Il maestro nell’isola della pedagogia

Tre anni di laboratorio di Anatolij Vasil'ev a Venezia

Pubblicato il 11/01/2012 / di / ateatro n. 141

Tra i paradossi del teatro, quello pedagogico è il primo e, anche storicamente, il meno dibattuto, nonostante preceda e implichi tutti gli altri. Arte “sociale” che ha bisogno del pubblico, arte dal vivo che non si può riprodurre, che scinde l’’artista chiedendogli di essere allo stesso tempo esecutore e strumento della propria esecuzione, il teatro è prima di tutto un’’arte che nessuno ti può insegnare, eppure devi trovare qualcuno che te la insegni.
Nessuno può davvero spiegare come si diventa attori. Chi vi aspira deve lavorare su di sé, e dentro di sé, ma per farlo deve possedere delle tecniche che non può imparare fino in fondo da solo perché vengono trasmesse, da sempre, in modo quasi esoterico, da maestro ad allievo. Quella che è stata definita l’’arte segreta dell’’attore si può travasare solo attraverso un’’esperienza artistica tesa a oltrepassare il teatro per arrivare alla vita stessa. Né le accademie strutturate in corsi stabili, né il pullulare di occasionali stage rispondono evidentemente all’’esigenza di incontro profondo e personale con un maestro. E non si tratta neppure di creare eventi d’’eccezione destinati a esaurirsi in attese fuorvianti e insegnamenti frammentari, quanto piuttosto di affrontare una carenza strutturale del sistema teatrale e una priorità della pedagogia teatrale (e vorremmo dire della pedagogia tout court): formare i formatori e insieme riflettere sui metodi pedagogici.

L’isola della pedagogia teatrale, il laboratorio internazionale diretto da Anatolij Vasil’ev che ha concluso il suo ciclo triennale a Venezia, ha cercato di dare una risposta concreta a tale urgenza ineludibile. Sostenuto dalla Fondazione di Venezia e dalla Scuola Paolo Grassi di Milano, coordinato da Maurizio Schmidt e Cristina Palumbo, il progetto ha visto tra il 2010 e il 2011 l’arrivo all’isola della Giudecca di 40 allievi-pedagoghi selezionati dal direttore, dopo un bando internazionale, in due sessioni di workshop propedeutici. Attori e registi provenienti da tutto il mondo per «fare lentamente qualcosa di veramente necessario per il teatro», come dichiarava il maestro russo all’inizio di quest’avventura. Residenzialità, lentezza, concentrazione, ripetizione. Per sette settimane, otto ore al giorno, il lavoro si è concentrato il primo anno su quelle che il regista chiama Strutture psicologiche, attraverso i testi di Anton Cechov, con un approccio attivo e collettivo. La seconda sessione nell’estate 2011 si è rivolta alle Strutture Ludiche e Miste, proponendo di lavorare sulle novelle di Luigi Pirandello. Infine, per la terza sessione svoltasi in ottobre 2012, Vasil’ev ha selezionato quattordici allievi-pedagoghi guidandoli nel lavoro sul metodo appreso in collaborazione con un gruppo di venti attori. Ma tra l’ex Convento dei Santi Cosma e Damiano alla Giudecca, sede del laboratorio, e il Teatro Junghans si sono svolte in questi tre anni anche varie attività aperte agli studiosi e agli appassionati di teatro: proiezioni di filmati storici, testimonianze, conferenze, percorsi per osservatori, incontri con Vasil’ev.

Il lavoro con gli allievi si è basato sul metodo degli etjud, ovvero l’analisi del testo mediante l’azione, l’esplorazione delle strutture ludiche, il mantenimento di uno stadio di continua improvvisazione del corpo e della voce per consentire la concentrazione sulla vita spirituale del ruolo. La pratica della composizione attraverso il conflitto e l’azione, che pone al centro del processo creativo l’attore e la sua ricerca espressiva, giunge a Vasil’ev, attraverso il magistero di Marija Knebel’ e Andrej Popov, direttamente da Stanislavskij. È dunque un fiume profondo alimentato da una delle più importanti sorgenti dell’arte scenica novecentesca quello che si è venuto a mescolare in Laguna con i mille rivoli della ricerca contemporanea. A conclusione del laboratorio, gli allievi-pedagoghi hanno mostrato il risultato del loro lavoro con gli attori nel corso di una lunga serata aperta alla città.

Normalmente la tecnica degli etjud viene applicata a porte chiuse, ma in questo caso Vasil’ev ha voluto che gli allievi imparassero anche dal lavoro in presenza del pubblico, cogliendo le sue reazioni. Per quanto alcuni studi abbiano lasciato intravedere potenziali sviluppi drammaturgici e attorali, poco importa, naturalmente, dare giudizi sugli esiti performativi dell’esperienza. «L’etjud e il caso sono fratelli», ricordava il maestro accogliendo gli spettatori in sala. Importa invece evidenziare la necessità di non lasciar morire un’esperienza di questo livello, dalla quale potrebbero nascere non solo degli spettacoli internazionali (alcuni allievi si stanno già organizzando in tal senso) ma una vera e propria scuola di respiro europeo per la formazione pedagogica teatrale. Già l’Arta di Parigi ha recentemente proposto un corso con le stesse caratteristiche di quello veneziano. Sarebbe davvero un peccato che la città lagunare, capitale ideale del teatro e sede di svariate istituzioni interessate all’arte scenica (dalle due università alla Biennale, dall’Accademia di Belle arti al Teatro Stabile) si lasciasse scippare anche questa occasione.

Fernando_Marchiori

2012-01-11T00:00:00




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