La violenza della ripetizione

Loop Diver della Troika Ranch Company

Pubblicato il 07/10/2007 / di / ateatro n. 112

Troika Ranch Company di Mark Coniglio e Dawn Stoppiello, Loop Diver, è un work in progress che terrà impegnato il gruppo di lavoro ancora per un paio d’anni. Una prima Preview Performance è stata presentata a settembre al 3LD Art & Technology Center di New York, a pochi metri da Wall Street (e dal luogo dove si trovavano le Due Torri).
Il punto di partenza è il concetto di loop, di anello: da un lato la ripetizione del movimento di sequenze di immagini, dall’altro le forme cicliche della vita quotidiana.
Per certi aspetti, si segue un’ipotesi di lavoro che i teatranti conoscono e praticano da tempo: portare le nuove tecnologie dell’immagine (o meglio, i loro codici espressivi) all’interno dello spettacolo dal vivo. E’ già accaduto con il cinema e il video, possono bastare alcuni esempi: le tecniche del montaggio cinematografico utilizzate da Dario Fo nella sua pratica d’attore e da Robert Lepage nella costruzione drammaturgica dei suoi lavori; l’alternanza di panoramiche e primi piani, le carrellate e gli zoom che Luca Ronconi reinventa attraverso l’uso dello spazio, delle scenografie, dei pannelli e dei carrelli mobili; il ralenti, fondamentale nella riscoperta dello spaziotempo da parte di Bob Wilson (che inoltre usa sistematicamente anche il blue screen).
Il recupero di questi elementi base della grammatica di altri media rappresenta una novità, perché arricchisce il linguaggio teatrale e gli dà una nuova consapevolezza; ma non si può dimenticare che riprende e amplifica possibilità che lo spettacolo dal vivo già possedeva e utilizzava, anche se non in maniera così sistematica e – appunto – consapevole: a parte la costruzione “cinematografica”, per scene staccate e contrappuntate, del teatro shakespeariano, forse anche il sats, ovvero lo stop presente nelle grandi tradizioni orientali e caro a Eugenio Barba, assume un diverso significato da quando sui videoregistratori è possibile schiacciare il tasto “pause”. Del resto questi usi si intersecano con le mutate abitudini percettive di un pubblico teatrale che vede senz’altro anche molto cinema, tv e video (e ora traffica su internet).


Foto di Oscar Sol.

Nella prima fase di lavoro Loop Diver, cui collabora il Dramaturg Peter C. van Salis, non è ancora interattivo (si sta sperimenando un programma di motion tracking open source, EyeWeb): per ora lo spettacolo è una sequenza di brevi assoli (con qualche duetto) dove i danzatori riprendono “live”, con grande virtuosismo ed energia, alcuni loop (appunto) con sequenze di gesti e movimenti, mentre su tre pannelli vengono proiettate le immagini di una stanza deserta e abbandonata.

Abbiamo videoregistrato i danzatori che improvvisavano con la supervisione di Dawn, poi abbiamo sovrapposto a queste registrazioni alcune complicate strutture di loop utilizzando un modulo di Isadora, il software di Mark, e abbiamo chiesto ai danzatori di imparare queste frasi manipolate.

Ovviamente ogni loop, ripreso dal vivo, ha almeno un momento critico: quello della giunta tra il momento finale e quello iniziale, che inserisce una inevitabile discontinuità, uno scarto impossibile da sanare per un performer. “E’ stato in questa impossibilità che abbiamo scoperto la parola ‘violenza’”, si annota nel programma di sala.
Perché la ripetizione non rappresenta un intervento neutrale. Nel corso delle prove, in una serie di “lunghe improvvisazioni verbali” (di cui resta traccia nella performance) i danzatori

parlano della sensazione di imprigionamento che provano a essere costretti a imparare il materiale dei loop. (…) Avvertivano la natura inorganica dei loop del computer come un atto violento contro i modo naturale in cui si muovevano. La parola “violenza” va intesa nel senso più ampio possibile. Le imposizioni stressanti, quotidiane, che proviamo tutti nella città di New York o le strategie di manipolazione che cogliamo nelle relazioni interpersonali sono due iniezioni un po’ meno banali di violenza all’interno del nostro sistema. (…) I ritmi circolari della nostra vita quotidiana rappresentano un antidoto agli echi della violenza; ma questi stessi cicli possono rappresentare un violento atto di repressione che impedisce il nostro costante sviluppo di esseri umani.

Al di là degli effettivi risultati di quello che è dichiaratamente un work in progress, questo è il campo su cui inizia a muoversi il progetto: un problema in apparenza puramente tecnico (come inserire l’interattività nello spettacolo dal vivo partendo dal loop) innesta una serie di connotazioni emotive e politiche, che a loro volta mettono in moto un processo in qualche modo narrativo.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2007-10-07T00:00:00




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