana per il sudafricano (di colore) Paul Grootboom e il suo numerosissimo gruppo di Pretoria. Protagonista è un giovane scrittore e il linguaggio del racconto si alterna al dialogo in una vicenda di criminalità: ambiente, azioni, linguaggio violento ma anche strutture sociali tradizionali (il gruppo, la famiglia, gli amici) e una certa ingenuità: nel voyeurismo delle scene di violenza sessuale (fra cui uno stupro iniziale), e nell’insistenza di citazioni letterarie classiche. Uno sguardo interessante tuttavia sulla scena sudafricana e l’opportunità di rompere il probabile isolamento di un giovane autore/regista il cui principale limite è forse quello di voler immettere e mostrare troppo del suo mondo e del suo talento (e a cosa serve un festival come questo se non a questo? la ricerca della qualità non può essere assoluta se l’attenzione è dichiaramene all’incontro e al percorso).

Per la regia di Alvis Hermanis, The Ice ((c) (c) Michele Rossignol).

Per concludere sugli spettacoli, vorrei raccomandare caldamente di non perdersi Alvis Hermanis, quarantenne, a mio parere uno dei massimi registi della scena europea contemporanea ancora quasi ignoto in Italia (ma prossimamente a Modena, a metà ottobre, con Sonja). Col suo Nuovo teatro di Riga (Lettonia) porta al Kunsten Il ghiaccio. Una lettura collettiva del libro con l’aiuto dell’immaginazione a Riga. Il libro in questione è un romanzo best seller della contro-cultura russa contemporanea, Ghiaccio appunto, di Vladimir Sorokin. Violenza e depravazione sessuale in una vicenda fantascientifica (ancora una volta): la ricerca perversa di costruire una razza pura che trionfi su una società corrotta, in un’Unione Sovietica fredda e conformista. La ricerca e la scelta di regia spiazzante – e quello che è sorprendente in Hermanis è che ogni spettacolo è completamente diverso dai precedenti – consiste nel presentare il romanzo in una lettura collettiva (“con l’aiuto dell’immaginazione” appunto). I numerosi e bravissimi attori (quelli impegnati con continuità nella compagnia), seduti in circolo (il pubblico a loro volta sui quattro lati), leggono e si limitano a mimare alcune scene. Il racconto tuttavia è mostrato e documentato agli spettatori anche attraverso book, consegnati dagli attori a ciascuno spettatore e contenenti riproduzioni, fotografie e fumetti – spesso pornografici – cui si affidano i passaggi più crudi (fra il malcelato imbarazzo deglispettatori).
Erotismo e voyeurismo anche in questo caso: un altro filo conduttore del festival, di quelli forse, che si scoprono a posteriori ma che collegano in modo sorprendente stili fra loro diversissimi.

(Per ulteriori informazioni su Hermanis rimando alle cronache di Massimo Marino da Nitra su “Hystrio” e al mio reportage da Wroclaw su atetaro)

Ci sarebbe ancora molto da dire, spettacoli e installazioni di cui dare conto, l’assenza degli italiani da commentare (niente di davvero nuovo scoperto per quest’anno dal Kunsten: ma notiamo Ronconi, Celestini e Emma Dante nelle stagioni di altri teatri della città), ma vorrei lasciare una riflessione finale a quello che mi sembra di intuire come marchio di novità del nuovo direttore. Mi aiuta proprio un’intervista a Hermanis quando, a domanda sulla programmazione del suo spazio a Riga risponde: niente che piacerebbe a Frie Leysen, niente di “radicale”. Penso che con questa battuta il regista lettone rivendicasse in realtà la “radicalità” della “sua” ricerca, incentrata sugli attori e sull’evoluzione di una tradizione tutta legata al teatro psicologico e di parola, possibile solo attraverso l’esasperazione di questa tradizone, e la parola. Fra gli spettacoli più emozionanti che ho visto – e di cui ho dato conto – un elemento comune è l’importanza fondamentale attribuita al linguaggio verbale (alla ricerca sul linguaggio), in una connessione strettissima con il gesto, ma pur sempre in una valorizzazione della parola “teatrale”, tendenzialmente estranea alla tecnologia (Didone a parte). Un orientamento che non mi sembra caratterizzasse le edizioni precedenti, e che trova una compensazione nella estrema cura della sezione video e installazioni. Quasi in una ricomposizione e in un dialogo a distanza dei codici. Può essere un caso, o può essere la necessità avvertita di ridimensionare l’utopia della multidisciplinarità.
Quanto a Chrisophe Slagmuydler che ha meno di quarant’anni e cui facciamo come ateatro i migliori auguri per le prossime edizioni. cui si dedicherà a tempo pieno (perché i direttori di festival seri non sono part-time) con l’’augurio anche di trovare qualcosa in Italia, tende a sottolineare la continuità, il lavoro d’’équipe, la missione del festival. Ma non esclude che quelli che mi è sembrato di cogliere siano primi segni di un impronta più personale.

Mimma_Gallina

2007-09-05T00:00:00




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