Nel cuore della danza, oltre la danza, malgrado la danza

Faces e Nocturnes di Maguy Marin al Festival d'Automne

Pubblicato il 11/01/2012 / di / ateatro n. 141

Le foto di Faces sono di Jean-Pierre Maurin.

Una meravigliosa, immensa, macchina teatrale: ecco come può essere definito Faces di Maguy Marin, con cui il Festival d’Automne ha inaugurato il 13 ottobre, al Théâtre de la Ville, la retrospettiva parigina sulla coreografa di Toulouse.
Complessi i lavori di Maguy; complesso lo spettacolo – perché è di spettacolo in senso lato che si parla e non più di un genere definito. Perché Faces è l’esatto opposto di quello che solitamente viene considerato “danza” e, allo stesso tempo, una delle sue espressioni più autentiche. Ma sono proprio le antitesi a disegnare le ultime due creazioni della Marin, e questa in particolar modo.
La prima sostanziale antitesi attiene agli interpreti e a ciò che essi sono chiamati a fare in scena: i ventotto danzatori dell’Opéra di Lione – ballerini di classica, s’intende – non accennano a nulla di lontanamente riconducibile a quanto comunemente detto “balletto”, ma prestano la loro tecnica alle sperimentazioni plastiche di Maguy, in un sovrapporsi di luce e buio in cui il movimento non viene quasi mai mostrato, ma solo sentito, intuito, rivelato per scorci; mentre l’uso sapiente e suggestivo della luce – che dall’alto di un unico proiettore illumina i corpi attraverso un’infinita varietà di chiaroscuri – svela scene di stasi assoluta, istantanee di un divenire congelato nella sua impassibilità.

Non ci sono colori nelle luci di Maguy, solo bianco e nero in netta e impietosa successione. Il continuo alternarsi di luci e ombre – che costituisce uno dei motivi portanti dell’intera opera della Marin – è riproposto per tutti i settanta minuti in cui si articola la parabola di Faces: settanta minuti che, per la quantità di immagini offerte al pubblico, potrebbero dilatarsi per ore.
Netti sono anche i sentimenti veicolati da Faces: non c’è spazio per il patetismo o per romanticherie di sorta. La speranza non abita su quel palco. Tutto è assoluto, definito, a tratti feroce. E proprio per questo così terribilmente affascinante.
Poi c’è la contrapposizione individuo/gruppo. Se da un lato ogni azione è costruita per riportare in scena l’identità del singolo – i volti sugli schermi a fine spettacolo, la denuncia verso ogni forma di omologazione – allo stesso tempo è qui che si ritrova il senso più profondo dell’essere “compagnia”: la capacità di ascoltarsi, di lavorare come un corpo solo, di trasformarsi nel tassello di un mosaico più grande.
Senza contare poi gli innumerevoli accorgimenti messi in atto dalla coreografa per moltiplicare le figure: dalla presenza, in fondo alla scena, di un enorme specchio riflettente, ai quattro schermi laterali – due per parte – che mostrano angolature differenti rispetto alla visione centrale, passando ovviamente per i continui travestimenti dei ballerini, quelle maschere o “facce” che si disegnano addosso e dietro cui nascondo la loro vera identità.
In questo composito caleidoscopio, si innestano perfettamente le dissonanti musiche di Denis Mariotte, seconda anima della compagnia e co-ideatore di Faces. Denis è l’altra faccia di Maguy e i lavori di quest’ultima non potrebbero essere tali senza il suo contributo. Quelle da lui proposte sono vere e proprie suggestioni sonore – fatte di rumori, frizioni, boati – che scandiscono il tempo della luce e rimbalzano sullo spettatore con una violenza estremamente efficace.

Cosa rimane alla fine dello spettacolo? Sicuramente la consapevolezza dell’incontenibile forza creativa della Marin e la curiosità di vedere presto le altre forme in cui essa si è incarnata. Ma non è tutto.
Più di ogni altra cosa restano scolpiti nella memoria i quadri che la coreografa francese ci regala; uno su tutti, la girandola che, a ogni passaggio luce/buio, si accresce di nuove elementi, secondo la formula del tableau vivant comune alle altre composizioni, ma con una differenza di fondo: la sua perfetta immobilità è in grado di restituire, prepotentemente, l’idea del movimento puro.
Cosa potrebbe dirsi danza più di questo?

Dopo l’imponente e maestoso Faces, la retrospettiva che il Festival d’Automne dedica a Maguy Marin, ha presentato Nocturnes, lo spettacolo ideale per rappresentare quella che Emmanuel Demarcy-Mota – direttore artistico del Festival – ha definito «une œuvre aux constellations multiples».
Concepito e realizzato insieme al suo compagno di vita e di lavoro, Denis Mariotte, questa seconda creazione presenta caratteri del tutto differenti rispetto a quella che ha aperto la monografia sulla coreografa francese.
La scelta stessa del teatro dovrebbe rappresentare un primo indizio rivelatore dei toni che la caratterizzano: a fare da cornice non più l’imponente Théâtre de la Ville, ma il più raccolto Théâtre de la Bastille, una piccola – ma quanto mai viva – realtà nel cuore dell’undicesimo arrondissement. La sala accoglie non più di cento persone; la scena è lì, vicina, quasi tangibile, anche per chi è seduto nelle ultime file. La scenografia è minimale: un fondale inesorabilmente nero, quinte cubiche da cui, più che i ballerini, entra in scena la luce; una luce sempre bianca, a tratti livida, ma multiforme, che inquadra di taglio lo spazio e le figure che di volta in volta lo abitano.
Magistralmente diretta da Alexandre Béneteaud, l’illuminazione muove da angolature differenti, come a disegnare luoghi sempre diversi, sempre evocati, mai definiti. È continua l’alternanza tra buio e luce – uno schema già noto a chi ha visto altre coreografie della Marin – ma questa volta a scandire i momenti di oscurità sono i passi degli attori e il rumore dei loro tacchi sul palco, quasi fossero metronomi che dettano il ritmo delle azioni, in una cadenza formale che rimanda immediatamente a Beckett.
A essere illuminate sono invece scene di pochi secondi ciascuna, in cui i sei membri della compagnia di Maguy portano sul palco (a turno, spesso in coppia, ma anche singolarmente o a gruppi di quattro) momenti rubati alla vita quotidiana – si canta, si mangia, si balla, si litiga anche – con una naturalezza e una profondità di interpretazione che potrebbero sorprendere in artisti nati come ballerini. Ulises Alvarez, Kaïs Chouibi, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, Mayalen Otondo, Ennio Sammarco sanno benissimo come calcare la scena; i loro gesti sono precisi, studiati, in perfetta sincronia con l’impianto generale e, soprattutto, sempre molto credibili.
Lo spettacolo si apre sulla figura di un uomo in apparenza dormiente. Da lì prende il via una sequenza drammaturgica assolutamente compiuta in cui le scene si susseguono con ritmo serrato e la storia assume un andamento spiccatamente circolare, sebbene non perfetto. Il senso d’insieme si coglie solo alla fine, nella reiterazione di certe immagini, nei volti che gli interpreti spiano da alcune vecchie fotografie e nella scelta di chiudere con una costruzione speculare alla prima, che ha però per protagonista una donna.
A far da sfondo, l’Europa dei nostri giorni. Un’Europa fatta di mille volti e altrettante contraddizioni, che stenta ad amalgamare le sue parti mantenendo ben definite le singole identità di ciascun paese. Un’Europa che preferisce minare l’identità dell’individuo che la abita o che vi emigra, piuttosto che salvaguardarla. Una terra ostile che si sviluppa sul nostro sonno, contro i nostri sogni.
I sei protagonisti parlano lingue diverse: spagnolo, italiano, inglese, arabo, francese, tedesco, greco si sovrappongono creando una polifonia in grado di restituire perfettamente questo senso della pluralità: il virtuosismo degli interpreti (chiamarli solo danzatori è riduttivo) permette di far arrivare al pubblico tutto ciò che dicono e fanno.
Un senso di crepuscolare dolcezza, a tratti quasi malinconia, percorre l’intero spettacolo: è una dolcezza che svela un’altra anima della Marin, assente nella creazione precedente.

Nina_Gugliemino

2012-01-11T00:00:00




Tag: Festivald'Automne (3), MarinMaguy (4)


Scrivi un commento