#IETMBergamo. I Motus, uno sguardo verso l’Europa
Una intervista a Enrico Casagrande e Daniela Nicolò
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1. Avete partecipato ad altri IETM?
Abbiamo partecipato a IETM a Milano nel 2004, con Silvia Bottiroli, realizzando un intervento sul progetto a cui lavoravamo allora. In quell’occasione abbiamo anche presentato lo spettacolo Come cane senza padrone di Pasolini, però non siamo mai stati effettivamente iscritti; ora ci stiamo pensando, anzi cogliamo l’occasione di questa nostra partecipazione bergamasca proprio per valutare successivamente se entrare nel network.
2. Come mai non l’avevate mai seguito? Non lo trovavate interessante?
L’abbiamo sempre percepito come network più per operatori che per artisti, sia in termini di contenuti che come impostazione di lavoro. Noi ci siamo sentiti sempre chiamati in causa più dall’altra parte, come ospiti.
Avevamo già comunque attivi altri contatti con l’estero, che spesso non si intrecciavano con IETM: lavorando da molti anni all’estero avevamo sempre coltivato una rete personale di contatti e non sentivamo l’esigenza di andare a IETM per promuovere il nostro lavoro.
Adesso invece ci piacerebbe “scoprirlo” e aggiornarci un po’ su chi sono i partecipanti e le rete presenti.
3. Moltissime compagnie hanno sentito la necessità di intraprendere un proprio percorso internazionale, anche perché forse l’Italia non ha mai promosso più di tanto la creazione di un passaggio sistemico tra Italia ed estero, quindi ognuno ha fatto un po’ storia a sé: è stato così anche per voi?
Ci sono dei cardini quali Vie a Modena, Santarcangelo, Polverigi che ci hanno permesso di fare il salto e di uscire dall’Italia, ma poi il percorso è stato effettivamente personale.
4. Cosa vi aspettate dal confronto con un network strutturato come IETM, che perciò ha una diversa modalità di agire, e una diversa modalità di accesso dei contatti?
Innanzitutto di entrare in contatto con delle reti.
Fino ad ora le nostre collaborazioni estere sono state per delle coproduzioni con grossi teatri francesi, canadesi, belgi. Grossi centri di produzione caratterizzati da uno sguardo attento anche alla situazione italiana, e che ci hanno permesso perciò di produrre i nostri lavori. Però noi abbiamo anche progetti più piccoli, workshop (importantissimi soprattutto ora che abbiamo iniziato un percorso di studio), e quindi approfondire la conoscenza di reti come IETM ci interesserebbe molto; inoltre non avendo uno spazio personale di creazione un luogo di residenza è sempre stato per noi fondamentale.
Ecco perché che entrare in contatto anche con la rete delle residenze può essere assolutamente interessante, per conoscere anche le modalità di scambio del network.
5. In Italia non ci si incontra poi così tanto, alla fine ciascuno è molto preso dalle continue emergenze e dalla propria sopravvivenza, e per molti produrre significa rivolgersi all’estero.
Gli unici spazi dove poter sopravvivere in italia sembrano essere i festival, che rimangono gli unici luoghi vitali: non a caso la nostra ultima produzione è stata realizzata in collaborazione con i festival di Santarcangelo, con l’Arboreto di Mondaino e grazia alla residenza presso il Theatre de la Villette di Parigi avremo un’anteprima a Polverigi.
Lo stesso nostro spettacolo La tempesta è stato prodotto grazie a una residenza italiana ma con produttori esteri. Per mettere assieme tutte le diverse realtà ci vuole un grande lavoro di atletismo!
In questo senso crediamo che una rete come IETM possa divenire una grande risorsa, anche solo perché può permettere di farci conoscere altre piccole realtà.
6. Uno dei vantaggi della rete IETM è la variegata provenienza geografica dei suoi membri, che permette di avere anche un ampio spettro di quanti sistemi si possono toccare, spesso finalizzati ai fondi sovranazionali. Voi come vi siete mossi in questi anni in termini di progettazione europea?
Fino ad ora non abbiamo fatto un progetto europeo, e anche questa è una cosa che ci interesserebbe.
Unico legame con progetti europei è stato tramite Santarcangelo, quando siamo stati coinvolti in Shared Space. Sempre insieme a Santarcangelo inizieremo un progetto di formazione su Rimini a cui vorremmo dare un respiro internazionale, e sarebbe interessante strutturarlo su un piano europeo.
Non abbiamo neanche mai avuto collaboratori esperti in questa materia, per cui non ci siamo mai rivolti verso una direzione del genere, limitandoci a cercare coproduttori internazionali; magari poi questi centri che ci hanno ospitato ricevevano contributi europei per i progetti in cui eravamo inseriti, ma noi in questo senso non ci siamo mai mossi autonomamente.
7. Questa vostra storia di coproduzione in centri importanti a livello europeo ha cambiato il vostro modo di lavorare?
Si, radicalmente. Fino al 2005 avevamo uno spazio a nostra disposizione per lavorare, mentre dal 2005, con la prima grande produzione il cui capofila era Rennes con il Teatro Nazionale di Bretagna, è iniziato un percorso legato a delle residenze presso Paesi stranieri. I nostri lavori sono stati preparati sempre fuori dall’Italia, fatta eccezione per alcune tappe presso piccoli centri di residenza locali (come Scompiglio a Vorno e Mondaino), dove abbiamo sviluppato parte del percorso creativo, ma i finanziamenti sono sempre arrivati dall’estero.
Questo ha modificato molto il nostro modo di pensare agli spettacoli, sia nel lavoro sul testo (che abbiamo sempre dovuto tradurre), che nell’approccio “fisico” con i sottotitoli, sempre presenti nell’apparato scenico. Oltre a questo ci siamo anche dovuti orientare verso dei lavori che trasmettessero dei valori, diciamo, più universali: una ricerca di temi che non fossero troppo locali e troppo legati alla realtà stretta dell’Italia, ma che fossero più largamente riconoscibili e condivisibili.
Ecco da dove è nata l’idea di lavorare sulla tragedia, sui grandi testi classici, che abbiamo sempre trattato come materia e mai trasposti in scena in maniera canonica: sono sempre stati punti di riferimento che ci permettevano di avere basi comuni, riconosciute e riconoscibili universalmente, come è successo con Alexis che ha avuto una tournée mondiale dall’America Latina all’Australia e agli Stati Uniti.
In particolare, questo rapporto forte con gli Stati Uniti e con New York, sviluppato nel tempo, ha spostato il nostro taglio drammaturgico.
Un altro aspetto importante del cambiamento è stata la decisione di lavorare con attori stranieri. Si sono create diverse occasioni per conoscere artisti stranieri: siamo infatti anche docenti della scuola di alta formazione teatrale a Losanna, dove lavoriamo in francese con studenti francofoni, per cui c’è stato un mescolamemto degli attori della nostra compagnia con attori francesi o francofoni, ma provenienti anche dall’est Europa, dalla Grecia, dalla Tunisia.
Lo sguardo sul Mediterraneo è sempre stato molto importante per noi: ora stiamo spostando l’attenzione sull’Africa subsahariana per il prossimo progetto e abbiamo bisogno di trovare degli alleati. E’ un progetto ancora in fieri, su cui lavoreremo nel 2016/2017.
Vorremmo ripartire dagli Appunti per un’Orestiade africana di Pasolini, concentrandoci sulla figura di Pilade: partire dalla sua figura minore per indagare il tema dell’omosessualità. La nostra ambizione sarebbe andare in aree come Tanzania e Uganda (dove era stato Pasolini per girare gli Appunti), e lavorare a contatto con le comunità e con il movimento di tutela dei diritti gay e transgender. E’ interessante, visto che lì la lotta è davvero dura; abbiamo già dei contatti e stiamo cercando di creare nuove relazioni.
Il lavoro probabilmente si intitolerà Chi era Pilade?
Vorremmo continuare a lavorare sulla tragedia perché è in grado di metterci in contatto anche con altre culture ed è un tipo di lavoro, quello sulle figure mitiche e mitologiche, che ti dà libertà artistica e che permette di proseguire la ricerca.
8. Avete trovato una linea artistica nel rapportarvi con l’estero, e al contrario cosa queste esperienze hanno portato nel vostro lavoro in Italia? È cambiato qualcosa quando lavorate qui in residenza nei posti che vi hanno già ospitato?
All’estero in residenza ti vengono fornite assistenza tecnica e condizioni di lavoro, anche inteso come rispetto del lavoro artistico, di altissimo livello, purtroppo esiste un forte gap con l’Italia, ma fortunatamente non ovunque.
In Italia esistono comunque dei luoghi che hanno invece questa impostazione.
Personalmente il nostro rapporto l’estero ci ha portato a far crescere la nostra professionalità: a curare le nostre schede tecniche, a preparare il materiale, a rapportarci in modo razionale con la tecnica.
Ovviamente anche il confronto dal punto di vista artistico con realtà che sono fuori da tutto quello che è italiano ha modificato il nostro segno.
Alcuni festival italiani in questi anni hanno rivolto uno sguardo all’estero, anche nelle modalità di concepire proprio il festival: lavorando per progetti, su delle tematiche, cercando di non farne delle semplici vetrine, ma dandogli un corpo più unitario e coerente alla proposta artistica .
In Italia poi ti scontri sempre con il problema organizzativo/economico: non esistono le risorse per cui molti progetti non possono essere realizzati creando un problema che non dovrebbe esistere perché in realtà poi i soldi, ci sono ma sono mal distribuiti.
9. Noi italiani nel contesto internazionale ci sentiamo sempre penalizzati proprio per la mancanza di fondi, ora però che anche altri sistemi hanno subito dei forti tagli è per noi interessante valutarne la reazione. Nel vostro confronto con l’estero, avete cambiato l’idea sul lavoro che l’Italia porta avanti, nel bene e nel male?
Come Motus lavoriamo da venticinque anni e il nostro primo spettacolo all’estero l’abbiamo portato nel 1998, quindi la nostra è una lunga frequentazione.
Il lavoro delle compagnie indipendenti e di ricerca italiane è sempre stato apprezzatissimo all’estero, anche perché nascendo nella difficoltà, nell’anomalia, nella non formazione scolastica crea comunque un prodotto “diverso”, per esempio, dal canone che si può trovare nel teatro francese, che come teatro iperfinanziato, iperstrutturato (anche da un punto di vista della formazione), dà vita a dei prodotti che in un certo senso sono standardizzati.
Non a caso, le cose più interessanti si iniziano a vedere adesso che la situazione economica è peggiorata.
Il teatro italiano e le compagnie come la nostra, la Raffaello Sanzio, Virgilio Sieni, sono sempre state apprezzate all’estero proprio per la loro difficoltà di essere catalogabili e catalogate, messe in uno scaffale e facilmente riconoscibili e etichettabili. Perché sono sempre, in qualche modo, uniche.
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