Censura e teatro | Atto quarto: Nascondi(no), il gran finale della Biennale Teatro di Antonio Latella

Gli spettacolo di Biancofango, Giuliana Musso, Unterwasser, Fabiana Iacozzilli, Giovanni Ortoleva

Pubblicato il 30/09/2020 / di / ateatro n. 174

Riflettendo sul tema impegnativo della censura, su cui si incardinava quest’anno la Biennale Teatro – Atto quarto: Nascondi(no) –, il direttore Antonio Latella si interrogava, anche in una sorta di autocritica, su «quanta e quale tipo di censura un direttore artistico, inconsapevolmente o consapevolmente, mette in atto nel programmare il teatro o il festival che è chiamato a dirigere». Ovvero: come sceglie e cosa decidere di nascondere? Di qui, complici le restrizioni ai viaggi imposte dall’emergenza pandemica, la presenza massiccia (quasi un risarcimento rispetto alle tre ultime edizioni della manifestazione veneziana) di artisti e gruppi italiani più o meno giovani e addirittura la “scoperta” del teatro di figura, cenerentola delle programmazioni teatrali nel nostro Paese. Latella non ha scelto gli spettacoli, ma ha chiesto alle compagnie di lavorare sul tema proposto e di farlo (con un sarcasmo certo involontario in tempi così difficili per le nostre compagnie) senza pensare a un’eventuale distribuzione, per evitare i meccanismi di autocensura sempre in agguato quando si fanno i conti con le leggi del mercato. Ne è uscita una Biennale discontinua, che ha mostrato un panorama del teatro italiano articolato e spesso, almeno per quello che siamo riusciti a vedere, senza motivazioni forti né desiderio di rischiare forme e linguaggi aldilà di codici ben riconoscibili.

Una Lolita per due

Gaia Masciala e Francesco Villano in About Lolita.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

About Lolita è per Biancofango l’occasione di un nuovo attraversamento di quel campo di tensioni che sempre è l’adolescenza, «un non ritorno» e insieme una «possibilità infinita» come dicevano Francesca Macrì e Andrea Trapani presentando Culo di gomma, uno spettacolo del 2012 messo in scena con un gruppo di studenti che ritrovava, tra l’altro, I giovani infelici di Pasolini.

Gaia Masciala e Francesco Villano in About Lolita.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Dall’esordio In punta di piedi (2006) al progetto Romeo e Giulietta. La perdita dei padri, che dal 2014 impegna la formazione romana con ragazzi di varie città (Napoli, Roma, Catania, Nuoro), l’adolescenza diventa il terreno di indagine e di messa alla prova (di messa in questione) di una pratica teatrale rigorosa che si confronta con testi originali o d’autore (Bernhard, Shakespeare, Pasolini, Baudelaire…) ma che pone sempre al centro il lavoro dell’attore. Dal romanzo di Nabokov, Macrì e Trapani hanno distillato una drammaturgia esile e precisa che gioca tra Lolite letterarie e cinematografiche, con un significativo tasso di metateatralità che può risultare pesante ma è forse il risvolto più originale dello spettacolo. Molte pose della Lolita in scena (una giovanissima e disinvolta Gaja Masciale) sono inevitabilmente studiate su quelle di Sue Lyon nel film di Stanley Kubrik (con tanto di occhiali rossi a cuore e chewing gum) e di Dominique Swain in quello di Adrian Lyne, ma la scelta di trasformare lo spazio scenico in un campo da tennis (ricavandolo dall’amore della protagonista per questo sport) consente alla regia di Macrì di traslare sul terreno di gioco le attrazioni e le prossemiche teatralmente scivolose della vicenda. I dialoghi, efficaci anche se non si spingono mai verso il fondo tragico della figura di Humbert Humbert, si svolgono quindi fra un set e l’altro o nel corso di allenamenti al servizio e di consigli sul rovescio.

Gaia Masciala e Andrea Trapani in  About Lolita. Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Per questa Lolita in gonnellino bianco smaniano due giocatori sul filo dei cinquanta, di nuovo rivali come forse lo erano un tempo: uno geloso e possessivo (Francesco Villano) che si fa passare per padre, l’altro ammiccante e scettico (Andrea Trapani) che crede di aver sedotto la ragazzina (ma in Nabokov Lolita non s’innamora mai) e si lascia andare a considerazioni sul teatro e sulla propria carriera fallimentare. Qui appunto lo spettacolo trova quella profondità che altrove stenta a vedersi sotto la levigata superficie di scene impeccabili: «Dovevamo farlo 22 anni fa questo spettacolo, saremmo stati più sinceri»; «Alla nostra età continua a recitare un mentecatto». L’amico rinuncia alla conturbante giocatrice, resta prigioniero del suo personaggio perdente, torna con la memoria a Trigorin nel Gabbiano di Cechov (ma Nina non è Lolita!), scelto per la sua prova di recitazione all’Accademia, ma ora vorrebbe interpretare Kostya, «uno che non torna indietro, che si è ucciso davvero».
“Il cinema mente, lo sport no”: la citazione da Godard appare a un certo punto dello spettacolo a giustificare il rettangolo rosso su cui si muovono gli attori, ma non riesce a giustificare i due video, troppo lunghi e fuori contesto (in uno Lolita nuota nuda in acque blu, nell’altro è in un campo con un bue), che aprono e chiudono la rappresentazione.
In realtà la dimensione sportiva come spazio teatrale e come metafora è cara a Biancofango, che l’ha già sperimentata nei primi lavori (per In punta di piedi era il calcio; per La spallata il nuoto) riprendendola qui in una più compiuta elaborazione. Uno spettacolo costruito con sapienza, ma ancora alla ricerca del suo fuoco, della necessità che sporchi la scena, che ne renda vivo il progetto. Come dice l’amico cinico di Humbert: «Un progetto è un’ammissione di colpa, e invece bisogna avere la scintilla del momento».

Storia di un’indagine

Giuliana Musso e Elsa Bosso in Dentro (Una storia vera, se volete). Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

«Ho cinquant’anni, vivo a Udine: io sono io, non sono un personaggio teatrale». Così Giuliana Musso in apertura di Dentro (Una storia vera, se volete) che la riporta al teatro di narrazione e di inchiesta per affrontare il difficile tema della violenza intrafamiliare o, «diciamo la parola: incesto». La riporta, perché l’anno scorso ci aveva colpito con una bella prova d’attrice mettendo in scena La scimmia dalla Relazione per un’accademia di Kafka. Qui generosamente fa un passo indietro per portare alla luce una vicenda scabrosa ricostruita lavorando sul campo, e quindi per fare spazio a persone e vite vere cui il teatro (in qualsiasi modo lo si voglia etichettare questo è sempre teatro) offre ascolto, rispetto, risarcimento morale. Ma poi la Musso entra ed esce dalla narrazione e via via che la sua indagine si sviluppa tra poliziotti, giudici, psicologi, assistenti sociali (le sedie allineate ai lati della scena ne dicono l’ingombrante presenza istituzionale e insieme l’assenza di umanità, la vuotezza, la rigidità) trova sempre nuovi, stretti e scomodi (e quindi teatralmente interessanti) interstizi di attorialità.

Giuliana Musso e Elsa Bossi in Dentro (Una storia vera, se volete). Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Dentro diventa infatti anche un rapporto sull’inchiesta condotta per mesi e infine si trasforma in uno spettacolo sulla costruzione dello spettacolo: «Dentro non è teatro d’indagine – scrive la Musso – è l’indagine stessa, quando è ancor nella vita, la mia stessa vita». L’attrice racconta l’infanzia della protagonista, le relazioni familiari, ricorda i dati sconcertanti del fenomeno, la letteratura scientifica sull’argomento (il Freud dell’Eziologia dell’isteria che studia i traumi di natura sessuale subiti nell’infanzia), incalza la madre di questo caso specifico (in scena interpretata da una composta Elsa Bossi).

Dentro (Una storia vera, se volete). Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Dall’incontro con questa donna e con la storia segreta che si portava dentro è nato un lavoro delicato e duro a un tempo. Delicato nei modi di avvicinamento alle vittime di una violenza «antica quanto il patriarcato», duro per la determinazione con la quale affronta un tabù e ci costringe a prendere atto di una zona oscura e rimossa della nostra società. Quel tabù che paralizzava perfino la madre della protagonista della narrazione, che a lungo ha subito violenze da parte del padre: «Io le dicevo: Mi devi dire cosa ti ha fatto, dimmelo! – Ma dentro di me pregavo: Non me lo dire, non me lo dire…».

Territori in ombra

Untold di Unterwasser.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Cinema, comics, pittura, teatro d’ombre, scultura… Anche nel nuovo spettacolo, Untold, Unterwasser lavora nei due territori della proiezione, il positivo e il negativo, trasformando in performance anche i movimenti di passaggio, i tempi morti, le pause tecniche. Oggetti e corpi provano a confondersi nell’illusione di uno spazio immaginario e nello svelamento dell’artificio.

Untold di Unterwasser.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Le luci sono montate e mosse a vista, così come i supporti sui e dai quali avvengono le proiezioni. Le stesse ombre delle manovratrici (Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio) entrano nel disegno che prende forma sui teli bianchi che chiudono il fondo scena. Passeggiano lungo i viali della città che prende forma da reticoli di segni, guardano il paesaggio che muta dal finestrino di un treno, si lavano le mani nel lavandino di uno degli appartamenti che, con ingrandimenti progressivi, i disegni scontornano.

Entriamo all’interno di queste microscopiche tranches-de-vie con un misto di stupore e di pudore. Qualcosa che ha a che fare con la censura c’è senza dubbio, ma più nell’estetica e nella teoria dell’ombra che nella storia messa in scena, la quale fatica a chiarirsi affidandosi quasi esclusivamente alla musica: un tappeto sonoro che trasporta lo spettatore in una dimensione onirica come solo il teatro di figura sa fare e diventa una drammaturgia sonora ipnotica, cui non resta che abbandonarsi. Se solo le manovratrici fossero più consapevolmente delle performer; se i loro movimenti, per esempio, diventassero davvero una danza, si supererebbe più decisamente il confine che ancora separa teatro d’attore e teatro di figura. Untold è uno spettacolo fresco e gradevole. E un’occasione perduta.

Una pancia enorme

Marta Meneghetti in Una cosa enorme.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Oltre il teatro di figura guarda invece disperatamente il nuovo lavoro di Fabiana Iacozzilli, Una cosa enorme. La regista del fortunato docu-puppet La classe affronta il tema della censura come processo di autoinganno censorio e lo applica al caso personale, incrociando in un cortocircuito esistenziale ed emotivo il proprio rifiuto della maternità con la necessità di farsi “genitrice” di sua madre anziana e ormai non più autosufficiente.

Marta Meneghetti in Una cosa enorme.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

La parabola messa in scena è tutta qui: una donna (Marta Meneghetti) trascina faticosamente dal frigorifero alla poltrona il suo pancione spropositato; si appoggia a un fucile che ogni tanto imbraccia per sparare a stormi di uccelli urlanti. Ne abbatte uno, un’enorme cicogna che si schianta al suolo. La donna la raccoglie e la getta su un cumulo di altre carcasse simili. Finalmente si rompono le acque e sotto la poltrona si allarga una pozzanghera, ma la madre prende il grosso cordone ombelicale e tira fino a soffocare i gemiti del nascituro.

Roberto Montosi in Una cosa enorme.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

A chiamare la mamma e a chiedere da mangiare da un alto seggiolone è nella scena seguente un uomo in pannolone (Roberto Montosi) che si rivelerà essere il padre ormai demente della donna, la quale ora, in qualche modo trasformata in madre del proprio padre (capovolgendo l’innologia mariana ripresa nel Paradiso dantesco: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio…») accompagnerà l’uomo verso la morte, ricomponendolo sotto il lenzuolo bianco.
Senza parole, le luci soffuse, i tempi dilatati delle azioni fino all’esasperazione, la performance sembra muoversi a metà fra una vicenda beckettiana (forse una reminiscenza della giovanile passione della regista per il teatro dell’assurdo) e una scena alla Raffaello Sanzio (ma senza i mezzi della Socìetas). Naturalmente è provocatoria la confessione della maternità rifiutata e toccante la riflessione sul fine-vita, ma l’atmosfera dello spettacolo è uniformemente tetra, i personaggi non hanno sviluppo, restano figure di qualcosa che non si compie. Forse perché il respiro dello spettacolo rimane costretto in una gabbia personale. Uno spettacolo che, lo confessa la stessa Iacozzilli, «risponde a un bisogno puramente egoistico di fare luce».

Maledetto Fassbinder

I rifiuti, la città e la morte.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

I rifiuti, la città e la morte è il lavoro coraggioso dell’ancora giovanissimo Giovanni Ortoleva (classe 1991), di nuovo alla Biennale dopo il successo dell’anno scorso con Saul. Giovanissimo ma in realtà coetaneo di Rainer Werner Fassbinder quando scrisse questo testo, Der Müll, die Stadt und der Tod.

I rifiuti, la città e la morte.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Il regista tedesco era allora direttore del Theater am Turm di Francoforte, dove avrebbe voluto concludere la sua esperienza appunto mettendo in scena questa pièce, e aveva già prodotto molte delle sue moltissime opere (morirà a 37 anni con 30 film all’attivo, oltre ai cortometraggi, le opere teatrali e per la tv). Questo per dire che anche i riferimenti anagrafici possono essere una censura e spesso dietro la categoria di “giovane” e “giovanissimo” si nasconde un atteggiamento pregiudizialmente sminuente. La censura qui del resto si piega facilmente a diverse declinazioni.
Fassbinder fu accusato di antisemitismo e l’opera non poté andare in scena, tra accese polemiche, che molti anni dopo la sua morte perché i divieti censori ne impedirono l’allestimento fino al 2009. Estremizzando ancora una volta la sua carica provocatoria, Fassbinder poneva in realtà una questione oggi ancora attuale: discriminatorio è anche parlare di una minoranza in termini esclusivamente positivi. Se il protagonista della pièce fosse stato un non ebreo, la vicenda, per quanto sgradevole, non avrebbe probabilmente subito alcuna censura.

I rifiuti, la città e la morte.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Ma lo speculatore che vediamo in scena è proprio «un ricco ebreo», secondo gli stereotipi più triti, e la sua decisione di aiutare la prostituta Roma B., debole e maltrattata dal marito-sfruttatore Franz, non ha niente di filantropico e non prelude ad alcuna redenzione. È piuttosto un suo modo sottile e meschino di vendicarsi sulla piccola gente che lo disprezza, appunto, in quanto ricco ebreo. Sotto la sua protezione, Roma B. diventa proprietaria di auto e appartamenti, ma finirà strangolata dallo stesso speculatore che riuscirà a gettare la colpa su Franz.
Attorno a queste figure, vortica una corte dei miracoli fatta di personaggi ambigui e loschi: altre prostitute più scaltre di Roma, il Nano, Hansel Cuor contento, il Piccolo Principe che è anche il dicitore, in puro stile “latelliano”, delle didascalie, sempre aggrappato al suo microfono ad asta di presentatore in abito sgargiante. E poi i genitori di Roma: una madre paralizzata devota a Lenin e Marx e un padre nostalgico nazista che si guadagna da vivere cantando en travesti in locali equivoci Non sono una signora di Loredana Bertè e Dimmi che non vuoi morire di Patty Pravo.

I rifiuti, la città e la morte.
Courtesy La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Come si capisce, Ortoleva è a suo agio con il grottesco e aggiorna l’espressionismo di Fassbinder (e le tecniche dello straniamento brechtiano) con giocose soluzioni queer nei costumi (di Marta Solari), nelle movenze e nella recitazione degli attori. Tutti da citare: Marco Cacciola, Andrea Delfino, Paolo Musio, Nika Perrone, Camilla Semino Favro, Edoardo Sorgente, Werner Waas. Palco nudo, lunga pedana fino al proscenio su cui sfilano di volta in volta i personaggi introdotti dalle indicazioni del Piccolo Principe, sedie in fila ai lati della pedana e sul fondo scena dove attendono il loro turno gli altri. Una radicale denuncia dell’ipocrisia, sempre fraintesa, che regge alla verifica del nostro presente dove i rigurgiti di antisemitismo e le discriminazioni sono sempre più preoccupanti.




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