In cammino nelle periferie della contemporaneità

L'XI edizione di Periferico Festival a Modena

Pubblicato il 09/06/2019 / di / ateatro n. 169

Quando nel 2014 lanciò il suo progetto di “rammendo delle periferie”, Renzo Piano ipotizzava l’intervento di specialisti per ripensare la città del futuro: energia, verde, trasporti, nuovi mestieri, sviluppo di processi partecipativi che coinvolgessero gli abitanti stessi nell’opera di ricucitura dei tessuti urbani slabbrati e degradati. Se di quell’ambizioso progetto sembra essersi persa traccia, forse non è solo per i ritardi della politica (e per il cambio di legislatura) ma anche per la mancanza di un parallelo disegno di ricomposizione del tessuto socio-culturale delle periferie italiane. Un rammendo dell’immaginario, la ricucitura di una autorappresentazione condivisa, il recupero di una memoria collettiva. A ricucire, insomma, non possono essere solo mattoni e cemento, strade e ponti. Servono anche storie, racconti, slanci mitopoietici. Quanto importante possa essere il ruolo giocato dal teatro in questa (ri)costruzione, con il suo concreto attraversamento di spazi e incontri di corpi, voci, vissuti, è così evidente che stupisce non trovare in ogni contesto urbano più o meno problematico un presidio teatrale capace di innescare pratiche inclusive e sperimentare forme di narrazione comunitaria.

Da questo punto di vista, la funzione del teatro può essere strategica. Senza scomodare Brecht e Piscator, Bread and Puppet o Copeau, basterà ricordare qui da noi gli interventi di animazione teatrale condotti da Giuliano Scabia negli anni Settanta lungo le cinture industriali di Torino e Venezia, o i laboratori autogestiti al centro sociale del quartiere Isola a Milano, o, più recentemente, il lavoro corsaro di Marco Martinelli con la “non-scuola” delle Albe a Scampia. Ma è a Modena che dal 2009 trovaspazio(è proprio il caso di dire) un’esperienza esemplare di comunità teatrale che ha scelto fin dal nome – Periferico – di far propria una condizione di marginalità, una prospettiva liminare, stanziandosi e distanziandosi al tempo stesso, radicandosi nel territorio e insieme alzandosi a volo d’uccello per disegnare la mappa che di quel territorio è rappresentazione e utopia.
L’undicesima edizione ha proseguito sulla strada coraggiosa di un festival «dove lo spettacolo non si “consuma” ma in cui si sperimentano attivamente delle pratiche artistiche di connessione con i luoghi».
Un festival sui generische propone pratiche performative site-specific, con l’intenzione di portare azioni artistiche in aree della città emiliana che hanno vissuto e tuttora vivono profonde trasformazioni sociali e urbanistiche.

Comunitaria, condivisa, partecipata anche nella progettazione (l’ideazione è del Collettivo Amigdala composto da Federica Rocchi, Meike Clarelli, Silvia Tagliazucchi, Sara Garagnani, Gabriele Dalla Barba e Serena Terranova), l’iniziativa è stata affidata quest’anno a sei figure artistiche invitate a declinare, insieme allo stesso Collettivo, la propria presenza all’interno del Villaggio Artigiano di Modena Ovest, storico quartiere di case-officine nate su iniziativa dell’amministrazione comunale nel secondo dopoguerra, ora in gran parte dismesse e in cerca di senso e identità: Dewey Dell, Effetto Larsen, Enrico Malatesta, DOM-/Leonardo Delogu e Valerio Sirna, Isabella Bordoni e Archivio Architetto Cesare Leonardi. Performance, concerti, installazioni, si sono alternate a incontri, proiezioni, visite guidate, momenti di espressione dell’immaginario.
Partecipare anche a una sola giornata del festival significa entrare in un rapporto vivo con pratiche di pensiero e azioni attraverso le quali gli artisti interrogano un luogo, le sue problematiche e le sue stratificazioni culturali, mettendo in discussione la propria stessa ricerca. Quella curata da Leonardo Delogu e Valerio Sirna, per esempio, è stata una sezione incentrata sull’attraversamento e sull’ascolto: del territorio, di se stessi, della distanza con l’altro. Al mattino un body trainingalla ricerca dello “stato liminare” come condizione fisica; al pomeriggio una “pennichella post-antropocentrica” con lettura e commento collettivo di un testo, inedito in italiano, di Rosi Braidotti e Maria Hlavajova, Posthuman Glossary, dedicato alla “teoria critica postumana”. Una critica dell’ideale umanistico occidentale dell’Uomo come presunta misura universal di tutte le cose che s’incrocia con il rifiuto della gerarchia tra le specie e dell’eccezionalità umana. Distesi su materassini in uno stato di distensione che lascia trascorrere pensieri e stati d’animo, i partecipanti leggono a voce alta, chiosano, sviluppano riflessioni critiche intorno al tema dello specismo, del vegetarianesimo, sull’idea di una soggettività non unitaria ma nomade, sull’egualitarismo zoe-centrico.
Poi tutti in piedi per una camminata nel quartiere: strade, fabbriche, prati, un campo da calcio… fino al confine della Massicciata. Alla partenza Delogu e Sirna ne parlano nei termini di un rito, che presuppone una comunità, una durata e una perdita. Citano Victor Turner e alludono a valori simbolici che possono emergere nel pensiero comune dei partecipanti. Viene in mente il Tarkovskij di Stalker, l’avvicinamento alla zonache misteriosa ci sfugge, che è dentro di noi. Il quartiere viene letto e agito dai corpi dei partecipanti come una drammaturgia di spazi che mette in rilievo il terreno sotto i piedi, l’ambiente acustico, le sensazioni emergenti dalle relazioni di ciascuno con i luoghi e con gli altri partecipanti. Forme dello straniamento e del riconoscimento. Tracce e coordinate di singole esistenze nel più ampio collettivo processo di costruzione e ricostruzione di identità. Bagliori di senso imprevisto. Non a caso il titolo del festival era quest’anno Latitudine e longitudine di un granello di sabbia: un granello che inceppa l’ingranaggio e apre una diversa possibilità.
La conclusione della camminata, di ritorno al campo base, è un cerchio di sguardi per una “conversazione senza parole” mutuata da una pratica con la quale il popolo Inuit prende decisioni, risolve controversie. Non è linguaggio del corpo, ma semplicemente uno stare: stare in ascolto, in attesa, incontrare lo sguardo dell’altro, accoglierlo, percepire in questa rete di sguardi l’affiorare di qualcosa che riguarda le domande poste all’inizio della camminata. Dieci minuti di silenzio, e tanti pensieri che ronzano nella testa.
E in serata, dopo la cena comune, la coerente conclusione con la proiezione di L’uomo che camminae l’incontro con Antonio Moresco. Il film, realizzato da Studio Azzurro, segue la performance di DOM- allestita l’anno scorso a Milano con lo stesso Moresco protagonista. Più volte Delogu e Sirna hanno dato vita a questa performance che prevede una sorta di guida per – di nuovo – l’attraversamento e l’ascolto di uno spazio da parte di una piccola comunità provvisoria, un drappello, una muta. A Milano il camminante solitario, notturno, sghembo era appunto Moresco, con i partecipanti che lo seguono vedendolo sempre di spalle e percependo attraverso il suo sguardo un’altra realtà cittadina. Un lavoro sulla “dispercezione”, sempre sul filo tra realtà e fiction. I partecipanti, come anche gli spettatori della proiezione, a un certo punto con comprendono più cosa sia realtà e cosa finzione. Scorci urbani si alternano a spezzoni di backstage, riprese con la camera ad altri con i cellulari. Se di solito la performance si sviluppa in una dimensione prevalentemente contemplativa, a Milano la parola ha preso corpo con Moresco. L’ispirazione dichiarata viene dall’uomo che cammina di Jiro Taniguchi, ma è inevitabile pensare, soprattutto di fronte all’affilata figura di Moresco, all’Homme qui marche di Alberto Giacometti. Un’emblematica rappresentazione dell’erranza interrogante nelle periferie della contemporaneità.




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