La vita delle immagini negli archetipi di Dimitris Papaioannou

Al Teatro Argentina di Roma la versione finale di INK

Pubblicato il 01/03/2023 / di / ateatro n. 189

Foto Julian Mommert

L’acqua, il tavolo, i pannelli in movimento per delineare velocemente spazi, azioni, contrasti, prossemiche. L’assenza di parole e lo spazio scenico concepito in termini iconografici. Il dialogo ironico con l’antico percepito per miti. Le dinamiche conflittuali e insieme complementari dei due performer. L’uno vestito di nero, dominante e raziocinante homo faber. L’altro nudo, doppio sfuggente, istintivo, proiezione e rimozione del primo. Sulla scena di INK Ci sono tutti gli elementi del teatro di Dimitris Papaioannou.

Foto Julian Mommert

Soprattutto l’acqua. Che significa specchio, riflessione, emersione da profondità sconosciute. Dalla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Atene (2004) a Medea (2008) a Primal Matter (2012), l’acqua è scaturigine primigenia e misteriosa di vita delle immagini. In INK diventa elemento pervasivo e soggetto performante, serve a creare effetti e a costruire una drammaturgia delle forme di rara forza e originalità. Più che in altri lavori dell’artista greco l’affiorare di immagini è qui esperienza di visione interiore che porta lo spettatore a entrare nella scena dalla porta recondita dell’archetipo.

Foto Julian Mommert

L’uomo in nero (Papaioannou) governa un irrigatore a pioggia che dal lato destro del palco bagna lo spazio scenico immerso in una oscurità dove s’inscrivono la parabola e il vapore luminoso dello spruzzo incessante. Nero su nero, il fondale di nylon forma un emiciclo che risponde a quello del teatro all’italiana, chiudendo in una circolarità di condivisione l’immaginario che va apparendo.

Foto Julian Mommert

L’acqua proietta riflessi, scintillii, gibigiane sulle pareti e sul soffitto del teatro, rende liquida la platea. L’uomo maneggia un grande polpo, lo sbatte a terra, lo immerge in una grande boccia che più volte riempie d’acqua. Poi fa ruotare il liquido che imprime al globo, una volta messo a terra, un movimento elicoidale mentre l’acqua esce a fiotti dalla sua bocca. L’intero teatro diventa come quel globo, lo spettatore ruota in una visione, ne coglie la precisione simbolica. A patto che abbandoni le istanze narrative e razionali per sentire un po’ come il polpo, che ha tre cuori e nove cervelli.

Foto Julian Mommert

C’è una scena in cui l’uomo si siede appoggiandosi all’asta dell’irrigatore e sembra che il getto gli esca dalla testa, da un occhio, da un sogno. Ecco insinuarsi sotto le lastre di plexiglass stese sul pavimento una presenza inquietante, animale, scivolosa. L’intruso (Šuka Horn) viene riconcorso, pescato fuori, affrontato in un corpo a corpo che vede l’uomo vestito avvolgere quello nudo in uno dei pannelli trasparenti, cercare di contenerlo in quel tubo che si flette, si apre, scivola sotto la pioggia continua. Il corpo nudo, che in altri momenti dello spettacolo assumerà posture statuarie, qui si deforma sotto la plastica come in un quadro di Francis Bacon. È una danza di strattoni, una lotta di abbracci. Dopo aver abbandonato a terra l’uomo nudo, creatura degli abissi dell’inconscio, in preda a convulsioni e spasmi ritmici, l’uomo vestito gli copre i genitali con il polpo.

Foto Julian Mommert

Scritto con l’inchiostro di quel polpo – cioè con l’inchiostro delle emozioni profonde, perché ci precedono e trascendono – INK è un susseguirsi di oscure configurazioni carnali, di ossessioni, di tacite interrogazioni sulla solitudine, sul trascorrere del tempo. La tensione tra i due personaggi è alimentata anche dalla conflittualità intergenerazionale, dallo scontro fra vecchio e nuovo. Come Kronos che divora i propri figli, l’uomo vestito si oppone alla vitalità del giovane nudo, forza ctonia, dionisiaca. Ma ne è anche attratto. La sua lotta è in fondo una lotta con se stesso, un tentativo di addomesticare il mostro che ha dentro. Quando il polpo viene scagliato contro il fondale emerge in un cambio di luce l’uomo nudo come un cefalopode gigante. Allora il teatrino si trasforma in un circo, l’uomo nero in veste di domatore imprigiona la creatura mostruosa, la appende a un gancio, la lega un tavolo e ogni volta quella trova la via per liberarsi, inventa nuovi modi di deambulare, si dimena in una danza grottesca.

Foto Julian Mommert

Le atmosfere da cinema horror, le allusioni pittoriche, certe movenze e posture che possono ricordare il Butō reagiscono con le musiche originali di Kornilios Selamsis, che hanno sostituito i brani vivaldiani utilizzati per la prima versione dello spettacolo (quella che nel 2021 ha vinto il Premio Ubu come miglior spettacolo straniero presentato in Italia). Completamente ricreata in questa versione (almeno per ora) definitiva anche la scena finale: rimasto solo, sotto lo stesso scrosciare d’acqua dell’inizio, l’uomo in nero in controluce nella scena nera continua a sbattere il polpo a terra, a riafferrarlo e a sbatterlo. In quel gesto antico, possente e tragico, istinto di vita e istinto di morte si confondono.

Foto Julian Mommert




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