Salvare voci. Rima Pipoyan, Filippo Ceredi e Pietro Piva a Opera Prima

Rinasce a Rovigo il festival dedicato alla ricerca

Pubblicato il 30/09/2018 / di / ateatro n. 165

È arduo riavviare un’esperienza teatrale dopo nove anni di interruzione, e in particolare ridare vita a un festival dedicato alle nuove realtà della scena italiana. Ma a Rovigo Massimo Munaro e il Teatro del Lemming sono riusciti a realizzare l’impresa, facendo rinascere lo storico Festival Opera Prima con una XIV edizione ricca di proposte e idee aperte al futuro. Ritrovata la fiducia dell’amministrazione comunale e ottenuto il riconoscimento ministeriale, gli organizzatori sono ripartiti dal punto in cui si erano fermati nel 2009: l’esplorazione delle realtà emergenti nelle arti sceniche, ma con una impostazione strutturale e metodologica nuova. Se originariamente ha fatto conoscere la generazione di gruppi teatrali che andavano affacciandosi sui palcoscenici italiani nei primi anni Novanta, ora la manifestazione si pone un obiettivo più ambizioso, accanto a un sondaggio nel presente della ricerca, non solo italiana: creare un ponte tra le generazioni, aprire dialoghi e confronti, promuovere passaggi di testimone. Alcune figure storiche della nuova scena sono state perciò invitate a segnalare un giovane artista, in una sorta di tutoraggio che ne garantisse la qualità nell’innovazione. Così Lenz Fondazione ha segnalato l’inglese Tim Spooner, l’Accademia degli Artefatti ha indicato Filippo Michelangelo Ceredi e Roberto Latini ha sostenuto Pietro Piva. Gli altri spettacoli della rassegna sono stati selezionati attraverso un bando pubblico rivolto ai giovani gruppi o singoli artisti italiani ed europei dediti alla sperimentazione dei linguaggi scenici e alla ricerca teatrale. Puntuale e impegnativa la definizione del campo d’indagine: «Per ricerca teatrale intendiamo la proposta di un lavoro in grado di realizzare una reale sperimentazione sulla drammaturgia (intesa come scrittura scenica), sull’attore, sullo spettatore e sullo spazio teatrale. In altre parole quel teatro che persegue, in particolare: l’autonomia del linguaggio scenico dal testo teatrale; la ridefinizione dello spazio scenico; la riformulazione della presenza e dello sguardo dello spettatore; una pedagogia originale sull’attore; un legame che unisce gli attori al progetto del gruppo».

Tra gli ospiti internazionali Rima Pipoyan, che ha presentato in prima nazionale Ehi, Kitty! La performance riflette nelle azioni sceniche della giovane danzatrice e nelle immagini che scorrono sullo schermo le inquietudini sognanti, sbarazzine e presaghe di un’adolescente. Ispirata al Diario di Anna Frank, la fresca coreografia firmata dalla stessa artista armena sviluppa movimenti e situazioni che rinviano alla cronologia del testo, incrociandosi però con il film in bianco e nero che risale al contrario verso l’inizio della storia, partendo dai cumuli di scarpe dei deportati per arrivare a una corsa della protagonista tra gli alberi, nel ritrovato colore della libertà. In questo modo ciò che appartiene al passato cancellato dalla violenza della Storia si trova proiettato nel futuro, e dunque salvato nel gesto artistico con effetto liberatorio.

Una presenza forte è stata nel festival quella di Roberto Latini. Oltre al suo sempre commovente Cantico dei cantici (di cui abbiamo già scritto in occasione dell’anteprima di due anni fa a Castrovillari), l’attore ha interpretato in uno spazio inconsueto ­– il centralissimo Giardino Due torri, in un contesto popolare e festivo – i testi di rara intensità e precisione che Mariangela Gualtieri ha raccolto in Della delicatezza del poco e del niente. Un “concerto poetico” che non ha risentito, anzi si è perfino fatto forza del chiacchiericcio dei passanti e della giostra a cavalli che girava lì accanto.

Con Between P. and me di Filippo Ceredi siamo di fronte a una ricerca teatrale originale che ricostruisce con il linguaggio apparentemente distaccato del referto tecnologico una vicenda familiare dolorosa e complessa: la scomparsa volontaria del fratello Pietro nel 1987, all’età di 22 anni. Seduto a un tavolo da lavoro, l’attore usa computer e scanner per proiettare su uno schermo-fondale frammenti documentari degli anni Settanta e Ottanta, voci, musiche, fotogrammi tv, pubblicità, molti ritagli di giornale. Si alza la musica dei Pink Floyd, un reggae. La voce registrata racconta lacerti della storia di Pietro, che è poi la storia di tanti ragazzi che all’epoca militavano nei gruppi dell’estrema sinistra extraparlamentare. L’attore intanto dispone materiali cartacei a terra – libri, foto, dispense – delimitando uno spazio scenico della memoria ritrovata nel quale gli spettatori saranno invitati a entrare liberamente alla fine dello spettacolo. Lentamente, con delicatezza e umiltà, la materia che all’inizio sembrava allontanarsi nella freddezza di una rappresentazione digitale si carica di un inatteso grado di realtà. Ceredi assume con rigore la postura etica del testimone marginale, del più interno sguardo esterno alla vicenda narrata. Di chi, anagraficamente assolto, ne è stato per sempre coinvolto. Il fratello più giovane ha raccolto oggetti, appunti, memorie del fratello maggiore, ha parlato con familiari e conoscenti, ha ricavato dall’assenza l’ombra irrequieta di un’intera generazione. Una riflessione sugli anni della contestazione e della lotta armata senza retorica e compiacimenti. Soprattutto senza luoghi comuni. Uno sguardo dal presente segnato dalla distanza e dalla necessità di comprendere.

Alla dogana di Ceuta, l’enclave spagnola in territorio marocchino, il controllo ai raggi x rivela la presenza di un bambino in fuga nascosto dentro una valigia. L’episodio, già di per sé gravido di implicazioni morali e politiche, e di suggestioni letterarie, viene fatto reagire da Pietro Piva nel suo Abu sotto il mare con richiami al film Il bambino nella valigia di Philipp Kadelbach e alla storia di Pinocchio. Ne esce uno spettacolo denso e coerente nella drammaturgia e nelle forme – nella drammaturgia delle forme. Tutta la narrazione è a focalizzazione interna: è la visione del viaggio dal punto di vista del bambino, il racconto in presa diretta di come lui ha immaginato che siano andate le cose. Con tono fiabesco, ironico, spesso però concitato e confuso nell’intreccio dei riferimenti spazio-temporali, il protagonista si muove in uno spazio scenico disseminato di oggetti a terra e appesi. Le soluzioni tecniche sono sempre molto semplici ed efficaci. La maschera facciale e corporea dell’attore dialoga con gli elementi scenografici, con le luci, con le musiche. Il racconto in soggettiva del bambino nella valigia, privo di luce e di aria, si trasforma in una fantasia di viaggio dentro il mare, sotto il mare. Abu diventa Pinocchio che affronta il mare per salvare il babbo dalla pancia della balena, diventa il bambino deportato nel lager nazista, diventa perfino Ulisse che si nasconde dentro un cavalluccio di legno. Un gioco di sovrapposizioni e traslazioni che scontorna la figura universale e tragicamente attuale del migrante bambino, e ne salva la voce.




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