Tre generazioni di donne, un dolore senza nome e la ricerca della felicità
Anatomia di un suicidio di Alice Birch con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli al Piccolo Teatro Milano
Il filo da pesca non c’è più. L’amo non c’è più. La teiera non c’è più. Il latte non c’è più. L’acqua non c’è più. La luce non c’è più. Ciao.
Piantala. Smettila. Il pezzo blu. Il pezzo rosso. Il pezzo freddo. Il pezzo silenzioso. L’ancora non c’è più.
Una giacca rossa, un vasca da bagno, un mazzo di fiori, un albero di prugne e una casa da cui sembra impossibile separarsi. Palloncini colorati, da cui ne emerge uno color blu, come il cielo, come il mare, profonde acque abitate da pesci, liberi ma fragili, attratti da temibili esche. Un amo da pesca che cattura, lega e intrappola. Un sottile fil rouge che – come un oscuro incantesimo – tiene saldamente unite tre donne. Una madre, una figlia, una nipote.
La madre Carol (Tania Garribba) è una donna persa, insoddisfatta, inappagata, nonostante l’amore del marito. In continuo bilico tra la serenità mentale e il malessere psicologico, in punta di piedi tra la vita e morte, Carol fa di tutto per costruirsi un’esistenza stabile e solida: acquista una grande casa con giardino, diventa madre di Anna, cerca di essere una mamma e moglie perfetta, dedicandosi quotidianamente e con dedizione alla sua famiglia. Ma la perfezione non esiste e la felicità irraggiungibile, e questo Carol sembra non riuscire ad accettarlo. E allora, l’unica soluzione che resta, è lasciare andare quell’amo da pesca che la tiene ancorata alla sua esistenza, rinunciando alla vita.
La profonda Petra Valentini veste i panni della figlia Anna. Una giovane donna “da sempre instabile” come si definisce lei stessa, fin da bambina, confidandosi un giorno in spiaggia con la madre. Vive una vita di eccessi fatta di alcol, droghe, sesso occasionale – addirittura con un minorenne – unica via di fuga dal dolore e dal vuoto lasciato dalla madre morta suicida. La speranza bussa alla sua porta quando incontra un fotografo capace di amarla per quello che è – o forse nonostante quello che è. Con lui Anna riscopre l’amore, trova il coraggio di tornare a vivere nell’amata casa di famiglia, diventa madre di Bonnie. Una piccola creatura che si rivelerà però l’ennesimo amo da pesca pronto ad intrappolarla nelle sue fragilità, piuttosto che una preziosa ancora di salvezza.
E poi c’è la dura e irremovibile Federica Rossellini, che porta in scena la nipote Bonnie, che tenta disperatamente il riscatto da una condizione familiare disastrosa. E’ medico. È competente, ambiziosa, ma anche poco empatica, anaffettiva, incapace di amare, persino quella giovane donna incontrata in ospedale – perché ferita da un amo da pesca – che le confessa i suoi sentimenti. L’unico modo per riuscire a sopravvivere è recidere il vincolo che la tiene legata alla terribile storia familiare, tagliare il filo di quell’amo da pesca che tormenta la sua famiglia. Vende la casa di famiglia e rinuncia con mezzi medici alla possibilità di diventare madre. E così se Carol e Anna rifiutano la propria vita per quella della figlia, Bonnie rompe il sortilegio e rinnega il figlio per riappropriarsi della propria esistenza, per scrivere una nuova storia.
Vincitore del Susan Smith Blackburn Prize e per la prima volta in scena in Italia al Piccolo Teatro di Milano, Anatomia di un suicidio porta simultaneamente in scena tre generazioni vittime di un caos a cui pare impossibile sottrarsi. Con tre porte alle spalle che delimitano tre ambientazioni appartenenti a tre momenti storici diversi, le donne si parlano attraverso il tempo tramandandosi dubbi, volontà, debolezze e desideri. Tre linee narrative contemporaneamente raccontate sul palcoscenico si rivelano essere l’una l’origine e il frutto delle altre. Azioni, parole e oggetti si ripetono come una filastrocca macabra, creando un inquietante ma al contempo affascinante affresco di immagini che si incontrano e si scontrano svelando affinità lontane nel tempo e nello spazio.
Con eleganza, accuratezza e quel pizzico di crudezza di chi non ha paura a mostrare le debolezze e le fragilità che si nascondono dietro gli esseri umani e alle relazioni che li legano, la drammaturga britannica trentacinquenne Alice Birch dà vita ad un mosaico ad alto contenuto emotivo i cui tasselli sono rappresentati da dodici tra attori e attrici, guidati dalla regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni.
Cosa comporta scegliere di vivere? Quando si muore veramente? Qual è il significato del “generare”? Come si raggiunge la felicità? Domande a cui Carol, Anna e Bonnie non sono riuscite a rispondere. E allora tocca a noi spettatori trovare una risposta una volta usciti da teatro ipnotizzati e disorientati.
sound designer Pasquale Citera
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