Il mio Pasolini
Una conversazione con Luca Ronconi
Questa conversazione con Luca Ronconi è stata pubblicata nel dossier Pier Paolo Pasolini, “Hystrio”, n. 3, 2005.
Luca Ronconi ha ormai una teatrografia vastissima, con decine e decine di testi allestiti nel corso di un quarantennio. A Pier Paolo Pasolini è tornato in diverse occasioni, a cominciare dalla metà degli anni Settanta, quando portò in scena al Laboratorio di Prato il Calderón.
Calderón faceva parte di una trilogia che partiva dalla Vita è sogno.
Curiosamente si dice che Pasolini abbia deciso di scrivere Calderón dopo aver visto Il principe Costante di Grotowski, un’altra variazione sul tema della Vita è sogno…
Poi, all’inizio degli anni Novanta, ho messo in scena a Torino tre testi – Affabulazione, di nuovo Calderón e Pilade – proprio perché erano passati quasi vent’anni. Nel ’75 avevo lavorato su tre testi in cui la rivolta era al centro, in vari modi – nel testo di Pasolini si parla del ’68, nella Vita è sogno la rivolta diventa un problema metafisico, e La Torre di Hoffmansthal è a metà tra questi due aspetti. Nel ’90 gli spiriti rivoluzionari si erano abbastanza assopiti, anche nei giovani: così ho voluto lavorare su quei testi per vedere se e come l’eco di situazioni storiche e di temperature non conosciute direttamente potesse essere recuperata attraverso la mediazione teatrale. Devo dire che la risposta è stata positiva, perché i ragazzi si sono veramente appassionati.
Tra le numerose regie che hai firmato, gli autori italiani contemporanei sono molto rari. Proprio per questo la tua attenzione per Pasolini è ancora più significativa.
Contemporaneo non è solamente chi scrive in un determinato periodo, ma chi appartiene alla cultura di quel determinato periodo, in quel determinato paese. Un drammaturgo italiano degli anni Trenta che copia le commedie del boulevard francese non è un drammaturgo italiano, ma un imitatore di cose che hanno una loro contemporaneità nel loro luogo d’origine. Quindi non tutti quelli che scrivono teatro oggi in Italia sono autori italiani contemporanei. Il che non vuol dire che non ce ne siano, anzi. L’altro problema è che la maggior parte degli autori italiani contemporanei sono anche attori: si scrivono i loro testi, e spesso sono interessantissimi.
Autori-attori come Eduardo e Fo, che non a caso Pasolini cita nel suo Manifesto per un nuovo teatro.
Ma penso anche a Fausto Paravidino, a Davide Enia, a Scipione e Sframeli: non sto parlando di esperienze minori, ma di cose importanti. Non è un problema generazionale, è un fatto permanente del teatro italiano. Ma fino al momento in cui quei testi non diventano classici, l’attore che li ha scritti per sé ha un’ipoteca molto forte sulla propria opera. Questo nel caso di Pasolini non avviene. Inoltre Pasolini appartiene contemporaneamente al teatro e alla letteratura, e anche questo è un vantaggio: perché è un letterato che in quanto tale condivide il disprezzo dei letterati per il teatro così com’è. Poi, in quanto uomo di teatro scrive testi estremamente importanti, materiali che però hanno la necessità di una mediazione. Anche se come ho detto i motivi per cui di volta in volta l’ho portato in scena sono stati diversi, più specifici, contingenti, oggi, a posteriori, dopo aver fatto quasi tutto Pasolini, e più volte, posso dire che questi sono i motivi per cui l’ho portato in scena.
Anche Giovanni Raboni, un paio d’anni fa, notava che i testi teatrali più interessanti, in questi anni, li hanno scritti dei letterati, non dei drammaturghi professionisti. Anche perché sono più liberi rispetto alle forme e alle convenzioni del teatro. Citava, per esempio, Giovanni Testori e Mario Luzi.
Rosales di Luzi è un testo che mi interessa. Testori, ho pensato di metterlo in scena un paio di volte, La monaca di Monza l’avrei messa in scena volentieri.
Anche perché è un testo che ha bisogno di una forte mediazione registica…
Ai miei esordi avrei dovuto fare la regia della prima edizione: eravamo un gruppo di attori, i più giovani eravamo Sergio Fantoni, Valentina Fortunato e io. Poi c’era Lilla Brignone, che però aveva la volontà – comprensibile – e l’impegno di farla con Visconti… Anche se alla fine non fu un grande risultato. Molti dei testi successivi di Testori sono invece dei monologhi, e io non amo i monologhi.
Però in reatà nel teatro di Pasolini i monologhi hanno un ruolo fondamentale, sono quasi la struttura portante del suo teatro…
Ma lo sono anche nel teatro di Shakespeare! Però il teatro di Pasolini è molto spesso autobiografico… Nella sua opera l’io monologante spesso si sdoppia, si triplica, eccetera. Per esempio, già nella prima commedia che ha scritto, Storia interiore, ma anche in Petrolio. Anche Pilade e Oreste sono due facce della stessa persona: dicono dei monologhi, ma c’è sempre una dialettica e un conflitto tra i due aspetti della stessa personalità. Questo dà spessore e interesse – oltre che ambiguità – ai testi pasoliniani. Anche nel Calderón, non sai mai in quante figure si proietti l’autore.
Ci sono due mondi in cui può essere declinato il rapporto con la biografia. C’è quello che hai indicato tu. Ma è anche possibile ricondurre l’opera al vissuto dell’autore, alle sue esperienze e vicissitudini. E intorno alla biografia di Pasolini è sorta una vera e propria mitologia.
Gli aspetti della vita privata di Pasolini appartengono a lui. Non lo dico per delicatezza o per rispetto, ma è sbagliato elevarli a criterio interpretativo. Un’esperienza anche eccessiva è per chi la vive un’esperienza assolutamente normale, naturale. Usare la biografia come criterio interpretativo mi sembra un atteggiamento molto grossolano, sarebbe come leggere La ricerca del tempo perduto per fare la psicoanalisi di Proust. Ma figuriamoci, a chi può interessare?
Un altro dei motivi d’interesse del teatro di Pasolini riguarda la lingua.
Quell’impasto di passionalità e di retorica che c’è nella sua scrittura teatrale, e che ha dato tanto fastidio ai suoi colleghi letterati, è un ottimo materiale per essere messo in voce, per essere somatizzato.
Pasolini scrive le sue tragedie in un arco di tempo molto ristretto e in una fase molto precisa della storia del teatro italiano. Sono anche gli anni dei tuoi primi grandi spettacoli. La scrittura di Pasolini e tue regie sono due risposte a quella crisi…
In quel momento, per pochissimi anni, il teatro è stato un veicolo interpretativo estremamente forte.
Dopo un periodo di crisi e di apparente isterilimento, è come se si fosse aperta una diga. E come sempre, quando si aprono le dighe, vengono distrutte le catapecchie ma anche delle cose pregevoli: aver buttato via tutto non è stata una cosa proficua. Nel caso di Pasolini, l’interesse per il teatro è venuto anche perché in quegli anni, fra il ’65 e il ’70, ci furono delle vere esplosioni.
Sono gli anni in cui arrivano in Italia il Living Theatre e il Teatr Laboratorium di Grotowski, e con Carmelo Bene nasce l’avanguardia teatrale italiana… A questa situazione, Pasolini dà una serie di riposte: quello che scrive sul teatro in ambito giornalistico, naturalmente le sue tragedie, e poi il Manifesto per un nuovo teatro, e la regia di Orgia allo Stabile di Torino. Sono risposte molto articolate…
Più che articolate, contraddittorie. Le tragedie sono importanti, e restano. Il Manifesto, riletto con il senno di poi – ma forse anche prevedendolo con il senno di allora – è velleitario. Quella che lui ritiene essere la vera funzione del teatro, non può essere quella che indica lui…
Nel Manifesto Pasolini contrappone il suo teatro di parola da un lato al teatro borghese della chiacchiera, e dall’altro al “teatro dell’urlo”, cioè del gesto e del corpo, delle varie avanguardie. Insomma, per il recupero di una funzione civile, politica del teatro.
Ma su questo siamo tutti d’accordo. Il problema è che pensava che parola e teatralità siano due termini antitetici. Non lo sono. Sono complementari. Questa è l’impasse di quel Manifesto. Tanto è vero che quando ha voluto dare con la messinscena di Orgia un’esemplificazione di quel tipo di teatro, è stato un vero disastro. Non solo un disastro rispetto al pubblico, anche se comprensibilmente quelle élite operaie che lui sperava assistessero allo spettacolo se ne fregavano. Ma è stato un esperimento snobistico, e recepito come tale, senza nessun tipo di comunicazione, uno spettacolo totalmente inerte. Pensare che la sillabazione di un testo – eliminando quella che è la mediazione dell’attore – possa essere sufficiente, pensare che possa esserci una comunicazione diretta dal palcoscenico alla platea, è assurdo. La comunicazione è sempre trasversale, obliqua. Altrimenti ricadi in un didascalismo piattissimo. Certo, lo si può fare, ma non con i testi di Pasolini, che sono pieni di ambiguità e di reticenze.
Anche se per altri aspetti la sua è una scrittura profondamente esibizionistica…
…e allo stesso tempo reticente. E’ il fascino dei suoi testi. E’ impossibile leggerli piattamente. Perché proprio il carattere nascosto, non voluto, di un testo, quello che sfugge all’autore perché grazie a dio è un grande autore, è quella la matrice che genera la rappresentazione.
Dopo la regia di Orgia, Pasolini si disamora del teatro. Anche se a muovere sia te sia lui era forse una consapevolezza comune: che l’ipotesi nazional-popolare, quella da cui erano nati i teatri stabili, non funzionava più, o almeno non poteva più funzionare allo stesso modo.
In forme diverse, ci siamo abbastanza ritrovati, ma è anche vero che Pasolini rifiutava tutto quello che c’era.
Aveva e voleva avere una funzione provocatoria e pedagica nei confronti del sistema culturale – e dunque anche teatrale – di quegli anni.
Il problema è che il teatro non lo conosceva, non ci andava. Se invece di pensare al teatro come a un rito borghese, con l’odio che aveva per la borghesia, l’avesse pensato come a un rito aristocratico, come di fatto era, lo avrebbe odiato di meno.
Oliviero_Ponte_di_Pino
2005-07-19T00:00:00
Tag: Luca Ronconi (73), Pier Paolo Pasolini (22)
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