Nella testa di un Polifemo napoletano

Il debutto di Emma Dante all'Olimpico di Vicenza con Io, Nessuno e Polifemo

Pubblicato il 22/09/2014 / di / ateatro n. 151

Se non ci si lascia frastornare dalle altisonanti e non sempre giustificate digressioni metateatrali, Io, Nessuno e Polifemo di Emma Dante, che ha inaugurato la sua direzione artistica del 67° Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico di Vicenza, si può godere, con buona pace della regista palermitana, come uno spettacolo gradevolmente scaltro. «Io faccio teatro, non spettacoli», tiene invece a precisare la stessa Dante in scena come intervistatrice di un Polifemo napoletano (Salvatore D’Onofrio) sempre alle prese con un Ulisse (Carmine Maringola) non meno partenopeo. Ed è un peccato, perché per un buon pezzo il testo della drammaturga (pubblicato da Einaudi nel 2008 nell’antologia Corpo a corpo) innesta il genere dell’intervista impossibile in una commedia di Eduardo, con efficaci ammiccamenti e felice ironia. A cominciare da quel «È permesso, c’è nessuno?» con cui la donna entra nella grotta suscitando la reazione risentita del figlio di Poseidone, al quale ancora brucia l’inganno di Odisseo alias Nessuno. E proseguendo subito con l’altrettanto incauta richiesta di un colloquio «a quattr’occhi».

Io, Nessuno e Polifemo

Io, Nessuno e Polifemo

Il ciclope è diventato di pietra, è consustanziale alla caverna della tradizione omerica, una grotta oscura si spalanca al posto del suo unico occhio: «Song io ’a caverna. Song tutt’uno con la roccia, monotono e gigantesco, un’enorme montagna senza cuore. Sono di pietra, signó, e voi mi abitate!» È questo forse l’aspetto più interessante di una rilettura del mito che muove e confonde dentro la testa di Polifemo le ombre delle sue stesse narrazioni nei secoli, da Omero a Euripide, Virgilio, Ovidio, Dante. E quando Ulisse la scambia per l’autore della Divina Commedia, lei chiarisce che «Dante è il mio cognome, non il nome».

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Finiscono dunque per suonare pretestuose, in questo contesto, le inserzioni di roboanti citazioni di Carmelo Bene («Un teatro che non fa morti, che non sollecita crimini, sabotaggi, delitti, non può essere teatro, è spettacolo, piccola fiera delle vanità») o delle pur sagge enunciazioni di poetica della regista, che ribadiscono la sua predilezione per quella «lingua maleducata» che è il dialetto e il suo interesse per il vissuto dell’attore piuttosto che per le sue capacità tecniche.

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Sulle proprie solide capacità tecniche fanno invece affidamento le tre danzatrici-performer (Federica Aloisio, Giusi Vicari, Viola Carinci) che scandiscono con le loro diverse entrate una scena altrimenti statica, con i tre attori quasi sempre fermi in dialogo sul proscenio. Sono manichini in balia del destino, sono i compagni di Ulisse dalle membra spezzate, sbranati da Polifemo, sono una Penelope serializzata che tesse una tela infinita, se ne avvolge come in un sudario, se ne libera disfacendone la trama. Infine le musiche eseguite dal vivo da Serena Ganci, tra elettronica, percussioni e voci campionate che a volte danno vita a un teatrino di pupi sonori, altre volte stridono e basta.

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