#serialcritico | Che cosa ci dice il dibattito di questa estate sulla mediazione culturale 2.0

Dopo la pubblicazione delle interviste su Dioniso e la nuvola e il dibattito (anche) sui social

Pubblicato il 05/09/2017 / di / ateatro n. 162

Rete Critica a Padova, 2016

Non solo sirenetti nell’estate 2017. Uno dei tormentoni culturali dell’estate dei festival teatrali, assai discusso anche da organizzatori e uffici stampa, è stato il #serialcritico ovvero le interviste che ho fatto a quattordici “giovani” critici di teatro, pubblicate online su ateatro.it in concomitanza con l’uscita di Dioniso e la nuvola. L’informazione e la critica teatrale in rete: nuovi sguardi, nuove forme, nuovi pubblici (Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino, Franco Angeli, 2017). Avevo chiesto a una dozzina di critici under 40 chi fosse il critico oggi e quale sia il suo ruolo nella scena culturale. Quando le interviste sono state pubblicate, la democrazia del web non si è fatta attendere e alcuni post hanno scatenato commenti e frecciatine su facebook.
Il primo tema caldo è stato la questione economica sollevata da Simone Pacini di fattiditeatro: sul web in genere si scrive gratis e l’esigenza di reperire risorse economiche attraverso altri canali comporta inevitabilmente un coinvolgimento diverso del critico con gli artisti. Sotto il post Matteo Solli scrive:

ci sono festival in cui si crea un ambiente molto familiare ed è normale riunirsi a cena fra operatori, artisti e giornalisti. il problema sarebbe affidare la “veicolazione” della stampa (scusate il brutto termine) ed un Ente terzo. Altrimenti, inevitabilmente chi ha i fondi per invitare ed ospitare, fruirà di più attenzione rispetto a chi non ne ha, come piccole compagnie e piccoli festival.‬

O il critico e giornalista Vincenzo Sardelli:

Ma “critica militante” mi sembra una contraddizione in termini. “Imparziale” non vuol dire “asettico”. Il problema del critico semmai è il discrimine tra oggettività e soggettività. Poi capisco anche Oliviero Ponte Di Pino. Confrontarsi, parlare, perfino di fronte a un buon bicchiere, è utile per comprendere. Pasolini diceva che un critico ha tutti i diritti tranne uno: quello di non capire.‬

E ancora Makatha Kalirio:

Dunque, per avere una critica, positiva o negativa la compagnia deve pagare? Perché i critici non vivono del loro lavoro? Cosi come fanno i recensiti/criticati?‬

Se il critico non può essere pagato, dunque il suo operato non si può considerare un lavoro? Il suo non è più un mestiere? Eppure, gli utenti del web hanno bisogno di leggere e confrontarsi con chi cerca di dipanare le matasse del contemporaneo, e i numeri dei visitatori che mensilmente controllano le pagine delle testate online lo dimostrano. La rete consente a tutti di pubblicare e uno dei ruoli della nuova mediazione consiste nel restituire questa pluralità di prospettive, mettendo in relazione il soggetto con la nuova sfera pubblica. Come abbiamo scritto nelle conclusioni di Dioniso e la nuvola,

il nuovo critico teatrale può e deve dunque essere molte cose insieme, intrecciando vecchie e nuove pratiche, senza necessariamente praticarle tutte: è un Dramaturg che segue dialetticamente il processo artistico, un archivista che costruisce memoria, un documentarista che racconta un percorso, un reclutatore che cerca proseliti tra i potenziali spettatori, un brand manager che definisce l’identità culturale di un progetto e lo presenta al target adatto. Spiega agli artisti quello che stanno facendo e spiega al pubblico chi sono gli artisti.

Un critico antropologo? Questa è la proposta di Graziano Graziani degli Stati Generali, che cerca di allontanarsi da una visione “censoria” della critica a favore di una figura capace di leggere il contemporaneo, analizzarlo e restituirlo con profondità e analisi, perché solo il pensiero critico può creare cittadini e consumatori partecipi e consapevoli. Gli apprezzamenti del web non mancano. La giornalista Francesca De Sanctis scrive:

Bella intervista ‪Graziano Graziani! Qualcuno diceva “Odio gli indifferenti”… bisogna essere partigiani nella vita ed è così che ho sempre inteso il ruolo del critico e anche del giornalista… un attivista che scova i talenti e li racconta al mondo.

Ma qualche riserva rimane. L’attore e regista Daniele Timpano aggiunge:

bravo Graziano, sono d’accordo, anzi sono estremamente d’accordo, ma poi non mi torna del tutto quella che mi sembra una contraddizione (apparente?): quando si tratta di votare un artista piuttosto che un altro ai vari premi nazionali, per esempio. Lì la “competizione” ed il critico come “arbitro” che certifica un’eccellenza non sono forse concetti zombi che buttati via dalla porta rientrano dalla finestra per divorarci tutti?‬

Mario Bianchi, in un’intervista rilasciata in occasione del Premio Scenario, partendo dalla sua lunga esperienza di critico teatrale mette in guardia le giovani generazioni sull’importanza dell’apertura mentale al mestiere: la curiosità costante è il segreto per un occhio sempre attento che consente di mettere a fuoco il senso del discorso che si sta portando in scena. Nell’intervista Daniele Rizzo aveva parlato di un critico “educatore”, che deve farsi portavoce di un pensiero non omologato, senza immaginare le diatribe linguistiche che avrebbe causato l’uso del verbo “educare”. Il professore Antonio Taormina scrive:

Sono anni che non si parla più di “educare il pubblico”…fa pensare al Minculpop…‬ Educare e formare sono attività ben distinte; così come non tutti i termini inglesi trovano un corrispettivo italiano, e viceversa. Si rischia l’approssimazione…chi parla male (e scrive male) pensa male…

La blogger Francesca Romana Lino rincara la dose, sottolineando che

quella dell’esatto uso dei termini è una questione da non sottovalutare… Metti “critico militante”: per me significa “indipendente”, “engagé”, quindi lo associo a un’accezione positiva…

L’alto numero di visualizzazioni e i commenti hanno spinto gli addetti ai lavori a partecipare al dibattito, ma ogni intervento si è esaurito nel momento stesso della pubblicazione, senza portare alla costruzione di un pensiero critico collettivo.

La rete 2.0, con i suoi meccanismi di interazione, consente a tutti noi di esibirsi in questo palcoscenico fantasma, dove crediamo di agire in prima persona, mentre a salire sulla scena sono le nostre maschere digitali. Il web diventa una performance teatrale continua a svolgersi nel “qui e ora”, ma si trova al centro di una complessa ramificazione informativa e performativa. Il mondo diventa un fantasma filtrato da uno schermo e il giornalismo, sia online sia cartaceo, è essenziale per la formazione di un’opinione pubblica raziocinante, soprattutto per abbattere lo schermo che separa il pensiero dal mondo reale.
(Dioniso e la nuvola)

Non sorprende dunque lo “zerocomments” alle interviste a Margherita Laera e a Andrea Esposito, entrambi assai lucidi sul futuro di una critica che dovrà confrontarsi con un mondo interamente digitale, in cui assume importanza crescente la multimedialità e dove la sola recensione non è più sufficiente. Esposito parla della carta stampata come di un’informazione limitata

non tanto per numero di battute ma per possibilità (non hai link, non puoi confrontare una notizia, spesso niente immagini o una di pessima qualità, niente video…). Perché mai nel 2016 dovrei informarmi così? Certo il gusto di sfogliare un giornale di carta e leggere un articolo in certi contesti va benissimo, ma è una appendice vintage…

Laera sostiene che

le prospettive (della critica) sono tutte in rete. La scommessa è quella di trovare un modello economico per far sì che i critici possano vivere di critica. Ma se non lo si troverà, assisteremo ad un ulteriore passo nella direzione in cui già stiamo andando: moltissimi critici, ma nessuno che faccia questo mestiere in maniera esclusiva.

Sono dunque necessari una nuova analisi e una nuova narrazione. Definirsi “mediatore culturale” significa oggi assumersi prima di tutto un compito politico, per riportare il dibattito culturale in primo piano, come punto focale per la costruzione di un pensiero critico consapevole e autonomo.
Ma questa nuova figura di “mediatore culturale 2.0” che caratteristiche deve avere? Un critico militante che segue gli artisti, quasi come un Dramaturg? Oppure è meglio che il critico se ne stia seduto alla propria scrivania, senza frequentare gli artisti? E ancora, come può mantenersi oggi il critico? E’ legittimo accettare offerte di lavoro in campo teatrale, come ufficio stampa o social media manager? O deve guadagnarsi da vivere al di fuori del teatro rischiando di restare un dilettante?

A voi, cari lettori di noi critici, l’ardua sentenza.

Dove presentiamo Dioniso e la Nuvola:
8 settembre ore 17.20 – Telelombardia (grazie Tamara Malleo!)
16 settembre ore 12.00 – Festival M.A.V! AVeglia Teatro col baratto, Manciano Grosseto




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