Capovolgendo l’occhio del principe. Oedipus di Bob Wilson all’Olimpico di Vicenza
Una luce che interroga lo spettatore
I classici come fermento della creazione contemporanea. Il teatro come sintesi dei diversi linguaggi espressivi. Il confronto tra maestri dell’arte scenica e realtà emergenti. Le tre idee forti che hanno incardinato il lavoro triennale di Franco Laera come curatore artistico (con Adriana Vianello e Virginia Forlani) di Conversazioni, il Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico di Vicenza giunto quest’anno alla settantaduesima edizione, hanno trovato una declinazione coerente nell’Oedipus di Bob Wilson. Dopo il suggestivo allestimento al Teatro Grande di Pompei (lo Stabile di Napoli ha coprodotto lo spettacolo), il progetto del regista statunitense si è misurato con lo spazio scenico palladiano e le affascinanti quanto ingombranti scenografie dello Scamozzi, realizzate proprio per quell’Edipo che nel 1585 inaugurò il primo edificio teatrale coperto dell’epoca moderna.
Il fermento sofocleo agisce nell’opera di Wilson facendo scaturire una interrogazione sull’oscurità dei nostri tempi e sulla capacità dell’uomo contemporaneo di guardare la verità. È questa propriamente la tragedia di Edipo, la sua incapacità/impossibilità di sostenere la luce della verità, quella che invece già da sempre conosce il veggente cieco Tiresia. Le parole del testo – basate sulla traduzione in versi di Ettore Romagnoli (1926) e su quella che Orsatto Giustiniani realizzò nel 1585 – sono scandite in cinque lingue (italiano, greco, inglese, francese e tedesco) e fluttuano diventando materia sonora di una composizione scenica che supera i confini tra le arti, come in tutti gli spettacoli di Wilson. Mentre le voci, come ha scritto Achille Bonito Oliva, «approfittano dell’ombra per circolare liberamente senza reticenza e senza chiedere udienza o ascolto», l’opera si presenta come una grande installazione visiva e musicale, un lavoro corale che vede transitare sul palco perimetrato di luci una serie di personaggi congelati in posture ieratiche o impegnati in movimenti iterativi. Sculture viventi che provano a dialogare con quelle della scenografia scamozziana. Anche se Oedipus non ha la durata dei grandi spettacoli storici di Wilson, la dilatazione temporale viene ottenuta attraverso la frizione di differenti ritmi nelle azioni sceniche, il disegno di geometrie luminose, l’inserzione di quadri danzati che cadenzano un tempo altro, tutto interno allo sviluppo formale dell’opera.
Come inserzioni in un continuum che le contiene ma non le trascende – perché non riesce a elevare lo sguardo dello spettatore a una visione complessiva e unitaria dell’opera – appaiono anche le incursioni jazz di un biancovestito Dickie Landry al sax soprano e quelle di Alexios Fousekis che danza stringendo nella mano destra un viluppo di corda come fosse un serpente. A lui si appoggia un anziano dalla lunga barba e dai passi stentati che stride con la plasticità del corpo del giovane. Spicca anche l’alta figura nera, sacerdotale, di Kayije Kagame, e soprattutto quella, vagamente leonardesca, di Mariano Rigillo nei panni di un testimone che narra gli eventi da sotto il palco. Le luci ne esaltano il biancore del viso, il laser sembra scolpirne la barba canuta, i lunghi capelli, la stessa voce stentorea. Lo spettacolo è insomma ricco di raffinati scampoli visuali, ma lascia vedere ancora l’imbastitura, senza definirsi compiutamente.
Come in un sogno, l’Edipo di Michalis Theophanous ferma lunghi momenti di sospensione, cerca di sostenere la visione della luce, si lascia andare a reazioni convulse. Come quando getta a terra correndo le decine di sedie bianche pieghevoli che i performer avevano disposto con attraversamenti lenti e ripetuti dello spazio scenico, fino a saturarlo di profili metallici come pixel di uno schermo elettronico. La diversa concretezza dei materiali in scena caratterizza i cinque quadri dello spettacolo: rami verdi, lamiere, assi di legno. Ma è il disegno delle luci a dominare la scena, imperniandosi su un faro di luce calda rivolto dal centro della scenografia scamozziana verso la cavea. Capovolgendo l’“occhio del principe” rinascimentale, sulla cui prospettiva si è impostata tutta l’architettura teatrale moderna, quella luce – che è sguardo e visione – chiama in causa gli spettatori, scruta le loro coscienze. Dall’antica Tebe una visione ci interroga ancora.
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