Dossier critico. Perché troppe persone hanno paura del teatro?

Una domanda e dieci risposte a partire dall'esperienza dei Visionari a Kilowatt Festival

Pubblicato il 07/01/2015 / di / ateatro n. 152

A Luca Ricci, regista e fondatore della compagnia CapoTrave e di Kilowatt Festival, è co-ideatore e project-manager del progetto europeo “Be SpectACTive!”, abbiamo chiesto una riflessione sullo “spettatore attivo”, anche tenendo presente della sua funzione critica (n.d.r.).

Il 27 novembre scorso il Consiglio Comunale di Sansepolcro (Ar) doveva prendere atto del finanziamento della Commissione Europea, in merito al progetto di cooperazione su larga scala denominato “Be SpectACTive!”, del quale quell’ente pubblico è capofila.
Il progetto è stato ideato e scritto dai membri di CapoTrave/Kilowatt, in collaborazione con Giuliana Ciancio, una cultural-manager che ha già collaborato col nostro festival.
Il tema centrale di “Be SpectACTive!” è il concetto di active spectatorship, cioè l’idea che gli spettatori attivi costituiscano un potenziale prezioso per una strategia di sviluppo del pubblico su scala locale e trans-nazionale. Chi conosce Kilowatt sa che il cuore del nostro progetto è basato proprio su questa idea; dunque, semplificando, “Be SpectACTive!” è un’estensione su scala europea di quanto si è ideato a Sansepolcro nove anni fa.
Il caso è dunque quello di un progetto che parte da una piccola città di provincia italiana e arriva a essere riconosciuto come un’eccellenza sul piano europeo.
Si tratta di un risultato importante, perché da quando esiste il sottoprogramma Cultura, cioè da otto anni, solo cinque progetti con capofila italiano sono giunti a questo risultato, su oltre 150 candidature.
Per tutte queste ragioni, il passaggio in Consiglio Comunale era un atto formale e ci si poteva immaginare una sorta di plebiscito. E invece, il Consiglio Comunale di Sansepolcro ha sì approvato la delibera, ma con soli 7 voti favorevoli e ben 7 astenuti. Non tutti i voti mancanti erano strumentali alle consuete lotte politiche tra maggioranza (di centrosinistra) e minoranza. Sono mancati pure i voti di due consiglieri del PD, così come quelli di una frangia “giovanile” del PD staccatasi dalla maggioranza, ma forse disponibile a un futuro accordo.
Sansepolcro non ha bisogno di Kilowatt per essere riconosciuta come un luogo importante per la cultura italiana: è la città di Piero della Francesca, nonché l’unico Comune italiano che ha un’opera d’arte (“La Resurrezione” di Piero) nel proprio stemma civico, dunque è un luogo fondato sul binomio tra comunità e arte. Però… non capita tutti i giorni di vincere un progetto europeo delle dimensioni di “Be SpectACTive!”, ed è innegabile che CapoTrave/Kilowatt, dal 2003 a oggi, abbia portato alla città una visibilità importante nel panorama culturale nazionale, che significa pensiero, vita sociale, ma anche turismo, economia e lavoro qualificato per i giovani del territorio.
Nel mondo teatrale italiano, Sansepolcro e Kilowatt sono considerati un esempio tra i più significativi di coinvolgimento attivo e senso di appartenenza di una città all’interno di un progetto culturale. Malgrado ciò, neppure la maggioranza che amministra Sansepolcro riesce a riconoscersi compattamente in questo progetto. Perché?

Si può fare molta retorica intorno al tema dei 35 Visionari, cioè i cittadini di Sansepolcro che lavorano tutto l’inverno per scegliere 9 spettacoli da invitare al festival. Tuttavia si può anche ammettere che 35 cittadini non sono una città, e che seppur è accaduto e accade che quei 35 ne coinvolgano 10 volte tanti che poi vengono agli spettacoli del festival, e che questi 350 spettatori a loro volta possano coinvolgerne altri, raddoppiando o triplicando quella cifra, si arriva a un migliaio di cittadini: comunque una piccola parte su un totale di 17.000 abitanti (tanti ne conta Sansepolcro, ma si arriva a oltre 60.000 se consideriamo anche le cittadine limitrofe, nel raggio di una ventina di chilometri).
Certo, noi programmiamo spettacoli di teatro e danza contemporanea… Sicuramente Francesca Foscarini, Carrozzeria Orfeo, Marco D’Agostin e I Sacchi di Sabbia, sono nomi che non dicono molto alla stragrande maggioranza delle persone.
Però la nostra azione di coinvolgimento della città è incessante: da poco più di un anno, cioè da quando gestiamo il Teatro alla Misericordia, durante i mesi invernali, per ogni artista in residenza a Sansepolcro inventiamo un’attività specifica per raggiungere fasce di pubblico ancora lontane da noi (dagli adolescenti dell’istituto d’arte alla locale squadra di pallavolo che milita in A1), diffondiamo in ogni dove il bando per entrare a far parte dei Visionari, durante il festival allestiamo 40 vetrine a tema coi negozianti del centro storico, da due anni apriamo il festival con una giornata tutta per le strade della città e tutta a ingresso libero, teniamo bassi i prezzi dei biglietti (7 euro), partecipiamo alle iniziative locali come quella dove si è chiesto a ogni associazione di Sansepolcro di preparare un albero di Natale che è stato poi votato su Facebook (con 220 voti il nostro albero è il quinto più votato, su 46). Potrei continuare, ma penso che basti quello che ho scritto per spiegare che facciamo di tutto per stare in relazione con la città, per essere popolari e non dare un’idea elitaria del teatro e della danza contemporanea.
Eppure restano le astensioni in Consiglio Comunale a Sansepolcro, un investimento economico da parte dell’ente locale modesto e il numero limitato di cittadini realmente partecipi e interessati a quello che facciamo.
Certo, il Premio Ubu del 2010 e il Premio Nico Garrone del 2013 sono stati riconoscimenti graditi che hanno dato energia alla nostra azione. Ma i premi lusingano la vanità di chi li riceve, magari spostano la considerazione che i colleghi hanno di te, ma a livello di impatto sul pubblico hanno poco valore.
La città di Sansepolcro dovrebbe essere fiera del fatto che i Visionari sono ormai divenuti un format di successo. Dall’autunno 2013 abbiamo esportato a Roma un modello diverso ma simile a quello dei Visionari con il progetto “Under 25” realizzato all’interno di Dominio Pubblico, rassegna congiunta dei teatri Argot e Orologio, che quest’anno l’ATCL ha esteso nei quattro capoluoghi di regione del Lazio e che nel prossimo maggio il Teatro di Roma, diretto da Antonio Calbi, farà approdare al Teatro India (http://www.teatrodiroma.net/adon.pl?act=doc&doc=3021). Un gruppo di giovanissime operatrici teatrali di Como, riunite nell’associazione Artificio ha ripreso il modello dei Visionari nella propria città, lanciando un bando ispirato a quello di Kilowatt (http://www.artificiocomo.it/visionari/6371). Altrettanto hanno fatto due operatrici teatrali di Rimini che organizzano un festival chiamato “Le Città Visibili” (http://www.gennaribalducci.it/).
E poi c’è il progetto europeo dal quale sono partito a scrivere, che porterà il meccanismo dei Visionari, debitamente corretto e adattato, in 8 città europee (Londra, York, Budapest, Praga, Lubiana, Zagabria e Sibiu, oltre a Sansepolcro).
I Visionari sono entusiasti di questa diffusione del progetto su scala nazionale e internazionale, ci sono alcuni cittadini di Sansepolcro che ci fermano per strada o altri che postano complimenti sulla pagina Facebook del vicesindaco e assessore alla contemporaneità Andrea Laurenzi, considerato il nostro principale sostenitore. Però lo stesso Laurenzi ci invita costantemente a fare di più, di più, e ancora di più, perché la città senta il progetto come proprio.
Ma quanta parte della città ha davvero voglia di sentire un progetto di teatro e danza contemporanei come proprio?
Si capirà che parlo di Sansepolcro, ma sto parlando dell’Italia in generale, e del rapporto tra questo nostro Paese e il tipo di progetti culturali che noi – e altri come noi – produciamo.

Un incontro con i Visionari (ph. Luca Del Pia)

Un incontro con i Visionari (ph. Luca Del Pia)

Proverò, dal mio punto di vista, a elencare 10 motivi di criticità e anche alcune possibili percorsi per trovare soluzioni:

1) Partiamo dal prendere atto che questo tipo di proposte non interessa la maggior parte delle persone. In inglese questa produzione artistica viene definita “off”, cioè “fuori”, fuori dal main-stream, fuori dai gusti della maggioranza. Il giorno in cui morì Pina Bausch io ero sconvolto, mia madre non l’aveva mai sentita nominare.

2) Il secondo problema riguarda la paura. Il teatro e la danza, soprattutto quelli legati ai linguaggi del contemporaneo, sono contesti di accoglienza: c’è spazio per tutti, indipendentemente dalle caratteristiche fisiche, dai limiti o dalle specificità di ognuno. Molte persone non si riconoscono in quest’attitudine all’apertura e dunque, temendola, la denigrano: temono l’handicap, temono gli omosessuali, temono la nudità, temono i nerd e/o gli emarginati. Il teatro è un miscuglio di “altri” che crea paura. Su questo punto, io credo che si debba solo insistere nel continuare a proporre questa nostra natura ibrida e difforme, che accoglie e mischia i belli coi brutti, rendendo brutti i belli e belli i brutti, sani gli handicappati e handicappati i sani. Questo è un punto sul quale non dobbiamo cedere, perché la realtà non è né luccicante né desolante come appare in tv. Oscurità e differenze sono parti della vita e possono esserne punti di forza. Chi ne ha paura, se ne faccia una ragione.

3) Come terzo punto segnalerei che l’Italia è un Paese tendenzialmente diffidente verso la cultura, in ogni sua forma. Questo è il Paese che ha gli indici di lettura più bassi dell’Europa occidentale (46% tra gli adulti, contro l’83% della Germania). Penso a un Paese come la Francia che, seppur immerso in una crisi sociale e culturale non dissimile dalla nostra, mantiene lo zoccolo duro di una classe media che si fa vanto dei libri e dei giornali che legge, degli spettacoli che vede, delle mostre che visita. Direi che da noi è quasi vero il contrario, cioè che va di moda farsi vanto della propria ignoranza. L’Italia non ha mai avuto una classe media colta e disposta ai consumi culturali, nemmeno a quelli di massa, figurarsi a quelli più “strani” come possono essere il teatro di ricerca e la danza contemporanea. Su questo, serve un’alleanza tra tutti i soggetti che producono cultura, che si sostengano e si promuovano gli uni con gli altri, fidandosi dell’assioma che un cittadino conquistato alla lettura sarà anche un potenziale nuovo spettatore, un nuovo amante dell’arte visiva, del cinema di qualità, della musica…

4) Un corollario del punto 3 è che molte persone fanno fatica a considerare gli operatori della cultura come dei lavoratori, anzi, li vedono come dei fannulloni che rubano soldi pubblici, quindi dei ladri. Nessuno pensa che un contadino che produce e vende il proprio formaggio sia un ladro, o che sia un ladro un imprenditore che fa rifiniture per gli yacht. Anche chi non mangia formaggio o non veleggia per il Mediterraneo considera quelle persone produttrici di economia, perché creano e vendono il prodotto del loro lavoro. Lo stesso non accade per l’artista. Il perché è semplice: l’artista crea economia a partire da un investimento di denaro pubblico. Poi magari lo restituisce duplicato, triplicato o quintuplicato, ma questa macchia originaria gli rimarrà sempre addosso. Su questo non dobbiamo stancarci di rivendicare il nostro status di lavoratori e di produttori, senza necessità di creare distinzioni tra noi e altri lavoratori, tra noi e altri produttori.

5) Al quinto punto metterei la tendenza a creare consorterie e invidie tra di noi. Se si fa parte di una “squadra” si tende a denigrare quello che fa l’altra. I Balestrieri di Sansepolcro non vedono di buon occhio gli Sbandieratori, e forse entrambi non sentono Kilowatt come un patrimonio della città. È uno sbaglio. Accade nei paesi, ma succede pure nelle città. Da 14 anni vivo a Roma e ormai posso dire di conoscerne il contesto: vedo costantemente operatori e artisti legati a un teatro che denigrano quello che fa un altro, soprattutto se l’altro fa cose simili alle loro. Credo che la solidarietà e il reciproco sostegno sarebbero utili, tra colleghi.

6) Mancanza di qualità, di studio e di una solida struttura drammaturgica mi sembrano tre criticità presenti nel lavoro di molti artisti. Non si può produrre un intero spettacolo intorno a una sola idea; la destrutturazione del racconto è un gioco interessante, ma serve anche qualcuno che sviluppi delle storie; la ricerca della qualità richiede tempo, studio approfondito, durezza verso se stessi. Non basta portare in scena le proprie velleità per creare un bello spettacolo. Se non cominciamo a essere più esigenti con noi stessi, sempre meno pubblico starà dalla nostra parte.

7) Segnalerei una tendenza un po’ masochista degli artisti a compiacersi della propria criticità. Nel suo Ulisse James Joyce scriveva: “Voi trovate oscure le mie parole, ma l’oscurità è nelle vostre anime”. Ecco, a mio modesto parere, Ulisse è un libro grandioso, certi capitoli sono folgoranti, altri sono invece oscuri e poco comunicativi. Per non parlare di La veglia per Finnegans, il successivo e ultimo lavoro di Joyce, dove non sono mai riuscito ad andare oltre le prime pagine, perché quel geniale espediente del flusso di coscienza ideato in Ulisse è qui portato a conseguenze talmente esasperate da risultare incomprensibile. Parlo di Joyce per non fare l’elenco dei nomi di colleghi e spettacoli che hanno fatto della volontà di non comunicare con gli spettatori il loro tratto distintivo.

8) In conseguenza del punto 7, ci sono critici teatrali e di danza che si compiacciono della loro intelligenza scrivendo dottissime recensioni di quei criptici spettacoli di cui al medesimo punto 7. La conseguenza è che molti spettatori non si fidano più dei giudizi di quei critici e, per estensione, nessuno spettatore si fida della critica. La valutazione è certamente estrema, ma se i critici scrivessero di più per il pubblico e meno per l’ambiente teatrale del quale si sentono parte, tutto il sistema ne trarrebbe giovamento. Se c’è un’indulgenza che si può tollerare nei critici è quella verso i giovani, non quella verso chi è già riconosciuto: forte coi forti e semmai un po’ indulgente coi deboli, questa è la critica che ci serve. Non il contrario, come accade spesso.

9) Gli errori degli operatori, dei curatori e dei programmatori teatrali sono un’altra ragione della distanza tra società e teatro e/o danza contemporanea. Nel mio percorso di programmatore so di aver commesso errori, alle volte per ingenuità, altre volte perché dire “sì” a un artista è più facile che dirgli “no”, altre volte l’ho fatto per compiacere un altro collega programmatore. La conseguenza è che certi spettacoli che ho programmato hanno lasciato al “mio” pubblico un sapore di “non è per me” che in alcuni è rimasto indelebile. Si dice che nella mente umana servano sette giudizi positivi su una cosa o su una persona per cancellarne uno negativo: è una proporzione un po’ sconsolante per un programmatore, però diciamo che la sfida va accettata in quanto tale. Credo che il pubblico non vada compiaciuto, non vada educato, ma non vada neppure tradito.

10) Dopodiché, alle volte, pure il pubblico più aperto e ben disposto si adagia facilmente sulle proposte più comode. La pigrizia del pubblico esiste, e non bisogna assecondarla. Quello dello spettatore è un impegno serio, bisogna stare al gioco degli artisti, disporsi a credere, costruire una visione lungo la strada che ci indicano gli abitanti della scena. Il compito degli artisti, così come dei curatori e dei programmatori, è non lasciar cadere mai questo senso di sfida allo spettatore. La sfida tiene viva l’attenzione, rinnova l’interesse.




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