Le Buone Pratiche 2015 Teatro e Cinema. Un amore non (sempre) corrisposto
Il verbale della giornata a cura di Flavia Passigli e Martina Sarpero
Il programma delle Buone Pratiche Cinema e Teatro. Dissolvenze incrociate alle Giornate degli autori, Lido di Venezia, 11 settembre 2015.
Leggi il programma della prima edizione delle BP Teatro & Cinema (13-14 febbraio 2015).
Guarda i video con la registrazione della giornata disponibili su youtube.
Per l’incontro sono state inoltre realizzate diverse videointerviste, a Emma Dante, Pippo Delbono, Fabrizio Gifuni, Antonio Latella, Serena Sinigaglia e Stephen Amidon.
Una anticipazione di questo verbale a cura di Fabio Francione è stata pubblicata su “Alias-il manifesto” il 5 settembre 1015.
Roma, Teatro Argentina, 14 febbraio 2015
LA MATTINA
Saluto iniziale
Apre la giornata il saluto del direttore del Teatro di Roma, Antonio Calbi, che sottolinea l’importanza del tema che verrà affrontato in questa edizione delle Buone Pratiche: la relazione tra teatro e cinema, in particolare per la città di Roma. Si sofferma sul rilievo delle Buone Pratiche, “un seminario di studi itinerante in Italia” giunto alla dodicesima edizione, “che offre la possibilità, alquanto necessaria in questo periodo, di riflettere, approfondire e sviscerare tematiche importanti”.
Questa edizione, proprio per la specificità del tema, vede tra i curatori Angelo Curti, organizzatore teatrale, fondatore di Teatri Uniti e allo stesso tempo produttore cinematografico. Curti ha prodotto diversi film di Mario Martone, di cui il Teatro di Roma affronterà il percorso cinematografico durante le repliche dello spettacolo Carmen al Teatro Argentina.
Nel passare la parola a Giovanna Marinelli e nel ringraziarla per la sua presenza, Calbi ribadisce la natura di spazio “sempre aperto teatro” che caratterizza il Teatro di Roma, un luogo dove ogni giorno vengono proposte iniziative diverse, dagli spettacoli agli incontri sul patrimonio archeologico della città Luci sull’archeologia.
Giovanna Marinelli
Prende la parola l’Assessore alla Cultura del Comune di Roma, città del cinema per tradizione storica e per le numerose eccellenze che si sono susseguite nel settore cinematografico.
Nonostante le difficoltà economiche, a partire dalla fine del 2014 la città sta registrando una forte ripresa in ambito cinematografico. Questa ripresa non è legata solo a momenti di eccellenza, per esempio il successo di capolavori come La grande bellezza, ma è frutto di una crescita industriale.
Roma in questi mesi sta ritornando a essere un set cinematografico internazionale: tra febbraio e aprile saranno ospitate le riprese del nuovo film di 007, del prossimo film di Ben Stiller e di Ben-Hur.
Il Comune di Roma ha dedicato molte energie a far ripartire la carta del cinema e alla Festa del Cinema, che a fine febbraio avrà la sua nuova direzione. Il cinema ha così ripreso il suo percorso.
La sfida per il 2015 è il teatro: è necessario trovare forti alleanze tra livello governativo e regionale. Alcune scelte prese a livello governativo hanno avuto un forte impatto sugli enti locali, che molto spesso sono il terminale di decisioni, tagli e strategie di riforma che difficilmente vengono concordate tra i vari soggetti coinvolti. È necessario che gli indirizzi politici si confrontino con le esigenze di una città che presenta un’attività teatrale intensa e continuativa.
Dal punto di vista delle Buone Pratiche, il Comune sta provando a lavorare su cinema e teatro, con il progetto “Roma Grande Formato”, un programma culturale dedicato alle periferie. E’ la vera emergenza sociale e culturale della città, alla quale secondo l’Assessore è possibile fare fronte certo con l’intervento delle grandi istituzioni, che hanno risposto positivamente all’appello del Comune, ma soprattutto se sarà possibile contaminare le diverse arti, proprio a partire da cinema e teatro. Il progetto mira a collegare centro e periferie, rafforzando il legame dei centri teatrali di periferia, proprio a partire dalla programmazione di attività cinematografiche e teatrali. Il progetto troverà una propria completezza nell’arco del 2015. Ringrazia e augura un buon lavoro.
Antonio Calbi
Calbi riflette sulle figure allegoriche rappresentate sulla facciata del Teatro Argentina: musica, tragedia e danza. Se l’arte del cinema fosse esistita, le allegorie sarebbero state quattro, perché il teatro deve essere luogo aperto a tutte le arti e il Teatro di Roma sta intraprendendo questo percorso: “Nella stagione 2014-15 è stato introdotto Cinema sul sipario, un ciclo cinematografico che ha ospitato tra gli altri Goltzius and the Pelican Company, l’ultimo film di Peter Greenway, visionario e barocco.
Il film è stato tenuto in programmazione per una settimana. Il Teatro di Roma vuole aprire il proprio palcoscenico agli artisti di teatro che lavorano con il cinema. All’interno dell’iniziativa Roma per Eduardo, in corso al Teatro Argentina, è stato discusso il rapporto di Eduardo con le due diverse arti. Quando Orson Welles vide recitare Eduardo a Roma, dichiarò di aver assistito alla recitazione del più grande attore vivente. Eduardo era un animale da palcoscenico puro e aveva forse una certa diffidenza verso il cinema, proprio a causa della necessità che ha il teatro di condividere direttamente con una platea vivente quello che accade. Entrambe le arti hanno a che fare con la rappresentazione, entrambe utilizzano l’arte vivente ma con una grande differenza nella fruizione.”
Calbi legge un pensiero di Gherardo Fabretti: “Mettendo a confronto cinema e teatro siamo costretti a riconoscere nella gioia che ci lascia il secondo, a chiusura di sipario, un non so che di maggiormente nobile, quasi che se ne riesca a trarre una maggiore coscienza. Da questo punto di vista si potrebbe dire che ai migliori film manchi qualcosa, una certa scarica tensoria che invece possiede il palcoscenico”.
Chiude il suo intervento con l’augurio che alla fine della giornata si apra una strada per il futuro di questa relazione grazie anche alle testimonianze di attori che sono passati dal teatro al cinema con grande facilità. Ringrazia il Comune di Roma per aver sostenuto la giornata e augura buon lavoro.
Mimma Gallina
Ringrazia Giovanna Marinelli e il Teatro di Roma per l’ospitalità. Le Buone Pratiche si sono tenute in questi ultimi anni in diverse città, ma Roma non era “mai stata osata”. Il rischio è stato affrontato grazie all’aiuto di due amici come Antonio Calbi e Giovanna Marinelli.
“Le Buone Pratiche sono nate da una constatazione: esistono molti aspetti critici nel sistema teatrale italiano che è doveroso fare emergere, ma c’è anche una tendenza che porta a sottrarre lo sguardo da ciò che invece funziona. E nel sistema teatrale italiano ci sono molte iniziative che funzionano, che hanno avuto importanza e che troppo spesso rischiano di non emergere. Le Buone Pratiche danno spazio a questi progetti che rispondono ai criteri di innovatività, sostenibilità, replicabilità. Questa semplice intuizione, che nasce dall’esigenza di raccontare lo stato del sistema teatrale italiano e contemporaneamente guardare alle sue potenzialità di sviluppo, ha avuto un riscontro notevole, soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione. Le Buone Pratiche hanno risposto a un’esigenza sentita dal popolo del teatro e hanno coperto un vuoto. Sono state occasione d’incontro per mondi e generazioni diverse, luogo di confronto aperto tra giovani e istituzioni.”
Nel 2014 è uscito il libro Le buone pratiche del teatro. Una banca delle idee per il teatro italiano, che ha analizzato, anche attraverso il contributo di specialisti esterni, 140 buone pratiche divise per tematiche e per esito, molte delle quali hanno avuto sviluppi positivi.
Oggi per la prima volta le Buone Pratiche escono da territori strettamente legati al teatro. Il tema di questa edizione è stato suggerito da Angelo Curti, affezionato partecipante delle Buone Pratiche e socio dell’Associazione Culturale Ateatro. Gallina conclude ricordando la natura indipendente dell’Associazione Culturale Ateatro: nessuno riceve un compenso, punto di forza del progetto che permette di lavorare in assoluta indipendenza.
Angelo Curti
“Il titolo di questa edizione delle Buone Pratiche è Teatro e cinema: un amore non (sempre) corrisposto. La parentesi poteva stare attorno al “non” ma è stata messa intorno “sempre”, a seguito di una riflessione sullo stato della relazione tra le due arti in Italia”.
La relazione tra cinema e teatro è sempre stata difficile: “L’avvento del sonoro sembrava comportare la scomparsa del cinema stesso, perché lo rendeva troppo simile al teatro. Negli ultimi decenni il cinema ha subito una trasformazione radicale. Una volta andare al cinema significava entrare in un luogo preciso e fruire di un film. Con la nascita e lo sviluppo della televisione e successivamente con le ulteriori possibilità di riproduzione del film, con lo sviluppo del web e la moltiplicazione dell’offerta, il modo di fruire il cinema è notevolmente cambiato. Oltre ad aver perso pubblico e centralità, come dimostra la scomparsa delle sale cinematografiche, il cinema oggi è spettacolo dal vivo. Il cinema, sia a livello linguistico sia come sistema, ha subito la stessa perdita di centralità che ha subito il melodramma. L’opera lirica era un grande spettacolo popolare, adesso si rivolge a un pubblico ristretto, in un determinato luogo. Le sale cinematografiche che oggi resistono propongono programmi simili a quelli delle stagioni teatrali, con un sistema di abbonamenti e di appuntamenti fissi. I cineforum propongono una serie di scelte a cui lo spettatore si affida. Tutto questo porta in qualche modo a un superamento della contrapposizione cinema-teatro. Al cinema stiamo in un luogo con altre persone per fruire di uno spettacolo che accade in quel momento, in una forma diversa da quella cui siamo abituati. Un esempio di questo aspetto sono le sale cinematografiche che proiettano le dirette di concerti e opere dai teatri lirici. Allo steso tempo il cinema si espande e invade i campi della televisione e del web. Tutto questo ci porta a porci una serie di domande. Perché non c’è una osmosi completa e una relazione fluida tra teatro e cinema? Perché le forme di teatro che hanno portato innovazione, sia sul piano narrativo sia su quello visivo, non sono riuscite a diventare cinema? E se è accaduto, come è avvenuto?”
A questo punto Angelo Curti introduce il termine “anfibio”: “Anfibi sono coloro che riescono a respirare con la stessa naturalezza in entrambi i campi, sono gli artisti e gli operatori che riescono a vivere con esito positivo il teatro e il cinema. Molto spesso accade che gli artisti e gli operatori trattengano il fiato quando cedono alla possibilità di passare dal teatro al cinema o viceversa. Spesso chi passa dallo spettacolo riprodotto al teatro lascia una fetta di pubblico delusa. Quando questo non accade, si raggiunge la condizione anfibia.”
Giulio Stumpo
Giulio Stumpo presenta alcuni dati statistici che possono aiutare a inquadrare il rapporto tra teatro e cinema, ma con una avvertenza: “È sempre più difficile, ma soprattutto riduttivo, separare gli ambiti all’interno della produzione culturale. Questa condizione crea però una distorsione che rende difficile capire quello che realmente sta accadendo nel settore”.
Dai dati ENPALS emerge che dal 2010 al 2013 il settore dell’industria culturale che comprende cinema, teatro, radio e tv ha subito una notevole riduzione, sia in termini di lavoratori (con un calo dell’11,3%, oggi in Italia si contano 122.000 lavoratori nel settore) sia in termini di retribuzioni (-17% nel cinema), mentre le giornate lavorate che non sono diminuite in maniera particolarmente significativa (-2%).
Il pubblico cinematografico è diminuito del 12,3%, quello teatrale del 5%. Il botteghino del cinema ha subito una perdita del 17%, quello teatrale del 11%. A un primo sguardo questi dati ci mostrano un panorama desolante, ma non tengono conto del fatto che oggi il settore culturale è più liquido. Le statistiche non sono più in grado di rappresentare la realtà effettiva del settore.
Da un’indagine svolta dall’Unione Europea, emerge che tra le professioni più richieste dal mercato del lavoro vi siano proprio quelle creative, in particolare registi e operatori di ripresa. Oggi l’attenzione del mercato è sempre più focalizzata sulla creazione di contenuti informativi, sulla comunicazione e soprattutto sulla qualità della comunicazione. Questo ci indica un mondo della cultura molto più ampio di quello che abbiamo immaginato fino a ieri.
L’Unione Europea ha commissionato recentemente ad alcuni ricercatori (tra cui lo stesso Giulio Stumpo) una ricerca sulla resistenza delle occupazioni nelle industrie culturali e creative: “Interessante il fatto che la UE non abbia chiesto una ricerca sulla creatività, bensì sul legame che questa ha con la creazione di app per gli smartphone e quanto questo settore si leghi a quello dello spettacolo. È un tema di politica culturale: lo sguardo non deve essere rivolto al PIL prodotto dallo spettacolo dal vivo, ma alla capacità delle industrie culturali e creative di creare valore”.
L’Italia si classifica agli ultimi posti, nella ricerca Eurostat, per numero di occupati nelle industrie culturali e creative, visite culturali, uso di internet, ma soprattutto per spesa pubblica destinata alla cultura (siamo al ventisettesimo posto su ventotto paesi).
“Dobbiamo smettere di pensare ai settori culturali come a compartimenti stagni. È opportuno unire gli ambiti e le politiche. È necessario indagare e capire il ruolo stratego del settore culturale e attuare politiche che lo promuovano e lo mettano al centro dello sviluppo futuro. Non a caso la Cina spende cinque volte di più in questo settore dell’Europa. Dobbiamo capire che questo è il terreno di sviluppo del nostro territorio.”
Prima sessione
Conducono Marina Fabbri e Laura Mariani
Roberto Andò
Roberto Andò, regista teatrale e cinematografico, ricorda le due fondamentali fascinazioni nella sua vita: Tadeusz Kantor e Bob Wilson. “Non si può recitare in teatro”, diceva Kantor, “bisogna trovare il luogo della vita”. Regista, scenografo e pittore, Kantor si domandava come fosse possibile che gli attori si potessero travestire la sera e recitare Amleto. Non subiva il fascino del teatro borghese e convenzionale e uscì da quella estetica teatrale contestando in maniera radicale il teatro del suo tempo. La stessa cosa si potrebbe dire di Bob Wilson, che ha liberato il teatro occidentale da una dimensione necrofila.
Aprendo una parentesi sulla noia, Roberto Andò ricorda un incontro in Sicilia con Patrice Chéreau, durante il quale il regista francese confessò di annoiarsi da morire in teatro, cosa che al cinema non gli capitava quasi mai. A tal proposito è celebre la citazione di Alfred Hitchcock, “Il cinema è la vita con le parti noiose tagliate”. La noia è un fattore culturale importante, degno di interesse e approfondimento.
“Tornando a Kantor e Wilson come progenitori e liberatori di un’idea di teatro che contempla il teatro e che cerca il luogo della vita, come può il cinema diventare un luogo interessante? Non dobbiamo parlare necessariamente del cinema nella forma di uno schermo o di una proiezione.”
Il mare non bagna Napoli da Anna Maria Ortese è uno spettacolo-installazione progettato dallo stesso Andò alla Darsena Acton di Napoli, dove il cinema non c’era pur essendo molto presente: “Gli spettatori si trovavano di fronte a un campo lungo all’interno del quale potevano scegliere tra le azioni che gli attori facevano a loop. Nell’azione non c’era una narrazione, ma una circolarità: lo spettatore poteva scegliere in un montaggio le azioni e rimontarle. Questo ha a che fare con un’idea di teatro ma anche con una capacità del cinema di cui parlava Calvino, per cui la contaminazione tra le arti genera una sorta di sfasamento (o “parafonia”) che ci porta in un altro spazio, come accade quando sentiamo qualcosa di perturbante di fronte a un paesaggio di De Chirico, oppure quando stiamo camminando per la strada di una città”.
Proprio questo “paesaggio” interessa ad Andò nella sua ricerca e rende interessante la relazione tra teatro e cinema. Recentemente ha debuttato al Teatro Massimo di Palermo Il quadro nero, un’opera per musica e film che parte da un racconto di Camilleri ed è ispirata al quadro La Vucciria di Renato Guttuso: “Il dipinto, che ha avuto una fortuna forse eccessiva in Sicilia, ha che fare con un paesaggio morale. Il quadro rappresenta l’atmosfera di un tipico mercato siciliano, pieno di bancarelle e abbondanza di merci, un brulichio di persone, dove però le persone appaiono in movimento, ma allo stesso tempo immobili e melanconiche. La malinconia che emerge dall’opera parla di questo paese, di questa abbondanza. Da qui è nata l’idea di fare un esperimento dove ancora una volta è stata fondamentale la lezione di Kantor sul teatro della morte come approdo formale. In questo paesaggio c’è un rapporto tra i vivi e i morti, che è poi il rapporto cruciale del teatro. L’esperimento è stato quello di far specchiare la sala teatrale del Teatro Massimo di Palermo con una tela di 8 per 8 metri sulla quale veniva proiettato un film dove non accadeva assolutamente nulla: mostrava solo apparizioni e sparizioni di personaggi. Questo andare e venire, questo sfiorarsi ed essere ognuno per l’altro un’occasione o una dissolvenza diventava teatro.”
Così come Il mare non bagna Napoli era in relazione con il tempo, quindi con l’idea di catturare il fuggevole (Antonioni ci ha raccontato come gli attori possono smettere di recitare e come i paesaggi comincino a raccontare per loro le storie), questa video-opera mette in moto l’idea di una natura morta come qualcosa che appartiene profondamente al nostro momento storico, per raccontare il Sud, per raccontare la tragedia di un Sud costretto tra l’immobilità e il movimento. In questo senso il cinema ritorna e diventa una possibilità concreta che ha a che fare con il teatro.
Marina Fabbri domanda a Roberto Andò se questi tentativi possano essere letti come una cinematografizzazione del teatro. Mentre è facile considerare il cinema come una forma mista di linguaggi, il teatro rischia di subire il linguaggio del cinema. È possibile creare un nuovo linguaggio osmotico?
Roberto Andò
“Episodi di osmosi li abbiamo sempre visti fuori dall’Italia. Bob Wilson ne è un esempio, costruisce i suoi testi a partire da una partitura visiva, introduce in teatro un rapporto con l’immagine, con l’ascolto. In Italia l’osmosi sembra avere una deriva equivoca. Osmosi non significa infatti mettere attori di cinema in teatro. Il cinema non è osmotico, costituisce una tensione, una specie di altro luogo spaesante in cui il teatro può rispecchiarsi.”
Angelo Curti aggiunge che per lui essere anfibi non significa mescolare i linguaggi: “Stare sulla terra e stare sott’acqua sono due stati diversi. Roberto Andò è un perfetto anfibio, proprio perché non c’è la volontà da parte sua di fare un teatro cinematografico e viceversa. La cognizione del mezzo e del linguaggio ci permette di stare in entrambi gli ambiti, con disinvoltura e comodità.”
Francesco Saponaro
Nel chiedersi se la propria natura sia o meno anfibia, afferma che certamente la sua identità artistica ha a che fare con la relazione che negli ultimi anni si è creata con alcune esperienze, in particolare quella con Teatri Uniti e precedentemente con la compagnia Rossotiziano, a cavallo tra gli anni Novanta e la metà degli anni Duemila. “A legare le due esperienze è l’approccio al teatro attraverso una disciplina non teatrale. È interessante in teatro trovare il respiro di vita che vive attraverso il linguaggio, ma non sul piano estetico, piuttosto su quello della necessità. Per questo la pittura, l’arte contemporanea, la scienza e il cinema sono state discipline fondamentali”.
Ricorda la genesi del suo spettacolo Chiove, versione napoletana del catalano Plou a Barcelona di Pau Mirò, spettacolo di rara longevità teatrale interpretato da Chiara Baffi, Giovanni Ludeno e Enrico Ianniello. Lo spettacolo nacque sul ballatoio del Teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere, uno spazio quasi abbandonato: “La scelta di quell’anfratto nacque dalla necessità di trovare un luogo che permettesse agli attori di attivare il testo. Non dunque da una pulsione estetica, ma da una necessità.
Dopo il debutto dello spettacolo, si presentò l’opportunità di fare un film di Chiove, realizzato e trasmesso – in diretta – da un appartamento/set nei Quartieri Spagnoli. Attraverso una macchina da presa veniva scelto il punto di vista teatrale di uno spettatore libero di selezionare. La macchina si muoveva e creava l’illusione di restare su un soggetto piuttosto che su un altro”.
Nel lavoro di Saponaro i dispositivi tecnologici sono stati utilizzati al massimo ma sempre parallelamente a una costante ricerca della vita, mentre spesso accade che l’espressione sia al servizio della forma: “Il vero senso di stare in palcoscenico non risponde alla forma”. Saponaro ricorda Delitto di parodia, ispirato al processo per plagio che oppose D’Annunzio a Scarpetta: “Nello spettacolo, dopo una lunga ricerca, sono stati inseriti molti linguaggi espressivi differenti, compreso il cinema muto. Anche in questo caso la scelta di questo elemento coincideva sul piano scenico ed espressivo con una necessità legata al soggetto narrativo. Gli attori che presero parte allo spettacolo (tra i quali ricorda Gianfelice Imparato, Peppe Servillo, Fortunato Cerlino) ebbero una scossa importante: erano interpreti provenienti dal teatro che iniziavano ad affacciarsi con un certo dinamismo agli strumenti della tv o del cinema”.
Come regista, la sua ricerca prosegue su questo crinale, alla ricerca del dispositivo che permette di restituire la vita. Libertà, curiosità e rispetto per il dispositivo, con una grande attenzione alle arti visive, ma soprattutto alla frequentazione nell’ambito della creazione, è necessario trovare la maniera organica e vitale del linguaggio che si usa.
Roberto Andò
Oggi stiamo raccontando un’inquietudine: il fatto di poter passare con il pensiero da un posto all’altro. Artaud scriveva: “Abito un pensiero che si sposta”. C’è un episodio emblematico di questa dimensione: A Pasolini, durante le riprese di un film, capitava improvvisamente di voler scrivere una poesia: “Mi scappa una poesia”, diceva. A quel unto il suo organizzatore lo portava in albergo per permettergli di scrivere. Stiamo parlando di questa necessità, capita che “Ci scappa di fare teatro o cinema”, ma è proprio questo “scappare” che è importante.
Marina Fabbri
Sia Giuseppe Piccioni sia Jacopo Quadri, nei loro film, rispettivamente sull’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico e sul Centro Teatrale Santacristina diretto da Luca Ronconi, parlano di pedagogia teatrale e della relazione tra il regista e l’attore.
Giuseppe Piccioni durante la sua carriera ha sempre guardato con particolare attenzione alla relazione con l’attore con una grande capacità di intonare le più piccole sfumature. Forse Piccioni non è anfibio come tipologia, ma regista di teatro inconsapevole. La sua grande passione e capacità di dirigere gli attori gli permette di mettersi in gioco completamente.
Marina Fabbri domanda a Piccioni di raccontare la propria esperienza con gli attori dell’Accademia Silvio D’Amico dalla quale è nato un film, che non è la registrazione di quell’esperienza ma un film, un racconto con il linguaggio del cinema.
Giuseppe Piccioni
Nel cinema in generale vediamo spesso dei risultati. Vediamo dei film in cui non ci sono particolari difetti ma che non respirano, dove non c’è conflitto, non ci sono i segni del rapporto tra il regista e l’attore.
Oliviero Ponte di Pino introduce l’intervento di Paolo Sorrentino e Toni Servillo, un confronto tra un regista e un attore.
Angelo Curti
Per Curti, Toni Servillo è un classico esempio di “anfibio” poiché rispecchia tutte le caratteristiche di attore con una personalità tale che riesce passare dal teatro al cinema con assoluta disinvoltura. Definisce Paolo Sorrentino “campione totale di apnea”: “Una creatura totalmente cinematografica che ha però avuto esperienze legate al teatro sotto forma di relazione tra lo sguardo di un regista cinematografico e una rappresentazione teatrale, con le riprese di Sabato, domenica e lunedì del 2004 e con il più recente Le voci di dentro, alla fine del 2014. Sono due esempi di film sul teatro e dal teatro, nei quali il regista ha mostrato particolare interesse per tutto ciò che riguardava la struttura della scrittura, approcciandosi a un testo teatrale con lo sguardo di autore cinematografico”.
La natura anfibia di Sorrentino sta, secondo Angelo Curti, nel fatto che nessuno come lui riesce a portare allo stesso livello qualitativo la capacità di scrittura e la bravura di direzione registica.
Paolo Sorrentino
Sorrentino definisce il suo approccio “molto semplice”: “Operando esclusivamente al cinema e non avendo altre ambizioni che quella, il mio avvicinamento alle esperienze teatrali di Toni Servillo è stato totalmente legato alla possibilità di rilevare aspetti cinematografici nei suoi spettacoli. L’operazione si è rivelata più facile del previsto poiché di elementi cinematografici ne ho trovati tantissimi. Per questo non è stato affatto complicato filmare il teatro. E avrei filmato volentieri anche altre esperienze di Toni, come Il Tartufo che, dal mio punto di vista è l’avamposto più cinematografico”.
Ad accomunare il suo stile ai lavori di Servillo è una certa stilizzazione della scenografia e della messa in scena: questo lo aiuta a trovare le inquadrature cinematografiche e, di conseguenza, lo ha aiutato a trovare le inquadrature in teatro: “Mi sembra di ravvisare in Toni la ricerca di una scenografia che mira all’essenziale e che si libera di qualsiasi orpello, la stessa cosa che cerco di fare anche io in un film. In questo senso mi risulta facile filmare il suo teatro”, sostiene Sorrentino.
Una ulteriore affinità può essere ravvisata nell’attenzione ai volti: “La scelta dei visi dotati di indubbia forza espressiva operata da Toni Servillo ha reso molto facili le riprese. In definitiva la mia esperienza consiste nell’aver trovato degli elementi fortemente cinematografici nel teatro di Servillo e nell’averli sfruttati, non avendo alcuna velleità nella direzione del teatro, se non quella del poter utilizzare attori di teatro all’interno dei miei lavori cinematografici”.
Angelo Curti
Ringrazia Paolo Sorrentino e chiede a Toni Servillo di condividere con la platea le differenze che lui, in veste di attore, ha percepito tra l’essersi sentito osservato dalla macchina da presa nei film e il sentirsi guardato all’interno del cosiddetto teatro filmato.
Toni Servillo
Deve la scoperta del cinema a Mario Martone: “Teatri Uniti ha immaginato molto presto grazie a Martone la possibilità che un teatro indipendente riuscisse a crearsi anche una dimensione di cinema indipendente: nacque immediatamente uno scambio di collaborazioni che coniugava la spinta del teatro verso il cinema e del cinema verso il teatro, come si è visto in Morte di un matematico napoletano, frutto appunto dell’intreccio culturale e umano nato intorno all’esperienza di Teatri Uniti. Il film ha goduto della presenza di Carlo Cecchi come protagonista, un attore a cui si guardava e si guarda ancora oggi con un’enorme ammirazione e che in quel film ha offerto una prova cinematografica straordinaria”.
I ragazzi che si formavano negli anni Settanta guardavano con grande curiosità le esperienze come quella della “factory” tedesca di Rainer Werner Fassbinder, che aveva la capacità di mettere insieme teatro, cinema, televisione, e dove gli attori che recitavano a teatro lavoravano anche nei film: “Partendo da quel modello, Mario Martone decise con grande lungimiranza di perseguire la stessa strada”.
I temi e gli argomenti intorno al rapporto tra cinema e teatro sono tantissimi: l’attore a teatro ha la responsabilità ultima dell’evento, al punto da avere anche la responsabilità di drammatizzare l’evento: “Muovendosi all’interno di un testo, le condizioni in cui poi lo spettacolo si manifesta possono essere turbate da qualsiasi interferenza: un vuoto di memoria, un’interruzione, anche un cellulare che suona, un temporale, un colpo di tosse, insomma qualunque cosa accada in una sala dal vivo e che tu utilizzi portando una accelerazione dalla drammatizzazione dell’evento. Al cinema al contrario si è drammatizzati dall’evento: è tutto il contesto dell’evento che deve drammatizzarti.
In questo senso naturalmente l’attore a teatro è in una condizione di dono, mentre al cinema deve essere disposto a essere derubato di qualcosa, rapito da qualcuno”.
L’attore deve mettersi a disposizione del regista poiché, continua Servillo, “anche se può sembrare una idea semplificatrice, io credo che il film sia del regista e il teatro sia dell’attore”.
Questo presuppone un atteggiamento e una strategia interpretativa diversi: “Il teatro è rimasto, con la musica, la sola esperienza che ha una relazione con il tempo. Il tempo inteso come durata ormai non appartiene più a nessuna forma di comunicazione: il teatro, come un grande concerto sinfonico, hanno un inizio, uno svolgimento e una fine. Quando invece un attore si trova a lavorare al cinema, il processo è completamente frammentato: può capitare di recitare subito la fine del film e poi girare l’inizio alla fine delle riprese. Questo modus operandi mette l’attore in una condizione molto diversa di relazione con il tempo”.
Toni Servillo, venendo dal teatro, sente la necessità, anche quando si tratta di un lavoro cinematografico, di conoscere perfettamente fin dal primo giorno di riprese tutto il ruolo: “E’ l’unico modo in cui l’attore può tutelarsi dalle avances del regista: è un modo per tenere sotto controllo all’interno dello scacchiere il ruolo, che è cosa diversa dal personaggio. Il teatro è per l’attore il luogo dove obbligatoriamente e felicemente viene gestita l’ipocrisia: recitare significa essere gioiosamente ipocriti, condividendo con la platea il fascino del come se, del fare finta che”.
Servillo, nonostante tenga a precisare che il teatro è la sua vita (si definisce un “militante del teatro”), ritiene di dovere molto al cinema poiché gli ha permesso di constatare concretamente che, facendo cinema e teatro contemporaneamente, il pubblico si può mischiare e moltiplicare.
Tornando a parlare della curiosità di Paolo Sorrentino nei confronti del teatro, Servillo torna a citare l’esempio di Mario Martone che con Cecchi fece un grande film con un grande attore in una feconda osmosi tra cinema e teatro: paragona l’operazione di Martone a quella che Sorrentino ha compiuto con Il Divo, per il quale il regista ha scelto con accuratezza maniacale il cast sulla base di un gruppo di attori che in quel momento facevano teatro in maniera militante, sottolineando che l’aspetto militante ha fatto sì che si notasse nel lavoro degli attori una costante continuità dello stile recitativo, come se stessero loro recitando a teatro e non davanti a una macchina da presa.
Angelo Curti
Il rapporto tra attore e regista in teatro si dispiega in tutta la sua vitalità durante le prove, caratterizzate da una unità di tempo, mentre in campo cinematografico questo rapporto è scandito da esigenze tecniche di controllo da parte del regista e da una frammentazione del tempo. Riallacciandosi al discorso sul rapporto tra attore e regista, chiede a entrambi se secondo loro ci sono differenze di relazione tra attore e regista teatrale e attore e regista cinematografico
Paolo Sorrentino sostiene in maniera convinta che tra regista e attori esistono molti tipi di relazione: “L’aspetto più importante e fecondo è la collaborazione con un attore che sia anche un compagno sceneggiatore: l’attore non deve essere solo legato alle sue capacità recitative, ma deve cooperare alla lavorazione con la propria capacità di aggiungere qualcosa in termini di scrittura. Il regista-sceneggiatore si esprime con le parole e con la macchina da presa, mentre l’attore contribuisce alla scrittura attraverso la voce e il corpo, arrivando laddove il regista talvolta non riesce ad arrivare”.
Toni Servillo
La relazione tra regista e attore è di fondamentale aiuto per entrambi: quando venne girato Il Divo, il bellissimo monologo scritto da Paolo Sorrentino di Andreotti sulle stragi è arrivato a lavorazione cominciata. Il pezzo era molto bello ma non facile. Servillo ricorda di aver avuto difficoltà, cercava di mettere tutto sé stesso in quelle riprese: “La soluzione arrivò proprio da Sorrentino: a un certo punto si avvicinò e mi disse all’orecchio di farlo come avevo fatto a teatro il monologo di Rasoi”, uno spettacolo di Martone e Servillo in cui Toni faceva una lunga tirata. Paolo Sorrentino, che l’aveva visto, ha usato la propria memoria visiva e la conoscenza di Toni Servillo per aiutarlo, per metterlo nella condizione di sentirsi più a suo agio. Questo, esclama l’attore, “è un bel cortocircuito”.
Oliviero Ponte di Pino
Che lavoro fai sulla faccia, sulla maschera in teatro?
Toni Servillo: “E’ un lavoro molto semplice. (avanza verso il proscenio) Questo è un primo piano. È una cosa molto semplice, ma è delle cose semplici che ci si deve preoccupare”.
Servillo spiega di utilizzare il proscenio allo stesso modo in cui nel cinema viene utilizzato il primo piano: “In Le voci di dentro io e Peppe recitiamo per la maggior parte dello spettacolo avanti”. Si tratta di una forma di stilizzazione dello spazio, come diceva Paolo Sorrentino, una stilizzazione che però ha un significato drammaturgico e un significato registico.
Mimma Gallina
Ringrazia Paolo Sorrentino e Toni Servillo e presenta Maurizio Sciarra, Presidente di Apulia Film Commission: “E’ stato deciso di dedicare parte della mattinata a questioni riguardanti aspetti fondamentali legati alla produzione cinematografica e al collegamento con il mondo del teatro. Sicuramente le Film Commission meritano uno spazio in questo incontro, per aprire una riflessione sulla loro funzione: in questi ultimi anni sono state infatti assai importanti per il collegamento che hanno saputo creare in alcune situazioni tra il cinema e il territorio”.
Mimma Gallina chiede a Maurizio Sciarra, coordinatore della Film Commission della Puglia (una tra le film commission più attive di questi ultimi anni) di spiegarci come opera la Apulia Film Commission, quale è la sua funzione e come sono collegati il cinema e il teatro.
Maurizio Sciarra
Il nuovo presidente della Apulia Film Commission, che arriva da una carriera di regista, spiega di voler portare la sua esperienza da regista in una logica produttiva industriale.
“Il primo passo consiste nel mettere a fuoco tutto ciò che è importante per un territorio. La scelta lungimirante che ha fatto la Regione Puglia ormai dieci anni fa, in un momento di forte cambiamento per l’assetto del paese, è stata di non puntare più sull’ILVA di Taranto ma sull’immateriale, recuperando una tradizione di culturale che negli anni Settanta, un periodo in cui egli stesso si era formato, era molto forte: in quel periodo Bari ospitava le maggiori compagnie sia di teatro tradizionale sia più sperimentali. È stato proprio quel tessuto culturale che si è voluto recuperare: è stato inserito in un piano economico che sta consentendo oggi alla Puglia di essere al centro dell’attenzione non soltanto italiana ma europea e anche mondiale”.
Le produzioni sono invogliate a scegliere come territorio lavorativo la Puglia, in parte perché sono stati previsti aiuti economici (aiuti che la Film Commission stanzierà, oltre all’apertura di diversi bandi) e in parte perché il tessuto economico culturale della Puglia è diventato ormai attrattivo. L’obiettivo è rendere la Puglia una regione nella quale il cinema e la cultura “la fanno da padroni”.
Il cinema e il teatro diventano attrattori di risorse economiche. Sostiene Sciarra: “A me non piace equiparare la cultura al petrolio perché il petrolio sporca, mentre la cultura è nobile e pulita. Cinema e teatro sono sì attrattori di risorse economiche ma sono anche momento di coesione e di crescita culturale del territorio”.
Una Film Commission deve fare questo: mostrare la reattività di un territorio ed essere aperta ad accogliere le forze che la scelgono in quanto luogo e forza produttiva.
Nel contesto attuale il fatto di essere diventati un punto di riferimento è un segno per tutto il paese di quanto l’attenzione all’industria culturale possa servire per fare un salto in avanti verso uno sviluppo completamente diverso: “I consumi culturali nel nostro paese sono fermi da anni: i numeri ci restituiscono una situazione senza crescita e non riusciamo a superare la soglia che ci vede dietro Francia e Spagna”.
Mimma Gallina concorda con Sciarra e anche con la critica alla similitudine che accosta la cultura al petrolio. Tuttavia questo Ministero sta mettendo un forte accento sul legame tra cultura e turismo. Chiede dunque a Sciarra se a suo parere questa dinamicità della Film Commission, i molti film girati in Puglia e le produzioni future abbiano contribuito all’immagine della Puglia a livello nazionale.
Maurizio Sciarra: “L’attrazione del territorio deve partire dalla qualità del prodotto artistico: se i prodotti sono di qualità, le sceneggiature sono eseguite ad arte e il fondale in cui le storie sono ambientate è scelto correttamente, allora automaticamente l’ambiente della storia diventa una parte dell’immaginario di chi la vede e il turismo è una conseguenza naturale. Studiando i primi dati si può constatare quanto il riflesso che ha avuto la serie Braccialetti rossi sul turismo in Puglia sia impressionate, per non parlare dei riflessi sul mercato immobiliare che sono positivamente impressionanti”.
Mimma Gallina chiede a Sciarra in quale misura come Film Commission sono riusciti a far prendere in considerazione laboratori e artisti pugliesi.
Maurizio Sciarra: “La formazione professionale è indispensabile. In Puglia si è cercato di creare un sistema non solo di servizi ma anche di formazione: si sono formati per esempio diversi tecnici che oggi sono tra i più richiesti dal mercato italiano. Un ulteriore obiettivo è creare nuove professionalità, che fino a ieri non c’erano”.
Costanza Boccardi
In campo cinematografico esiste una figura professionale, il direttore di casting, che aiuta il regista nella selezione degli attori, facendo un lavoro di mediazione: “Capisce che cosa il regista vuole ottenere da una determinata sceneggiatura, fa un lavoro di analisi del testo e del personaggio e capisce che mondo cinematografico si vuole costruire. Nel momento in cui si è capito che il regista vuole ricreare un determinato mondo, il direttore di casting deve trovare nella platea degli attori disponibili (o in certi casi ricorrendo a non attori) quelli che meglio potranno interpretare questi ruoli”.
Sintetizzando, il lavoro del direttore di casting è prima di tutto capire e poi andare a cercare: Costanza Boccardi inizia la ricerca a partire dal teatro, dal cinema, dalle scuole e anche dalla strada, il cosiddetto “street casting”.
Nel cinema il settore del casting è molto sviluppato: “I direttori di casting sono uno degli elementi fondamentali del reparto regia (in questo periodo tra l’altro i direttori di casting stanno cercando di avere un riconoscimento come categoria a parte). Nel teatro invece la situazione è molto diversa. Le compagnie si formano sulla base di criteri abbastanza generici che talvolta scaturiscono da logiche produttive”.
Ulteriore compito del direttore di casting è quello di saper indirizzare gli attori: “Cinema e teatro sono linguaggi differenti che richiedono una diversità di applicazione. Non sempre gli attori di teatro vanno bene al cinema e gli attori di cinema vanno bene in teatro: sono linguaggi diversi, il corpo reagisce in modo diverso”.
Un altro aspetto sottovalutato è la formazione: “I giovani attori che escono dalle scuole di teatro o dalle scuole di cinema devono essere osservati e indirizzati nel mondo del lavoro. Il casting è in grado di agevolare questo tipo di percorso: vede, capisce e cerca di indirizzare”.
Talvolta i casting fanno riferimento alle agenzie che si occupano di attori. Il rapporto che intercorre tra agenzie e casting, se fondato sulla fiducia reciproca, porta a buoni risultati: “Il bravo agente conosce i suoi attori e facilita il lavoro del casting operando una prima scrematura e proponendo l’attore, o gli attori, ritenuti da lui adatti in base alla richiesta del direttore di casting”.
Oliviero Ponte di Pino
Introduce l’intervento di Spiro Scimone chiedendogli come è nato e come si è sviluppato il suo rapporto con il cinema
Spiro Scimone
Spiro Scimone racconta che al termine di una replica al Teatro Valle dello spettacolo Nunzio, realizzato insieme a Francesco Sframeli, il regista Giuseppe Tornatore entrò in camerino e chiese loro di prendere in considerazione l’idea di provare a scrivere un film tratto da quell’opera o dalla fusione di altri loro lavori.
Due anni dopo, Scimone e Sframeli decisero di seguire il suggerimento del regista: “Per noi era la prima esperienza cinematografica, a parte una piccolissima parte come attori in un film di Tornatore. Oltretutto questa operazione era di un livello differente: bisognava immaginare un film tratto da un testo teatrale scritto da noo; non avevamo mai scritto una sceneggiatura per il cinema, così come Nunzio era il primo testo che avevamo scritto per il teatro”.
Quindi cercarono, in fase di stesura, di avere il doppio ruolo di attori ma anche di spettatori: “Ho scritto Nunzio cercando di immaginarmi un palcoscenico e ciò che accadeva su di esso e lo stesso approccio è stato applicato per la sceneggiatura: lo sforzo è stato quello di provare a immaginare di vedere un film. Naturalmente avendo già il materiale di Nunzio in mano come punto di partenza, avevo già qualcosa ma sapevo che non avrei potuto utilizzarlo appieno, proprio perché si tratta di linguaggi differenti”.
La strategia d’azione è stata quella di cercare di trovare i punti di contatto tra il teatro e il cinema: “È vero che le riprese cinematografiche sono caratterizzate da una forte frammentazione in fase di ripresa, ma la stessa frammentazione si può ravvedere anche nell’ambito teatrale in fase di prove, durante le quali spesso capita che si interrompa una specifica scena e si inizino a provarne altre. Pur sapendo di avere dei limiti (trattandosi della loro prima esperienza da registi cinematografici) è stato fondamentale creare una équipe affiatata”.
ll risultato, Due amici, ha ottenuto riconoscimenti anche a livello internazionale. Spiro Scimone, nonostante Due amici abbia vinto e sia stato premiato a Venezia con il Leone d’Oro del futuro nel 2002, decise di non accogliere una ulteriore sfida: “Avremmo potuto fare subito altri film ma non sentivamo questa esigenza, la nostra esigenza era un’altra: in quel momento non avevamo nulla da raccontare cinematograficamente, sentivamo un forte bisogno di tornare a teatro: per noi tornare a teatro significa partire dal nulla, creare un testo dal niente, scrivere, inventarsi qualcosa e sentivamo il bisogno di scrivere per il teatro così ho scritto Il cortile”.
Angelo Curti definisce Spiro molto poco anfibio: “Diversamente da percorsi come quelli che possono aver compiuto Emma Dante o Pippo Delbono, il loro film Due amici era un vero film. Ma nel loro percorso quell’esperienza è rimasta un caso isolato”. Forse la fatica del cinema, sostiene Curti, “una fatica diversa da quella del teatro, non è a tutti congeniale”.
Spiro Scimone ribadisce di non aver voluto fare la trasposizione cinematografica di uno spettacolo teatrale, ma di aver voluto girare un film; “La fatica maggiore è stata quella di entrare nei meccanismi della produzione cinematografica, anche perché non ci eravamo mai trovati all’interno di queste logiche. Il nostro è un teatro indipendente, che viene creato dal nulla sia dal punto di vista artistico sia da quello organizzativo. Mantiene una dimensione di microartigianato estraneo alle logiche produttive, nonostante sia riconosciuto qualitativamente sia a livello nazionale sia internazionale”.
Per quanto riguarda l’indipendenza, in Italia esiste il problema degli scambi e delle co-produzioni, ulteriormente complicatasi dopo l’introduzione dei Teatri Nazionali. L’importante, afferma Scimone, “è non perdere mai la dimensione di artigianato di qualità che contraddistingue gli spettacoli della compagnia”. Termina il suo intervento sottolineando l’importanza alle piccole cose, perché “è l’insieme delle piccole cose che fanno le grandi cose. Lavorare sul particolare, su quello che per noi è la base del teatro: il continuo rapporto autentico tra palcoscenico, corpo dell’autore, corpo dell’attore e il corpo dello spettatore”.
Oliviero Ponte di Pino introduce un’esperienza curiosa e interessante, che non appartiene propriamente al mondo del cinema ma che è sembrato giusto valorizzare nel contesto della Buone Pratiche: un gruppo di sceneggiatori-autori e un gruppo di attori presi dal teatro che hanno ottenuto un grande successo su internet facendo satira usando il linguaggio cinematografico.
Pietro Belfiore e Davide Bonacina (Il Terzo Segreto di Satira)
Il Terzo Segreto di Satira non fa né cinema né teatro ma prova a fare da quattro anni satira su internet, utilizzando il linguaggio cinematografico. I cinque autori del format si sono trovati a fare qualcosa di diverso: “Internet impone una serie di limiti, in primis di carattere temporale: bisogna stare all’interno di 3-4 minuti e utilizzare un ritmo accelerato. La fruizione su internet è molto veloce e il linguaggio cinematografico viene utilizzato come escamotage linguistico: per esempio per informare esclusivamente lo spettatore delle intenzioni del personaggio facendolo appartare dagli altri e usando la tecnica dello sguardo in macchina. Questa pratica viene utilizzata molto anche a teatro, dove spesso si vede l’attore che parla direttamente con lo spettatore per esprimere le sue intenzioni: è un codice che si utilizza spesso”.
Per il lavoro Il Dalemiano non hanno ricevuto alcun finanziamento, il video è stato totalmente autoprodotto. Altro fattore interessante è la collaborazione continua con gli attori della Scuola “Paolo Grassi”, un elemento non così frequente nel mondo di Internet: come è stato detto da Servillo e Sorrentino, è molto importante lavorare sempre con lo stesso gruppo di attori, sottolinea Belfiore, “al fine di creare un insieme di conoscenze condivise che permettono di lavorare molto meglio sul set, poiché ognuno porta il suo contributo attivo alla sceneggiatura, creando in tal modo un lavoro davvero collettivo”.
IL POMERIGGIO
Seconda sessione
Oliviero Ponte di Pino e Laura Mariani introducono la prima sessione pomeridiana delle Buone Pratiche: il nodo teatro-cinema sarà affrontato soprattutto dal punto di vista degli attori. Laura Mariani ha pubblicato su ateatro.it un articolo che indaga il rapporto degli attori con cinema e teatro partendo dalla messinscena viscontiana di Un tram che si chiama desiderio del 1949: un bell’esempio di amore corrisposto fra teatro e cinema, protagonisti Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni. Il cinema ha cambiato notevolmente questi due attori.
Visconti scrive che Mastroianni agli esordi del suo apprendistato nel ’48 era “un ragazzotto che non sapeva dire una battuta”, ma lavorò nei suoi spettacoli per una decina d’anni. Durante questo lungo apprendistato iniziò a lavorare nel cinema, che diventò il suo mezzo di espressione per eccellenza. L’amore per il teatro restò forte, tant’è che prima di morire tornò a recitare in teatro.
Gassman era invece il classico primattore: bello, colto e intelligente, ma un po’ freddo e distaccato. Quando al cinema iniziò a recitare le parti comiche, perse quella rigidità e cominciò un altro percorso attorico. In Intervista sul teatro (1982) scrisse: “Il cinema è un’arte realistica […] racconta sempre al presente, ed è, molto più del teatro, attento al dettaglio del quotidiano, del contingente (…) La recitazione per il cinema è la non-recitazione. Ciò che bisogna fare davanti alla macchina da presa è esserci. Esserci e basta.”
Laura Mariani introduce il primo ospite, Glauco Mauri, che ha attraversato la storia di tutto il teatro del secondo Novecento e osserva che nei suoi spettacoli di teatro c’è un pizzico di Fellini, come forse in Fellini c’è un pizzico di teatro…
Glauco Mauri
Forse il punto in comune con Fellini è il grottesco. Il grottesco è la materia più ricca per esprimersi in teatro. Glauco Mauri ha lavorato solo in cinque film. Profondo rosso di Dario Argento (1975) è la pellicola che gli ha dato maggiore notorietà, anche se “Non ho cercato il cinema e il cinema non ha cercato me”. Nonostante sia stata una parte essenziale della propria vita, non ha mai avuto una grande corrispondenza con il cinema.
Rispetto al teatro, ricorda una frase che un caratterista gli disse all’inizio della propria carriera teatrale: “Ogni pubblico ha lo spettacolo che si merita”. In teatro il pubblico ha un grande impegno. Le radici interpretative di uno spettacolo sono sempre le stesse, ma ogni sera la rappresentazione in teatro cambia al cambiare del pubblico. È questo, dice Glauco Mauri, che lo affascina del teatro. Si tratta di uno scambio che al cinema non gli è mai accaduto di percepire. La macchina da presa, anzi, lo preoccupava: era un estraneo astratto con cui non riusciva a dialogare. La pellicola resta sempre quella, lo spettacolo teatrale non è mai lo stesso, cambia a seconda dello scambio che avviene tra il palcoscenico e la sala.
La Compagnia Mauri/Sturno ha portato in scena una versione teatrale del film di Giuseppe Tornatore Una pura formalità, la vicenda di un commissario che cerca di far confessare al protagonista un delitto. I personaggi hanno un rapporto molto simile a quello tra Raskolnikov e Porfiri in Delitto e castigo. Partendo dal presupposto che cinema e teatro hanno due linguaggi diversi, più un’opera è ricca e più premette a un artista di trovarvi delle sfumature. La ricchezza dell’opera di Tornatore ha permesso a Mauri e Sturno di lavorare sullo spettacolo. Tornatore (che non aveva letto il testo e non aveva mai assistito alle prove) quando vide lo spettacolo disse a Glauco Mauri: “C’è qualcosa di diverso. È come quando torni a casa e trovi i mobili spostati. Ma la tua interpretazione mi ha fatto sentire a casa mia”. Non si è trattato di un remake del film in teatro: “La storia è stata resa più umana, più emozionante. La commozione serve più della razionalità. La razionalità implica uno sforzo maggiore da parte dello spettatore, l’emozione arriva subito. Se uno spettacolo tocca una corda mai suonata, vibra qualcosa che non aveva mai vibrato prima. Questa è stata l’intenzione dello spettacolo: dare una spinta emozionale al film, facendola scaturire dal rapporto tra i personaggi. Dal punto di vista drammaturgico sono stati fatti alcuni piccoli interventi sulla sceneggiatura: sono state aggiunte delle scene e il testo è stato reso più comprensibile dal punto di vista emozionale. La compagnia spesso ha riscritto e reso propri i testi, dando una propria impronta e allo stesso tempo rispettando l’idea dell’autore”.
Il testo, osserva Laura Mariani, si ricrea nel momento interpretativo.
Glauco Mauri risponde: “Molti colleghi non amano le repliche. Io le amo perché ogni sera c’è qualcosa di diverso che non avevo scoperto. Il teatro è quel luogo in cui la razionalità batte le ali e diventa a volte poesia. Non so come avviene, è un mistero.”
Anna Buonaiuto
“L’incontro con il cinema è stato abbastanza casuale, perché mi sono sempre sentita un’attrice di teatro.” Anna Bonaiuto ha avuto diverse occasioni di lavorare nel cinema, ma è stato l’incontro con Mario Martone a dare la spinta più importante. Nel 1989 ha lavorato con Mario Martone nel Woyzeck, Mario aveva una visione registica molto forte ed è interessante che quando decise di iniziare a fare cinema abbia scelto di coinvolgere soprattutto attori teatrali.
Le riprese di Teatro di guerra furono fatte mentre gli attori stavano realmente provando uno spettacolo: I sette contro Tebe. Nel primo periodo di prove, intenso e tormentato, fu posta in sala una macchina da presa, ma gli attori non ne sentivano il peso, perché erano molto più presi dal lavoro di prova…
Angelo Curti aggiunge che la presenza non invasiva della macchina da presa in quel caso era dovuta anche al fatto che con la pellicola era impossibile riprendere tutto il lavoro delle prove, quindi gli attori di fatto non sapevano mai quando la telecamera stava girando. Erano delle prove vere, ma c’era già una prescelta da parte del regista di cosa riprendere.
Anna Buonaiuto
La scarsa invadenza della macchina da presa, prosegue Anna Bonaiuto, permise di girare successivamente la sceneggiatura in uno stato leggerezza e semplicità: non si sente la differenza tra i due momenti di lavoro: “L’attore è quello che è, non quello che fa, quindi quella differenza non si deve sentire”.
Laura Mariani sottolinea la capacità dell’attrice di lavorare con entrambi i linguaggi. Ricorda che Ilda Boccassini rimase “turbata” dal primo piano del “suo” personaggio nel Caimano. Anna Bonaiuto confessa che quell’esperienza è stata piuttosto semplice: “Se è vero che al cinema ci si sente più minacciati dalla macchina da presa e ci sono più distrazioni rispetto al lavoro sul palcoscenico, durante quel primo piano del Caimano guardavo semplicemente Nanni Moretti che interpretava Berlusconi. La stessa cosa vale per l’interpretazione della moglie di Andreotti nel Divo: non sapendo molto di quel personaggio, ho guardato un breve video per capire come si muoveva”.
Laura Mariani domanda all’attrice come cambia il rapporto con i diversi registi e se cambia il rapporto con lo stesso regista al cinema o a teatro.
Anna Bonaiuto ricorda:”Ho sempre lavorato molto bene in teatro con registi che erano o erano stati attori come Luca Ronconi o Carlo Cecchi, perché li sentivo più dalla mia parte: quando si fa o si è fatto lo stesso mestiere molti discorsi diventano inutili”. Riguardo alla differenza del lavoro al cinema e in teatro: “In teatro mi sono sempre sentita più protetta, ma ciò nonostante a teatro soffro moltissimo e al cinema pochissimo. Mi sento più tranquilla, forse meno coinvolta. Non bisogna credere fino in fondo in se stessi, lasciarsi andare è molto importante”.
Rispondendo a un’altra domanda di Laura Mariani sugli effetti del divismo negli attori, risponde che non ha mai avuto un’immagine di sé come diva: “Sono consapevole che nella vita degli attori questo aspetto esiste, soprattutto al cinema, ma per me gli impegni legati alla promozione della mia immagine sono più faticosi dell’interpretazione di un monologo di due ore tutte le sere”. Cita Bergman in Prima della prova, che dice a una giovane attrice: “Risparmia le tue energie di seduzione per quando sei sul palcoscenico.” La recita nella vita è uno spreco, è importante appartarsi nella vita per poter poi vivere il proprio lavoro, che poi diventa la propria vita.
Enrico Ianniello e Renato Carpentieri
Angelo Curti
Ianniello e Carpentieri sono entrambi attori che hanno straordinarie carriere televisive e cinematografiche, ma con una profonda radice teatrale. Renato nel 2000 ha iniziato a recitare nella serie La Squadra, che è andata in onda per otto edizioni su Raitre (fino al 2008). La stessa cosa è capitata ad Enrico, per un rilevante ruolo nella serie di Raiuno Un passo dal cielo. Domanda ai due attori di raccontare come questi percorsi, la serialità e consuetudine di questo impegno, abbiano influenzato la loro vita teatrale.
Renato Carpentieri
“Recitare otto anni nella serie La Squadra mi ha permesso di continuare a fare teatro in assoluta autonomia. Inoltre la qualità del lavoro e il legame con la vera e propria squadra che si è costituita sul set mi ha permesso di tenere quel ruolo per otto anni”. Durante questo periodo l’importante era “esserci”, stare lì pienamente ed esserne convinti, ragionare sul lavoro e lavorare sempre con spirito di curiosità e di novità.
Pone delle domande ai relatori:
- Il teatro si sta confondendo con il cinema? Stanno nascendo sempre più attori funzionali?
- C’è una debolezza critica molto forte in questo momento, sembra che non si siano mai visti tanti geni come oggi… Non è forse vero che la società non chiede più nulla al teatro?
Oliviero Ponte di Pino
Lo spirito di una iniziativa come questa è quello di porsi delle domande e di tentare di far raccontare quello che sta succedendo da chi sta lavorando.
Esistono oggi certamente numerosi attori funzionali, ma ci sono anche alcuni attori non funzionali. La debolezza della critica e la scarsa necessità di teatro da parte della società sono due aspetti legati tra di loro. Il teatro è una delle forme con cui la nostra cultura ha costruito un pensiero critico. L’abbassamento del livello della critica e l’abbassamento della necessità del teatro da parte della società vanno di pari passo. Proprio per questo oggi il teatro e la critica hanno una funzione importante. Ci permettono di capire che cosa sta effettivamente cambiando, sono una sonda che ci consente di osservare i cambiamenti nella nostra identità e nella nostra relazione con l’esterno. Il senso profondo di questa giornata va in questa direzione: utilizzare teatro e cinema per capire dove siamo oggi.
Enrico Ianniello
Ricorda un verso del catalano Juan Brossa, scritto su una panchina di Barcellona: “Quando un paese non cammina unito, il primo a risentirne è il teatro.” E prosegue: “È vero, perché il teatro è lo specchio di una società. Se il mostro si guarda allo specchio e si trova brutto, rompe lo specchio. Noi forse apparteniamo a quei resistenti che provano a tenere insieme i pezzi rotti”.
Per quanto riguarda l’influenza della tv sul proprio percorso teatrale, risponde che la sicurezza economica, in un sistema teatrale devastato come il nostro, gli ha permesso di scegliere e fare con attenzione quello che gli piaceva. Inoltre osserva che nel suo caso l’attitudine alla replica si è sposata con quella della serialità: in entrambi i casi il lavoro consiste nel cercare il nuovo ogni giorno.
Alla domanda “Perché senti il bisogno di fare teatro?”, risponde: “Il teatro è il luogo dove il mistero si mostra nel modo più tangibile, dove si creano le condizioni affinché ci sia un continuo ondeggiamento tra profano e sacro. È il luogo in cui si mettono insieme tutti gli elementi e si fa esplodere qualcosa”.
Renato Carpentieri
Ricorda uno spettacolo su Gustavo Modena, scritto con Claudio Meldolesi, che gli cambiò la vita dal punto di vista teatrale. Conteneva la storia del mestiere dell’attore e univa la responsabilità sociale all’approfondimento artistico. Questa esperienza cambiò il suo modo di essere attore e regista. Gustavo Modena diceva: “I teatri sono come le ragazze, se non hanno dote intristiscono”. Ricorda lo stare contemporaneamente da una parte, mantenere l’integrità dell’attore, e raggiungere lo straordinario. Quell’esperienza gli permise di fare cinema.
Oliviero Ponte di Pino: “Colgo dietro le parole di Renato una forte tensione etica, che dà forza al suo lavoro e gli permette di costruire l’integrità tra anima e corpo di cui parlava. Se quella tensione si perde, va tutto a pezzi…”.
Renato Carpentieri
“È così e non posso fare altrimenti.”
Enrico Ianniello ha tradotto e adattato per la scena il testo di Pao Mirò I giocatori. Lo spettacolo, diretto da lui e interpretato da Renato Carpentieri, presenta un linguaggio dove il ritmo è una componente importante: “Ho lavorato sui silenzi del testo. Condensati e svuotati. Tutte le attività che svolgo hanno a che fare con il gioco e con la parola. Il progetto di tradurre lo spettacolo in film nasce dalla volontà di misurarmi con uno strumento sconosciuto e di mostrare agli spettatori il volto di Renato mentre recita. Esiste in lui una vibrazione, spesso legata a un dolore nascosto”.
Renato Carpentieri: “A teatro non si vede ma il pubblico sente.”
Terza sessione
Angelo Curti introduce Armando Punzo, direttore artistico della Compagnia della Fortezza di Volterra, fondata nel 1988, e del festival VolterraTeatro, noti soprattutto per l’attività teatrale svolta con i detenuti nel carcere di Volterra.
Curti ricorda la ricchezza del materiale di documentazione audio e video conservato nell’archivio della compagnia. Armando Punzo fin dall’inizio ha filmato – anche per il suo metodo di lavoro – le prove e i momenti di vita della Compagnia della Fortezza. Curti gli chiede di spiegare perché non abbia mai deciso di rielaborare il materiale per crearne un film, restando un “anti-anfibio”, ossia un artista che respira sempre con i polmoni e mai con le branchie.
Armando Punzo
“Non ho mai pensato di passare al cinema: mi piace pensare cinematograficamente per quanto riguarda il mio lavoro e agire poi come teatrante”. Per quanto riguarda la documentazione, Punzo usa molto la telecamera: si tratta di una pratica di lavoro personale che gli ha fatto raccogliere quasi 1700 ore di filmati. L’obiettivo è esclusivamente quello di appuntarsi tutto ciò che avviene di interessante durante le prove. Tutto il materiale serve come appunti di lavorazione: “L’unica volta che una parte del girato è stata utilizzata in uno spettacolo risale a una decina d’anni fa: dopo una lunga discussione se utilizzarlo o meno, il materiale venne utilizzato in negativo, e inserito in un lavoro della Compagnia della Fortezza dal titolo Appunti per un film: l’obiettivo era far vedere come si sarebbe potuto utilizzare quel materiale sapendo però che la volontà non era quella”.
Si è discusso per mesi se inserire questo frammento o meno proprio per il rapporto che Armando Punzo ha con il cinema: il dubbio ruota sempre intorno al fatto di mettere i detenuti nei loro panni reali, reimmettendoli nella loro realtà. È proprio questa re-immersione nella realtà che lo preoccupa, e che lo mette in stato di turbamento anche quando il mondo del cinema si interessa agli attori della Compagnia della Fortezza, specialmente quando si chiede loro di interpretare al cinema ruoli vicini alle loro biografie, alla loro vita. “Il mio fine è sempre stato quello di aprire il carcere e non di richiudere i detenuti attori nella dimensione reale in cui sono costretti. Bisogna cercare di creare nuove realtà, non duplicare, rappresentare e ri-rappresentare la realtà.”
Stefano Franceschetti
La collaborazione tra Romeo Castellucci, Stefano Franceschetti e Cristiano Carloni iniziò nel 1999 quando lo stesso Castellucci li contattò dopo aver visto il loro primo lavoro, datato 1996 e premiato a Locarno. Propose loro di collaborare con lui realizzando un film su Voyage au bout de la nuit. Correva il 1999, fu l’inizio di una lunga collaborazione.
Franceschetti e Carloni hanno avuto l’incarico di filmare il lungo percorso di Romeo Castellucci che, con La Tragedia Endogonidia, ha toccato 11 città europee, portando avanti, parallelamente allo spettacolo teatrale, la realizzazione di un film e compiendo in tal modo un passaggio che partiva dal teatro e arrivava al video.
In precedenza Castellucci stesso aveva girato del materiale video sul primo episodio della Tragedia; con ogni probabilità la sua intenzione iniziale era quella di provare da solo a girare un film ma successivamente ritenne più opportuno affidare il compito aFranceschetti e Carloni, che iniziarono il loro operato attuando un rimontaggio del primo episodio realizzato dallo stesso regista.
“All’inizio era prevista una ripresa più grezza dei vari episodi che alla fine avrebbero dovuto formare un singolo dvd riassuntivo di tutto il progetto, ma abbiamo ritenuto inopportuno tagliare molto materiale: ci pareva troppo prezioso e impregnato di valore didattico per essere sacrificato. Pensavamo che avrebbe potuto essere d’aiuto per ovviare alla crisi che il teatro sta attraversando e che vede nell’incongruenza di linguaggio la causa della sua progressiva crisi”.
Il risultato è un’opera molto ampia, composta da 11 video, uno per ogni città europea coinvolta nel progetto: “Stavamo circa una settimana in ciascuna città dove veniva creato uno spettacolo e filmavamo da tutti i punti di vista che ci servivano, usando due macchine da presa. Filmavamo anche gli spettacoli con il pubblico da due postazioni fisse. Durante il pomeriggio filmavamo diverse scene chiedendo agli attori di ripeterne talvolta alcune, quindi filmando immagini provocate e ripetute esclusivamente per loro che intanto si muovevano sul palco. Abbiamo girato circa 25 ore per ogni episodio, che alla fine del lavoro in media arrivavano a un’ora di filmato. In fase di pre-montaggio ci limitavamo a contemplare e ricontemplare questo materiale, che poi piano piano naturalmente si dispiegava da sé, suggerendo esso stesso collegamenti, connessioni e legami tra le immagini. Una delle strategie che abbiamo messo in campo sfruttando il linguaggio cinematografico è quella della soggettiva: sono state utilizzate tante false soggettive e falsi controcampi”.
Romeo Castellucci non è mai intervenuto e questa può essere considerata una creazione autonoma sia in fase di riprese, sia in fase di montaggio, sia in fase di fruizione a creazione finita.
Marco Cavalcoli
“Il cinema ha un ruolo centrale in tutta la storia di Fanny & Alexander”: Cavalcoli spiega che la compagnia, fondata a Ravenna nel 1992, il cinema ce l’ha già nel nome, che è il titolo un film di Ingmar Bergman. “E’ un riferimento molto esplicito e anche la spia di un atteggiamento originario della compagnia, che si presentata più come un atelier, o una bottega d’arte, che non come una compagnia teatrale: il teatro è l’elemento centrale che raccordo tutte le suggestioni, che sono molteplici. Nel lavoro di Fanny & Alexander gli elementi che costituiscono la scena, dal sonoro al cinematografico, dall’architettonico al letterario, hanno tutti lo stesso peso e la medesima valenza.”
In Fanny & Alexander tutto il cinema che c’è dietro la costruzione scenica, così come tutti gli altri elementi, ti guarda e ti riguarda: “Il movimento è, in questo senso, biunivoco. Il cinema dentro la scena ti guarda esattamente come ti guarda l’attore”.
Oliviero Ponte di Pino
Presenta la compagnia ricci/forte, sottolineando l’efficacia della comunicazione che realizzata per i loro spettacoli, anche attraverso il video, con i clip promozionali realizzati per gli spettacoli. Chiede a Stefano Ricci che relazione si instaura tra lo spettacolo, la clip e gli spettatori.
ricci/forte GRIMMLESS (Italy 2011) from ricci/forte on Vimeo.
Stefano Ricci
“Va detto innanzitutto che il clip e lo spettacolo vengono considerati due organismi assolutamente differenti: ogni volta che proviamo a restituire uno dei sensi di quello che è il processo teatrale, ci troviamo sempre, con un mezzo differente, a cercare di comprendere quali possano essere i ganci ideali per dare l’ossatura di quello che potrebbe essere il lavoro.” Di fatto il tentativo è proprio quello di restituire attraverso le immagini il potere di quel prodigio che avviene nel momento dell’hic et nunc della performance.
“In questo senso viene quindi costruito qualcosa di profondamente differente dallo spettacolo teatrale: il montaggio che cerca di restituire un alone potenzialmente emotivo, avvalendosi soprattutto delle visioni: in nessun dei nostri video online sono presenti frammenti dell’apparato testuale, proprio per cercare di mantenere i margini, di distinguere i due media. Poiché i media sono differenti, e i due linguaggi si rifanno a poetiche, differenti cerchiamo di parlare attraverso le immagini!”.
Ricollegandosi alle parole precedenti di Armando Punzo sul cinema, Stefano Ricci concorda con Punzo sul fatto che parecchio cinema di questi anni sembra spesso ridursi a sinossi. Nel cinema degli ultimi anni c’è un vizio dettato proprio da un appiattimento sulla storia. Questa tendenza talvolta ha coinvolto anche il teatro… e quindi quando si tenta di creare in teatro una visione diversa, di esplorare una dimensione altra, si fatica, perché, ritiene Ricci, siamo abituati a questo tipo di appiattimento verso il basso… “Ecco, il video deve aprire delle finestre.”
ricci/forte WUNDERKAMMER SOAP the full project (Romaeuropa Festival, Italy 2011) from ricci/forte on Vimeo.
Oliviero Ponte di Pino domanda a Ricci che cosa abbia lasciato loro l’esperienza di sceneggiatori, da cui sono partiti.
Stefano Ricci
“Inizialmente non avevamo fondi a disposizione e facevamo come Robin Hood. Rubavamo dalla tv e dal cinema, ma senza cercare di restituire la storiella televisiva, la fiction. Insomma, il foraggio arrivava da lì, era una scena funzionale e un modo per mettersi alla prova e cercare di padroneggiare una grammatica differente. Io e Gianni Forte abbiamo studiato sceneggiatura negli Stati Uniti e dunque avevamo la capacità di poter lavorare su una idea differente quindi abbiamo abbracciato con curiosità la capacità di esprimerci in modo diverso”.
In questi ultimi anni la coppia Ricci-Forte è stata apprezzata da un pubblico sempre più partecipe, oltre che da operatori del settore: sono state fatte loro diverse proposte cinematografiche, che sono state valutate e conseguentemente declinate, poiché considerate come prototipo del cinema contemporaneo: “Da qualche tempo, tuttavia, stiamo lavorando a un progetto finanziato da produttori illuminati, che ci hanno permesso di perseguire la via della visionarietà che è la strada che stanno cercando di seguire anche nel nostro teatro”.
Laura Sicignano
Inizia il suo intervento partendo dal concetto di divismo, sostenendo che oggi il divismo forse non appartiene più alla nostra categoria teatro: il divismo non è più una competenza, ma la capacità di comunicare in maniera globale la propria immagine.
“La diva oggi è Madonna, la diva oggi è Lady Gaga”, sostiene la Sicignano, quindi forse non è più la competenza di saper fare bene qualcosa ma è la competenza di comunicare molto bene la propria immagine bidimensionale, non tridimensionale ad un pubblico assolutamente globale.
Oliviero Ponte di Pino
Chiede alla regista in che modo il cinema influenzi i suoi lavori teatrali.
Laura Sicignano
“Nella scrittura il cinema mi ha influenzato moltissimo: mi sono accorta di ricorrere molto spesso a soggettive: per esempio lo spettacolo Scintille con Laura Curino è costruito come se il racconto fosse narrato via via da personaggi diversi, che vedono la storia dal proprio punto di vista”. Questa pratica ricorre in parecchi dei suoi lavori.
Ha utilizzato molto anche il primo piano: “Il primo piano è straordinario nel cinema, dà un potere incredibile. In teatro il primo piano è sicuramente lo stare in proscenio”, spiega Laura Sicignano, il cui obiettivo è stato quello di instaurare un rapporto personale e quasi fisico tra attore e spettatore, un rapporto a tu per tu, ravvicinato, che non solo rompa la quarta parete ma coinvolga lo spettatore quasi come un altro attore in scena.
Oliviero Ponte di Pino
Passa a presentare Roberto Gaetano e Bruno Roberti, docenti dell’Università della Calabria e chiede loro di spiegare come l’Università stia cercando di preparare un terreno fertile e di connessione tra gli studi, il cinema e il teatro in una regione come la Calabria, caratterizzata da notevoli difficoltà per quanto riguarda il settore teatrale e cinematografico, definendo questo progetto un passo molto importante.
Roberto Gaetano
Il progetto integra l’attività didattica e formativa tradizionale dell’ateneo con attività laboratoriali e la co-produzione di spettacoli teatrali.
Quale contributo può portare una Università alle Buone Pratiche di Cinema e di Teatro? Spesso si attribuisce al professore un ruolo teorico e didattico e all’artista un ruolo prettamente pratico. Erroneamente non si valuta mai il fatto che tra queste due figure esiste un campo comune che li tiene insieme e consiste in un’attività creativa: creare una teoria ed elaborare concetti è una attività faticosa che, se fatta ad alto livello, è profondamente creativa, come quella di un artista che non può semplicemente fare senza riflettere sul proprio fare. L’apporto che l’università può dare alle Buone Pratiche è esattamente la creazione di questo legame tra pratica e teoria.
L’Università della Calabria lo scorso anno ha dedicato l’intero anno a un omaggio il grande Eduardo nel trentennale della sua scomparsa. Questo omaggio ha comportato il coordinamento con altri atenei del Centro-Sud. Sono stati organizzati cinque convegni in tutta Italia. Parallelamente a tali attività tipiche di un ateneo è stato avviato un laboratorio dedicato all’atto unico scritto da Eduardo De Filippo Dolore sotto chiave, che ha visto l’Università nel ruolo di produttore insieme a Teatri Uniti. Questo momento di riflessione scientifico-culturale formativa per gli studenti, collegata a una pratica laboratoriale sfociata nell’opportunità di produzione di uno spettacolo ha creato un interessante terreno di fermento artistico e creativo. “Quello che di specifico può dare tale tipo di operazione è proprio l’intreccio tra teoria e pratica. L’università deve creare una linea che possa dare in questo senso frutti importanti.”
Bruno Roberti
Aggiunge a quanto appena detto dal collega che tutto ciò è possibile perché in Calabria è stato realizzato un grande campus, su modello americano, a opera dell’architetto Vittorio Gregotti. Al suo interno sono presenti teatri, cinema e spazi artistici che fanno parte di un sistema che permette all’Università di realizzare anche delle residenze, come quella già citata di Francesco Saponaro intorno a Dolore sotto chiave.
Sul teatro auditorium abbiamo fatto una scommessa alta: progettare una vera e propria stagione teatrale che abbia una continua osmosi con gli artisti invitati (di cinema e di teatro), che non vengono invitati solo a mostrare i loro spettacoli ma a collaborare in maniera pratica con l’Ateneo: “Il nostro esempio è volto alla vitalità del Sud affinché questo progetto possa avere nel tempo una sua significanza pratica”.
Sempre dal Sud, Oliviero Ponte di Pino introduce Alessandra Cutolo e la invita a parlare della sua esperienza ne I Liberanti.
Alessandra Cutolo
L’esperienza della Compagnia dei Liberanti si è conclusa e la Compagnia si è sciolta, lasciando però molteplici segni e continuando a vivere nelle varie esperienze che ha prodotto.
La compagnia è stata fondata nel 2001 nella Casa Circondariale di Lauro di Nola, un piccolissimo paese dell’avellinese. Si tratta di un carcere di regime di custodia attenuata, cioè per detenuti che, in quanto tossicodipendenti, hanno la possibilità di uscire tramite misure premiali. Con il tempo la compagnia è riuscita a affermarsi, consentendo ai detenuti di ottenere maggiori permessi.
Liberanti è un nome tecnico che si dà ai detenuti che stanno per uscire. Infatti molti dei bravi attori che la compagnia aveva formato, finivano via via di scontare la loro pena. Una volta usciti dal carcere, molte di loro sono stati vittima di ricadute, con una forte incidenza di morti per overdose.
Questo dato ha fatto sì che si pensasse al teatro non semplicemente come attività trattamentale durante il periodo di reclusione, ma come percorso continuativo di cura delle persone con cui si era iniziata l’attività teatrale. Nel corso degli anni sono stati fronteggiati tantissimi problemi, uno tra i tanti le risse e le evasioni, un problema per il quale il magistrato di sorveglianza ha sospeso l’attività della compagnia.
Molti detenuti hanno invece deciso di continuare il percorso teatrale anche fuori dal carcere: “Per loro stare su un palcoscenico con le luci puntate provocava un’esperienza simile alla scarica di adrenalina che provavano quando commettevano un crimine”.
Una volta sciolta la compagnia, si è pensato a come poter dare continuità al lavoro degli attori. Quando Alessandra Cutolo venne chiamata a fare i casting per Gomorra, attinse dal bacino di attori della ex Compagnia che, sicuramente, sarebbero stati in grado di interpretare una vicenda in molti casi vicina al loro vissuto.
Sulla questione del realismo, Alessandra Cutolo ritiene che l’esperienza del teatro in carcere dovrebbe introdurre la persona a una alterità, quindi il ritorno al realismo potrebbe essere considerato un passo indietro. Tuttavia, continua, “quando ascoltavo Punzo parlare del realismo e dei ruoli, riflettevo proprio sul fatto che quello che diceva è sicuramente condivisibile. Ma pensavo anche che la sensazione di questi attori che riuscivano a arrivare sul tappeto rosso a Venezia e toccavano il cielo con un dito a loro faceva bene“.
Dopo I Liberanti e il passaggio al cinema (Gomorra, Gorbaciof e parti nei film di Abel Ferrara) molti attori hanno intrapreso fortunate carriere: per esempio Gaetano Di Vaio è diventato produttore e ha prodotto il film Take Five, girato con cinque attori con i quale era cresciuto nei Liberanti, dando vita ad una casa di produzione).
“La compagnia è morta ma le cose si sono trasformate: I Liberanti hanno germinato e prodotto altre realtà, cambiando le aspettative di vita quotidiana di molti attori della compagnia.”
Vito Minoia
L’esperienza de I Liberanti è conosciuta e apprezzata nel mondo del teatro sociale. La apprezza anche Vito Minoia, coordinatore nazionale del teatro in carcere. Minoia è consapevole della fragilità che caratterizza le esperienze di teatro in carcere, in particolare al Sud, ma anche della grande energia e della vitalità degli operatori che decidono di intraprendere questa strada.
In Campania nasce nel 2003 l’iniziativa il Carcere Possibile, “progetto” della Camera Penale di Napoli che si poneva come obiettivo quello di garantire le minime risposte utili agli operatori che decidono di lavorare nelle realtà penitenziarie. In questa direzione va il progetto che Minoia presenta in questa sede per la prima volta che è stato promosso dall’associazione Ateatro e da altri due organismi: la rivista Teatri delle Diversità diretta dallo stesso Minoia all’Università di Urbino e il Master di Teatro Sociale e di Comunità all’Università di Torino.
Insieme, già tempo fa, hanno ideato una capillare azione che consiste nella ricognizione attiva del teatro sociale in Italia: questo tipo di ricognizione consiste in una mappatura del settore attraverso un questionario e attraverso varie iniziative territoriali quali forum, piattaforme e incontri internazionali.
Si tratta di un progetto triennale che vede il suo sviluppo su scala nazionale e che prevede varie occasioni di incontro in diverse città. L’ultima è prevista nelle Marche, dove verrà organizzato il convegno internazionale della rivista Teatro delle Diversità.
Il progetto prevede la compilazione di un questionario che vaglia le realtà che si occupano di teatro sociale e di comunità, che viene compilato direttamente sul sito di questo progetto (www.mappateatrosociale.org).
Concludendo, Vito Minoia nota che: “Oggi si è parlato del rapporto tra teatro e cinema e della contaminazione tra linguaggi: il teatro sociale è molto legato al teatro di ricerca, proprio per la sperimentazione continua sul linguaggio resa possibile dal potenziale creativo espresso da un certo tipo di teatro”.
Michela Cescon
Michela Cescon, allieva di Luca Ronconi, dopo una collaborazione decennale con Valter Malosti, è diventa produttrice di una delle operazioni teatrali più costose degli ultimi anni, lo spettacolo La sponda dell’utopia, il testo di Tom Stoppard sulla Rivoluzione Russa. Considerata l’ambizione del progetto, ha deciso di rivolgersi a un regista di cinema come Marco Tullio Giordana: “Ho scelto un regista di cinema perché ritengo che l’amore tra cinema e teatro, che è stato poco corrisposto negli ultimi vent’anni, stia cominciando a riprendere forza. E’ un amore fondamentale: gli anni in cui è stato dimenticato hanno creato grosse fratture e pochi risultati. E’ un distacco iniziato negli anni Settanta. Sono una teatrante e non voglio dare la colpa al cinema, do la responsabilità in primo luogo al teatro. In quel periodo il teatro ha fatto un percorso diverso, seppur da me gradito: è andato verso la ricerca, diventando un teatro meno attoriale e più registico dove le figure centrali erano più autonome e intraprendevano percorsi più personali”.
Per Michela Cescon è stato proprio questo il momento in cui cinema e teatro si sono separati, perché forse il teatro ha intrapreso un percorso che ha finito per chiuderlo su se stesso, magari raggiungendo nella ricerca vette molto importanti.
Negli ultimi anni cinema e teatro hanno ripreso a cercarsi e ad annusarsi: vengono richiesti sempre di più attori di teatro al cinema e viceversa, l’interazione oggi è maggiore: “Io credo profondamente che cinema e teatro debbano andare insieme, e per tale ragione che per i miei progetti personali ho scelto di rimescolare le carte: The Coast of Utopia è un testo di Tom Stoppard, grande drammaturgo americano, nonché sceneggiatore cinematografico, quindi una persona che fa cinema”. Ritiene che a un attore faccia bene fare sia cinema sia teatro in quanto. “Per quanto riguarda la mia esperienza, il cinema mi ha regalato la possibilità di poter tornare in teatro con una naturalezza maggiore, dandole modo di distaccarsi da una provenienza artistica impegnativa, come quella con Ronconi. In questo senso il cinema mi ha aiutato a cercare altre vie personali”.
La serie di France Culture “Quand le théâtre crève l’écran” (in francese)
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