Il micio Tommasino e l’ultimo soldato giapponese nella giungla
A Bassano per BMotion L'angelo della Storia di Sotterraneo
Nel nuovo spettacolo di Sotterraneo, L’angelo della Storia, il dispositivo ludico-combinatorio che in precedenti lavori veniva applicato al mondo trasformato in ipertesto dall’invenzione letteraria di David Foster Wallace (Overload), o ai processi interculturali innescati dal campionamento di parole intraducibili provenienti dalle più disparate lingue del pianeta (Atlante linguistico della Pangea), giunge a misurarsi con la dimensione storica sulla scorta della riflessione di Walter Benjamin. Il richiamo alle Tesi di filosofia della storia del pensatore tedesco è esplicito fin dal titolo, ripreso dalla celebre immagine dell’angelo che vola con lo sguardo rivolto al passato – un passato visto come catastrofe – ma che viene sospinto nel futuro da quella tempesta che chiamiamo progresso. Com’è noto, la tesi centrale (la nona) di Benjamin prendeva spunto da un acquarello di Paul Klee, acquistato dallo stesso Benjamin nel 1921 e intitolato Angelus Novus, una cui trasposizione plastica appare infatti in una delle scene centrali dello spettacolo.
In che cosa consiste il gioco? Nella creazione di una costellazione di aneddoti storici paradossali, azioni «in cui qualcuno compie un gesto assurdo ma capace di sintetizzare le contraddizioni di un’intera epoca». Queste azioni vengono rappresentate in modo più o meno buffo dai cinque performer e introdotte a turno, didascalicamente, da uno di loro. Davanti al grande display sul quale scorrono date che vanno, senza alcun ordine, dalla preistoria alla contemporaneità, ecco dunque intrecciarsi eventi singolari ed episodi curiosi, che risuonano in modo talvolta sinistro talaltra comico a seconda degli accostamenti in apparenza randomici dei fatti e dei loro stessi frammenti decontestualizzati, ma che evidentemente sono il risultato di un montaggio per analogie inattese e stridori inquietanti.
«Da sempre noi sapiens percepiamo la realtà come un racconto», spiegano in apertura i protagonisti, e i racconti sono modelli di realtà utili per sopravvivere. “Racconto” sono i disegni nelle caverne preistoriche, con i quali circolarmente inizia e finisce lo spettacolo, come lo sono tutte le altre azioni in scena che dovrebbero dare forma a una “mappa del paradosso”. C’è il terrapiattista “Mad Mike” Hughes, il pilota statunitense morto nel 2020 precipitando dopo un volo nello spazio con un razzo artigianale per fotografare la Terra dall’alto nell’intento di dimostrare che essa è piatta “come un frisbee”.
C’è l’epidemia di danza che nell’estate 1518 a Strasburgo costrinse per oltre un mese centinaia di persone, in preda a una sorta di isteria di massa, a ballare ininterrottamente fino allo sfinimento e alla morte. Ci sono le balene spiaggiate per un “racconto” sbagliato della capobranco e una statua di Lenin portata fino al Polo Nord; i molti parti di Eleonora d’Inghilterra nel XIII secolo e il coniglio transgenico fluorescente “realizzato” nel 2001 dall’artista brasiliano Eduardo Kac innestando geni di medusa nel mammifero; la messa a morte di Ippaso di Metaponto, scopritore dei numeri irrazionali che causò la crisi dei Pitagorici nel V secolo a.C., e la sofferta decisione di Stanislav Petrov che nel 1983, dubitando del sistema di difesa sovietico, non premette il pulsante di lancio dei missili contro le presunte testate termonucleari in arrivo dagli USA, sventando così una guerra planetaria. E ancora il suicidio di massa col cianuro dei 911 membri della setta del “Tempio del Popolo” guidati dal reverendo Jim Jones, in Guyana nel 1978, e i notturni di Chopin suonati da Carla Capponi per coprire le voci dei partigiani riuniti in casa sua a Roma una notte del 1943.
Naturalmente i passaggi di questa iperstoria potrebbero susseguirsi all’infinito. La velocità – e dunque la superficialità – dei processi associativi riproduce chiaramente le dinamiche della Rete e ostenta indifferenza alla natura e alla qualità degli aneddoti. Non vi può essere gerarchia delle fonti e dei significati storici. Di Carla Capponi, per dire, veniamo a sapere che dopo ore al pianoforte aveva le dita doloranti. Non una parola sulla sua figura nella Resistenza. Certo la scenetta reiterata dei nazisti che discutono su dove posizionare delle piante ornamentali all’ingresso dei forni crematori di Auschwitz fa venire i brividi. E alcuni accostamenti suscitano riflessioni su come non sia il caso di credere ai racconti o, al contrario, su quanto sia meglio non uscirne. Così la vicenda del micio Tommasino, che nel 2011 viene nominato erede universale da una ricca signora di Roma (dieci milioni di euro tra titoli bancari e proprietà immobiliari), si può incrociare per esempio con quella di Hiroo Onoda, che si arrese all’evidenza della fine della Seconda guerra mondiale solo nel 1974, dopo aver resistito da solo nella giungla di un’isola filippina. Il soldato giapponese era in ritardo di 29 anni sulla realtà (che è a sua volta una narrazione): si era fatto un racconto tutto suo e non voleva credere al racconto della Storia. Al contrario tutti noi abbiamo dato credito alla fake news del gatto Tommasino (e ad altri felini supposti ereditieri). Ma sembra proprio difficile ripensare il nostro presente, come auspicano gli autori – a partire da questa “mappa del paradosso”.
A meno che i performer in scena – sempre puntuali nei passaggi danzati e cantati, nella istantanea costruzione di gruppi dinamici – non vogliano mostrare proprio l’impasse di questo sguardo postmoderno sulla Storia intesa come insieme di eventi casuali e sconnessi. L’uomo è antiquato, per dirla con Günther Anders, e le sue percezioni fantasmatiche del mondo non gli riconoscono più la libertà di rivolgersi in avanti, di immaginare un altro mondo. Fermo sulla soglia del tempo, in equilibrio precario fra passato e futuro, fra catastrofe e redenzione, l’angelo non può fermarsi a ricomporre i detriti. «Quale altro essere senziente», si chiedono le note di regia, «potrebbe provare a ricomporre l’infranto, smontare le narrazioni e – volando o meno – finalmente girarsi per proiettare lo sguardo in avanti?» La domanda aperta, che aleggia anche alla fine dello spettacolo – sopra la caverna dei primi sapiens, sopra la grande balena gonfiata sul fondo: la storia che ritorna natura –, mostra i limiti della decostruzione messa in scena, la mancanza di fondamento di ogni costellazione arbitraria. O forse, riprendendo il messianismo ateo di Benjamin, lascia aperta la porta alla sola, paradossale risposta possibile: l’uomo. A patto di tornare a credere nella possibilità di intervenire nella storia, nella possibilità di cambiamento dello stato di cose presente. Nella possibilità (nella necessità) di un nuovo racconto. Nel dovere – scrive Benjamin in un’altra delle sue tesi – «di accendere nel passato la favilla della speranza».
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