Una Medea per strada

A Verona il progetto del Teatro dei Borgia con Elena Cotugno

Pubblicato il 06/02/2019 / di / ateatro n. 167

Più del rossetto sfacciato e della parrucca corvina, più degli stivali alti e delle calze a rete, è l’italiano approssimativo con la cadenza da immigrata dell’est – rumena, si saprà quasi subito – a fungere da maschera per Elena Cotugno ogni volta che si cala nel ruolo non facile di una prostituta dal passato tragico, una specie di Medea dei nostri sciagurati giorni. La maschera linguistica risponde a due esigenze attoriali: quella di percorrere un’azione trasversale che informi l’intera performance, rendendo il personaggio riconoscibile e insieme straniante agli occhi dello spettatore, e quella opposta e complementare del necessario distacco tecnico dell’interprete per governare la partecipazione emotiva. Impresa temeraria, viste le condizioni di estrema prossimità con gli spettatori nelle quali va in scena la pièce, ovvero un furgone in cui hanno preso posto i sette convenuti all’appuntamento serale e dove, poco dopo, tra imprecazioni e colpi sulla fiancata, sale anche la giovane donna. Il furgone riparte, percorre lentamente i viali che escono dalla città, le periferie, le rotonde. Incroci, cavalcavia, strade appartate. Mentre scorrono ai finestrini le luci del traffico, lei comincia a parlare rivolgendosi agli altri passeggeri, chiamandoli in causa. Un filiforme arcoscenico di lucine colorate allude, non senza sarcasmo, a un’irrisoria quarta parete sul cui confine psicologico si gioca la relazione tra questa attrice che si può letteralmente toccare e questo pubblico spiazzato e destrutturato, ridotto a singolarità intimidite, costrette a fare i conti con il proprio disagio.

Eppure ci si crede senza tante resistenze alla figura snella e loquace che insiste, spavalda e invadente, a raccontare di sé, alla sua voce stridula e sgraziata, alla sua storia prevedibile, perché uguale a quella di centinaia di altre ragazze che battono i marciapiedi delle nostre periferie, ma a un certo punto sconcertante, perché la sua prevedibilità si scopre essere quella della tragedia greca. Il furgone è a metà fra un teatrino e un postribolo viaggiante. Forse è un mezzo pubblico abusivo, forse sta portando la donna al suo lavoro, senz’altro diventa il camioncino lercio nel quale lei ha compiuto molti anni fa il viaggio verso l’Italia. Come migliaia di altre giovani immigrate, anche lei aveva sognato una vita migliore, prima di finire vittima del racket della prostituzione.
L’Italia, il “giardino” vagheggiato, si è rivelato un inferno. Violenze, inganni, umiliazioni. Due figli avuti dall’uomo che diceva di amarla mentre la sfruttava e che l’abbandonerà per mettere in piedi una “famiglia normale”. È qui che il mito interviene per dare forma a una brutalità altrimenti inconcepibile, tanto ineluttabile quanto aberrante. La donna sgozza i propri figli e scappa, senza documenti, senza un’identità, risucchiata nel gorgo della disperazione che vive intorno a noi, che si alimenta della nostra indifferenza. Per narrare l’infanticidio si toglie la parrucca, si strucca lentamente, mantenendo tuttavia la maschera linguistica. Perché personaggio e attrice possano continuare a convivere anche nel volto teso e fragile che appare, negli occhi severi che ora ci guardano, ci interrogano con durezza: cosa siamo diventati, che cosa vogliamo? Di colpo il furgone accosta, la donna scende sbattendo la porta scorrevole come un sipario di lamiera sulla sua fredda tragedia. Il mezzo riprende verso il punto di partenza. Restano ancora alcuni minuti di strada per cercare una riposta.
Come spiega il regista Giampiero Borgia, la riuscita dello spettacolo dipende dall’empatia che si viene a creare, ogni sera, tra gli otto casuali passeggeri del furgoncino, dalla condivisione di un tratto di vita che trova forma nelle figure del mito e sostanza nella concretezza di centinaia di esistenze conosciute sul campo da Elena Cotugno, che firma la drammaturgia con Fabrizio Sinisi. Per mesi, accompagnando alcuni operatori sociali durante le loro operazioni di assistenza, l’attrice ha parlato con le ragazze per strada e si è confrontata con il fenomeno in prima persona, ha tenuto un diario e raccolto dati e testimonianze. È senz’altro anche per questo che il breve viaggio nel furgoncino diventa per lo spettatore un’esperienza, che il racconto diventa un’occasione di riflessione intima e politica a un tempo.

Foto di Marcello Norberth




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