#CaseMatte a Palermo: l’ultima tappa nel tour di Teatro Periferico degli ex Ospedali Psichiatrici

Dal 24 al 30 ottobre 2016 all'ex OP Pietro Pisani, al Piccolo Teatro Patafisico e al Teatro Mediterraneo Occupato

Pubblicato il 08/11/2016 / di / ateatro n. 159

Palermo è l’ultima tappa del tour di Case Matte, il viaggio all’interno degli ex manicomi italiani realizzato lo scorso anno da Teatro Periferico in otto ex ospedali psichiatrici. L’idea di portare il progetto in Sicilia nasce dalla presenza alla replica romana, presso l’ex manicomio di Santa Maria della Pietà, di due persone legate all’ex manicomio siciliano: Sebastiano Catalano, funzionario della ASP palermitana ora in pensione, e Roberta Zottino, funzionaria dei beni culturali della Regione Sicilia, nonché clown e operatrice volontaria di teatro terapia presso l’associazione Vip Palermo da lei fondata.
Due le realtà dell’ex manicomio coinvolte: la Compagnia Instabile e il Piccolo Teatro Patafisico. La prima è diretta da due associazioni di volontariato: Viviamo in positivo (Vip Palermo) e Mente Libera. Viviamo in positivo (Vip Palermo) organizza un corso di teatro terapia con pazienti psichiatrici provenienti dal Dipartimento di Salute Mentale e una sartoria nella quale gli stessi pazienti inventano e realizzano costumi e scenografie, coloratissimi, dadaisti, vicini alle creazioni di Schlemmer (Roberta Zottino è anche architetto). L’Associazione Mente Libera, presieduta da Sebastiano Catalano, negli anni ha curato un museo di archeologia manicomiale nel padiglione più antico, la Vignicella, e ha portato all’attenzione del pubblico i graffiti incisi sui muri dai pazienti. Il Piccolo Teatro Patafisico, guidato da Laura Scavuzzo e Rossellla Pizzuto, organizza una vivace stagione teatrale in una piccola sala collocata all’incrocio dei lunghi corridoi manicomiali. Poiché gli eventi nell’ex manicomio possono svolgersi solamente durante la settimana, coinvolgiamo anche il Teatro Mediterraneo Occupato, che può ospitare le iniziative durante il weekend. Il Teatro Mediterraneo è una realtà significativa nel panorama culturale palermitano; al suo interno ci sono un bel teatro e una grande sala espositiva e i giovani artisti che lo gestiscono sono interessati a riproporre uno spettacolo sul tema del manicomio, prodotto qualche anno prima e rivisto per l’occasione. Fondamentale per la buona riuscita dell’iniziativa è l’instancabile Vincenza Di Vita, che cura per tutta la settimana i rapporti con la stampa e le istituzioni.
A Palermo incontriamo il teatro fatto da pazienti. Qualcosa di simile era già accaduto nella tappa emiliana, ma si trattava solo del video di uno spettacolo. Qui invece abbiamo l’opportunità di vedere uno spettacolo dal vivo, fatto da quaranta pazienti, con una decina di operatori volontari. I discorsi dell’anima diretto da Roberta Zottino, in stretta collaborazione con Anna Maria Parissi, psichiatra e responsabile della CTA mod. 5 dell’ASP 6, e Salvatore Varia, direttore del mod. 5.
L’impressione immediata è di potenza. Potenza dettata innanzitutto dai numeri, come nei lavori della Compagnia della Fortezza di Volterra. Gli spettacoli di questo genere (intendo di teatro sociale, anche se le definizioni sono ahimè riduttive) sono spesso caratterizzati dalla presenza di un alto numero di attori, siano essi carcerati, pazienti psichiatrici o immigrati, dato che sono quasi sempre l’esito finale di un laboratorio largamente partecipato. Ma in questo caso c’è qualcosa di più.

I discorsi dell'anima (foto Elisa Canfora)

I discorsi dell’anima (foto Elisa Canfora)

La potenza dei Discorsi dell’anima è amplificata dal luogo. La Vignicella ha una struttura particolarmente adatta a una rappresentazione con parecchi attori. Un grandissimo porticato rialzato, con alti cancelli, fa da palcoscenico naturale. Dietro a quei cancelli gli attori danzano, si muovono come marionette e, in una scena particolarmente efficace, improvvisano un ritmo battendo i cucchiai sulle inferriate. Sulle due scale salgono e scendono ininterrottamente due personaggi, lo Psichiatra e la Follia. Un largo cortile, con al centro un tavolino, al quale siedono i pazienti che hanno maggiori difficoltà di movimento ma migliore potenzialità verbale: un perno intorno a cui si muove tutto il meccanismo. Ai lati due lunghe panchine di cemento come due ali: lì stanno altri attori. Una sassofonista di spalle, in alto, su un basamento di cemento, e un fisarmonicista in basso, accompagnano l’intera performance.

Roberta Zottino (foto Giulio Nangano Cappello)

Roberta Zottino (foto Giulio Nangano Cappello)

“I pensieri brutti sono come uccelli, li devi scacciare altrimenti fanno il nido nella testa”: con queste parole l’Artista apre lo spettacolo, fatto di grandi scene corali e piccoli monologhi intimi. Guarda che luna di Fred Buscaglione, cantata di spalle da Mister Lui, giovane paziente dagli occhi azzurri e sguardo d’angelo, pudica e delicatissima ti entra come un coltello nell’anima. Quattro personaggi beckettiani continuano a girare in tondo nel cortile: in pigiama, scarpe da tennis e cilindro in testa, i primi due sorridono sornioni con gli occhi semichiusi (uno dei due, in verità, perché il secondo è sordomuto e ipovedente), mentre continuano a sventolare un foulard dai mille colori in segno di libertà; gli altri due, un’operatrice e una paziente, la signora Maria, sembrano pregare. La signora Provvidenza, che resta sempre seduta, parla a bassissima voce tanto che l’operatrice si rivolge al pubblico ripetendo le sue frasi (“Lei dice che…”). Le viene donato il mazzo di fiori degli sposi, interpretati da Cacao e Marcolino. La signora Rita avanza con un bambolotto nelle braccia: canta una ninna nanna a cui tutti si uniscono. E ancora Volare di Domenico Modugno, cantata a squarciagola da Salvo Giuboxis (quante volte sarà stata cantata questa canzone nei manicomi?). E le lettere degli internati, lette da Giuseppe, e i deliri strabilianti sulla paura, letti da SuperMario, con enormi occhiali. Infine l’urlo di Frank: “I am not crazy, I am normless!”. Immagini forti e struggenti, con attori speciali che non si ripetono mai uguali. “Ogni spettacolo cambia”, ci dice Roberta, perché difficilmente i pazienti sanno essere fedeli a una partitura. Così il miracolo del qui e ora in loro si compie naturalmente.
È come lo schizzo di cui parla Gino Sandri, pittore morto nell’ex manicomio di Mombello:

L’abbozzo spesso contiene nella sua impetuosità una germinazione che nella sua inconsistenza allude a cose alte che si smarriscono nella resa. Nel rendere, nel concretare, spesso pare che tante sensibilità sfuggano, tanto che l’arte sarebbe il ritorno al primo schizzo per la creazione o alla prima impressione…

I personaggi sono schizzi. Gli attori schizzati. In tutti i sensi. Non ci sono comparse, tutti sono attivi. A ognuno è chiesto di misurarsi ogni volta con una nuova sfida, di fare qualcosa in più, di superare il limite.
Così persone che difficilmente hanno voglia di camminare vengono invogliate a muoversi, persone che non parlano spronate a recitare. I testi sono quasi tutti scritti dai pazienti. Emergono nella fase laboratoriale, poi vengono inseriti nello spettacolo. Ricordano i testi usati da Danio Manfredini nei suoi lavori. Meravigliosamente assurdi nella loro stramberia. Roberta e i suoi collaboratori fanno bellezza di quel che si affolla nelle teste di questi “artisti invisibili”. Quante volte ho sentito dire nei convegni che sarebbe meglio non far lavorare le persone che vivono uno stato di disagio sulla loro condizione, e che sarebbe preferibile per loro dimenticare, anche solo per qualche ora (come se questo fosse possibile!). Che potrebbe esserci il rischio di sfruttare le loro peculiarità e di disattendere l’obbiettivo principale, cioè la cura e il benessere del paziente (anche se questo purtroppo alcune volte accade). Ma nel lavoro che vediamo non c’è né la scelta di operare una rimozione, né lo sfruttamento cinico di una condizione sofferta. I pazienti ci sono, con il loro passato e il loro presente, e sono tremendamente bravi. Quello che fanno loro, noi non sapremmo farlo. E poi, nonostante il tema dello spettacolo sia la paura, il pubblico esce con una sensazione di allegria. Sotto la superficie si muove lo spirito triste ma lieve del clown.
Alla Vignicella viene proiettato anche il video di Bebo Cammarata, Sogni in valigia, nel quale compare Rosellina che canta La vie en rose. Poetessa, è morta nell’estate di due anni fa. Faceva parte della Comunità Lares, come gli altri pazienti. È anche possibile visitare una mostra di fotografie di straordinaria bellezza, Gli sguardi della mente, realizzata sempre da Bebo Cammarata, che raccoglie gli sguardi dei pazienti intenti nelle prove dei Discorsi dell’anima.
Ci sono poi Le stanze ferite, nelle quali Sebastiano Catalano ricostruisce la vita dell’ex manicomio e dove vengono esposti macchinari, letti di ferro, vestiti a scacchi rossi e grigi, le immaginette della Madonna appese accanto ai letti, sedie, cartelle, vecchie fotografie di pazienti, guanti di tela per immobilizzare le mani e altri “strumenti di lavoro” usati per la contenzione psichiatrica. Accanto alle stanze, all’entrata, vediamo tre latrine originarie, senza alcun muro divisorio: l’ennesima dimostrazione dell’assenza totale di intimità che c’era nei manicomi. Ancora alla Vignicella vengono esposti i dipinti su stoffa realizzati da Mario di Miceli, artista di outsider art. Per tre mattine di seguito tutte le mostre vengono visitate da oltre cento studenti delle scuole superiori, che incontrano e conversano con i pazienti della comunità.
Le istituzioni sono assenti. Non vediamo nessuno della ASP, ma alla conferenza stampa di apertura partecipa l’Assessore alla Cultura del Comune di Palermo, Andrea Cusumano. Il sindaco Leoluca Orlando manda ai pazienti le sue scuse per non aver potuto presenziare allo spettacolo e fa loro i complimenti.

Gli sguardi della mente: la Signora Provvidenza (foto Bebo Cammarata)

Gli sguardi della mente: la Signora Provvidenza (foto Bebo Cammarata)

Il giorno successivo ci spostiamo al Piccolo Teatro Patafisico. L’apertura è affidata al professor Nunziante Rosania, che racconta la sua esperienza come direttore dell’OPG di Pozzo di Gotto, attualmente chiuso. L’ospedale psichiatrico giudiziario si basa su due elementi contrapposti: il carcere e l’ospedale, la detenzione e la cura. I malati possono restare internati anche tutta la vita, perché mentre per gli altri detenuti si prevede un inizio e una fine, dato che la pena è commisurata al reato, per i detenuti psichiatrici la durata della detenzione dipende dalla valutazione del magistrato e dell’équipe medica e dalle possibilità effettive di trovare un luogo che accolga il paziente fuori dal manicomio.
Al Piccolo Teatro Patafisico vengono rappresentati gli spettacoli di Chille de la Balanza, la compagnia che ci ha accompagnato lo scorso anno nel tour di Case Matte.
Il primo spettacolo, C’era una volta il manicomio, è una passeggiata il cui scopo è quello di recuperare la memoria viva di quella che fu la rivoluzione di Franco Basaglia e della sua équipe che portò alla chiusura definitiva dei manicomi. La passeggiata viene rimodulata sulla storia dell’ex Ospedale Psichiatrico Pisani. Claudio Ascoli recupera le informazioni necessarie dalle testimonianze di Sebastiano Catalano e di Sergio Ficarra, psichiatra. Nella tarda serata assistiamo al secondo spettacolo della compagnia: in Siete venuti a trovarmi? Matteo Pecorini dà corpo al diario di un paziente sansalvino, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, ritrovato di recente. Uno spettacolo senza luci di scena, senza scenografie, giocato tra il pubblico, con grande leggerezza. Una storia semplice, amara e divertente allo stesso tempo.
Sempre al Piccolo Teatro Patafisico viene proiettato il cortometraggio Etta d’Ignoti di Laura Giordani e Barbara Fasano, due autrici catanesi che, venute a conoscenza del progetto di Case Matte, ci hanno chiesto di partecipare. Narra la storia di Etta, internata all’età di 17 anni perché innamorata di un ragazzo che i familiari non ritenevano all’altezza del suo ceto. Alla proiezione sono presenti alcuni adolescenti con i quali si avvia un confronto. Fanno paura quelle immagini? Che tipo di interesse suscitano? Vengono percepite come finte (perché in realtà quello che si vede è realmente accaduto, benché il cortometraggio non abbia l’aspetto di un documentario)? Che effetto fa oggi pensare che un bacio sia sufficiente per essere internate a vita?
E poi Sette contro Tebe della compagnia I Clandestini, frutto di un laboratorio di arte terapia condotto all’interno delle attività riabilitative del Centro Diurno Casa del Sole del Dipartimento di Salute Mentale; e Il posto delle fiabe, con alcuni bambini e adolescenti del Centro Educativo di Logopedia Psicomotricità e Psicologia.
Infine viene presentato un nuovo studio della compagnia del Piccolo Teatro Patafisico, Io abbracciato a Strehler che è una bellissima donna. Ombre, doppio femminile, mostri dell’inconscio, rimozioni. Nella sala appaiono per qualche istante, come flash di un sogno a occhi aperti una donna che perde capelli, uno scarafaggio kafkiano e due donne, una il riflesso dell’altra, intente a bere un tè, la prima seduta su una sedia in modo normale e la seconda seduta sulla sedia con schiena a terra. Un lavoro ancora in-fieri, con connotazioni surreali.
L’indomani, 28 ottobre, il corridoio al quale i tecnici lavorano da giorni (con parecchi problemi tra cui quello rappresentato da tre cani randagi che non ne vogliono sapere di andarsene) è finalmente pronto. Lo spettacolo viene introdotto da un incontro con Giacomo Doni, il fotografo che abbiamo incontrato a Volterra nel 2015. Giacomo proietta svariate foto dell’ex manicomio di Mombello, scattate da Vittorio Aragozzini nella prima metà del Novecento. Ordine, perfezione, pulizia, scene costruite, pazienti in posa. Un raro esempio di iconografia fascista. L’occasione serve anche per presentare l’ultimo studio di Doni. Negli anni Sessanta e Settanta, nel manicomio di Cogoleto, diversi pazienti, con l’aiuto degli infermieri, intrapresero la costruzione di un presepe in stile napoletano, che non illustrava la vita della città – sconosciuta ai pazienti – ma quella interna del manicomio. Il presepe, rimasto incompiuto, conta numerose statuette abbandonate per anni nei sotterranei del manicomio che ora si vorrebbe restaurare, trovando i fondi necessari.
Di Mombello si parla anche con Dario Piombino-Mascali, antropologo, in un incontro sulle mummie del manicomio. Nel primo ventennio del Novecento Giuseppe Paravicini, direttore dell’istituto di Anatomia Patologica dell’ex manicomio di Mombello, aveva mummificato parecchi pazienti. Al pubblico vengono spiegate le tecniche di imbalsamazione e mostrate le foto delle mummie, particolarmente drammatiche: “Ma non sono mummie come le altre”, avverte Piombino-Mascali, “io stesso ho fatto molta fatica ad accostarmici, perché in qualche modo rivelano una diversa fragilità”.
Affrontiamo la replica dello spettacolo Mombello. Voci da dentro il manicomio con la paura dei cani randagi che circondano il corridoio, con le immagini di Mombello in epoca fascista nella mente e il ricordo delle mummie. E’ un’atmosfera quasi infernale. Si leva un vento fortissimo. C’è buio pesto, quel buio che temevo di non riuscire a ricreare all’aperto.

Mombello: voci da dentro il manicomio (foto Gandolfo Schimmenti)

Mombello: voci da dentro il manicomio (foto Gandolfo Schimmenti)

Ma il pubblico è caldo. Sono presenti un paziente, qualche psichiatra, diversi operatori, tre dipendenti della ASP che ci hanno visto lavorare i giorni precedenti, molta gente comune, anche un bambino, al quale mi premuro di svelare tutti i trucchi affinché sappia che quello che vedrà è finto. Il corridoio è affollato di gente. Nessun posto libero. Mi viene quasi da scusarmi. Qui lavorano sul superamento del manicomio e noi torniamo a proporre la visione di tanta sofferenza… Eppure il pubblico ascolta con grande attenzione. Non percepisco disagio. Il giorno dopo un paziente ci regalerà addirittura uno strepitoso disegno che spiega la sua interpretazione dello spettacolo. È come se sapessero che la paura, di cui si è parlato i giorni precedenti, può essere ora tenuta lontana. L’attore contenuto al letto è simbolo di una crocifissione che non deve essere più.

Cesare Inzerillo, Atto-di-dolore (foto Elisa Canfora)

Cesare Inzerillo, Atto-di-dolore (foto Elisa Canfora)

Il giorno dopo ci spostiamo al Teatro Mediterraneo Occupato. Ci accoglie all’entrata una grande scultura di Cesare Inzerillo: un uomo senza testa, le mani che stringono un crocifisso, le gambe piegate e le caviglie legate. Titolo: Atto di dolore.
In prima serata, nella bella sala del TMO, viene presentato lo spettacolo di Gigi Gherzi, Atlante della città fragile. All’interno di un quadrato di sedie bianche, Gigi racconta di un ragazzo della periferia milanese, della sua amica cozza che lo segue ovunque e degli amici sfigati della panchina. Di una giovane pubblicitaria circondata da colleghe iene. Di una madre ricoverata che non vuole che le si taglino le unghie. Storie forti che indicano però vie d’uscita, superamenti, modi di venirne fuori, affidati a una scrittura leggera ma densa.
Subito dopo, Oh tu che mi suicidi, una produzione della compagnia delleAli. Lello Cassinotti, con le parole di Artaud, ci racconta la follia di Van Gogh. Lo spettacolo, dove abitualmente c’è anche un musicista, in questa occasione è affidato unicamente all’attore. Nei guizzi e negli sprofondamenti della voce, nelle cantilene, negli scherzi sonori, ci sono grande virtuosismo e capacità di evocazione.

Teatro Mediterraneo Occupato, nemos (foto Elisa-Canfora)

Teatro Mediterraneo Occupato, Nemos (foto Elisa-Canfora)

La giornata successiva si apre con 87 ore di Costanza Quatriglio. Il film è fortissimo. Nel 2009 Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare di Castelnuovo Cilento, in seguito ad un TSO viene ricoverato in un reparto psichiatrico di un ospedale e lì muore dopo ottantasette ore di contenzione fisica, legato mani e piedi al letto. Forse perché irrequieto. Forse per la comodità di medici e infermieri. Il film inizia con le testimonianze delle persone che assistono al suo sequestro: “Era tranquillo”, continuano a ripetere, “era tranquillo”. Ai familiari non viene permesso di vederlo, non vengono fornite spiegazioni circa il suo stato di salute né vengono chiariti i motivi del ricovero. La regista utilizza le riprese fatte dalla telecamera di sorveglianza, senza commenti se non quelli, rari, dei familiari. Un susseguirsi di azioni asciutte, asettiche, senza musiche di sottofondo che inducano alla commozione. Un film che può sembrare freddo, ma spacca il cuore nostro e del pubblico.
Lo spettacolo che chiude Case Matte a Palermo è Animaluci della compagnia Officina Tea(L)tro, prodotto dal TMO. Due interpreti giovanissimi, un ragazzo e una ragazza di quattordici e sedici anni. Una scena bianca, forse un manicomio, due ragazzi vestiti di bianco, farina bianca che vola, una porta bianca da cui scappare per provare a farcela insieme.

Dintra i spaventi c’addumanu l’anima esisti na luci nica comu una lacrima, comu una goccia i latti, comu una muddica i pani, c’è un pizzuddu i speranza, chista è a luci di l’anima… Animaluci.

Una minuscola Trilli nelle mani di un improbabile Peter Pan e della sua Wendy. I due giovani attori, molto generosi, ben diretti da Francesco Romanengo, riescono a mantenere alta l’attenzione del pubblico per quasi un’ora di spettacolo recitato nel siciliano stretto di Scaldati.
Sembra tutto finito, ma il giorno della partenza ci rechiamo per un ultimo saluto alla Guadagna, dove si tiene il laboratorio teatrale con i pazienti del gruppo Vip Palermo e Mente Libera, che cominciano proprio quel giorno a preparare il nuovo spettacolo. Roberta arriva con l’idea iniziale: un rigattiere che accumula nella sua bottega oggetti rotti che intende aggiustare. Tutti contribuiscono ad arricchire la proposta con le loro riflessioni.

Roberta: Guardate, il tempo nella bottega scorre lento.
Paziente: Allora l’uomo è infelice!
Roberta: Perché?
Paziente: Picchè quando stai giù di morale il tempo non passa mai.

Partiamo la sera stessa. Case Matte si ferma qui. Per ora!

Palermo, 31 ottobre 2016.

Chilometri totali percorsi: 3.910.
Pubblico coinvolto: 2.560 persone.




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