Per una politica culturale fondata sui valori: un punto di vista globale

Le Buone Pratiche 2: materiali

Pubblicato il 20/11/2005 / di / ateatro n. #BP2005 , 091

da “Economia della Cultura” – a. XIV, 2004, n.2.

1. Una rivisitazione delle politiche culturali

L’entrata nel nuovo secolo impone una rivisitazione delle politiche la culturali e delle loro prospettive, alla luce dei profondi cambiamenti dal sperimentati della imprese creative in tutto il mondo, e di una nuova consapevolezza sociale sul tema dell’ambiente culturale, specialmente nelle società “a mercato lento”. Alcune contraddizioni immediate costituiscono la premessa della nostra analisi:

— le politiche culturali non possono essere capite al di fuori del loro contesto socioeconomico e politico, compreso quello della globalizzazione: ma i riflessi di quest’ultima sulle componenti sociali e politiche della pratica artistica, non sono ancora sufficientemente conosciute;

— i governi e l’opinione pubblica riconoscono il passaggio della sfera culrale da scenari pubblici a scenari privati, e tuttavia gli studi sulle politiche culturali restano fermamente radicati nell’ambito della governance;

— i flussi cultuali vengono descritti come depositari di valori umanistici, e tuttavia le disuguaglianze nello scambio, gli imperi delle comunicazioni e la subordinazione delle arti al commercio e ai media sono più forti che mai.

Dal momento che la rilevanza della cultura nel PNL e nel commercio crescono tutto il mondo, dovrebbe crescere contestualmente il ruolo delle politiche culturali sempre pii:t necessarie in vista della regolazione del mercato culturale. Le società a mercato lento e quelle a mercato rapido dovranno entrambe fronteggiare il problema della gestione del loro bene pubblico più intimo: la cultura. Tutelare e valorizzare il patrimonio culturale diverrà la chiave della coesione locale e della competitività nei confronti dell’esterno.
Il «fattore culturale» è già accettato — di fatto — dal mercato, e diviene il segno principale di distinzione di importanti progetti di tipo commerciale. Tuttavia, tale riconoscimento non discende dalla qualità morale delle attività artistiche, ma dal valore aggiunto portato alla comunicazione d’impresa. Per consolidare un nuovo spazio mondiale per l’interazione culturale — parzialmente o pienamente integrato nelle strutture del mercato convenzionale — le arti e i loro epigoni devono però esigere, per se stessi, che la scena principale sia lasciata ai valori sociali.
Il capitalismo culturale sta sostituendosi al capitalismo industriale, come risulta chiaramente anche dall’evidenza statistica che descrive il progresso strabiliante delle industrie del tempo libero, della cultura e della comunicazione dagli anni Cinquanta in poi. Il modello della pratica culturale borghese — fondato sull’accesso e sulla distinzione — è di venuto, il paradigma di molti tipi di relazioni umane, comprese la politica e i economia. Nello stesso tempo, nuovi movimenti orientati ai va lori guardano alla sfera culturale, alla ricerca di elementi di qualità nel l’esperienza umana e nella solidarietà. La soggettività non è più uno strumento di scelta, ma è divenuta essa stessa oggetto della scelta. La creatività non è più una qualità supplementare dei processi ma il loro stesso esito. È nostra intenzione tuttavia di concentrarci, anziché su queste trasformazioni culturali, sul loro impatto sulle politiche pubbliche; un impatto dominato da una sfida ai valori esistenti, e dalla necessità di metterne a fuoco di nuovi.
Il recupero di una elevata dimensione morale nella sfera culturale, non va vista nella vecchia accezione puritana, ma va considerata come una piattaforma tendente a favorire comportamenti fondati sui valori: perché valori «alternativi», come l’armonia fra mente e corpo, i diritti umani, la spiritualità, la sostenibilità ambientale, la memoria sociale, l’equità e la solidarietà sono stati in circolazione già dal secolo scorso, ma lo loro sostanza è andata progressivamente alienandosi dalle arti e dal patrimonio.
Molte delle difficoltà sperimentate dalla regolazione culturale tradizionale — fin dalla crisi e dalla quasi dismissione delle filosofie del Welfare State — sono dovute al mancato passaggio da politiche fondate sugli obiettivi a politiche fondate sui valori. Infatti il futuro delle politiche culturali è quello di regolare lo spazio culturale pubblico in modo da assicurare il rispetto dei valori, piuttosto che promuovere o gestire la pianificazione culturale strategica. I diritti culturali, l’etica della cooperazione culturale e la difesa dei valori umanistici nelle relazioni culturali (specialmente nella Rete) saranno al centro della politica culturali pubblica nel XXI secolo. Solo in questo modo le politiche culturali riusciranno a collegarsi costruttivamente con le altre aree d’intervento del settore pubblico, come l’educazione, l’ambiente, la salute e la sicurezza della qualità della vita, per fare sì che la cultura occupi un posto centrale in processi orientati al valore delle nostre società.
Come avviene per l’educazione, l’ambiente o la salute, l’ambito pubblico della politica culturale sarà rivendicato e gestito sia da organizzazioni pubbliche, sia da organizzazioni private, il che comporta la creazione di un nuovo meccanismo regolatore eventualmente patrocinato dal l’ONU. Questo tipo di meccanismi, nel caso della cultura, dovrebbero essere basati prevalentemente sull’autoregolamentazione volontaria, ma con un forte monitoraggio internazionale, basato anche sul ricorso a benchmark.

2. I valori all’opera

Nel tradizionale welfare state e nei suoi sistemi di politica culturale, la creatività veniva considerata principalmente al servizio di alcuni valori sociali condivisi. Questo presupposto viene messo in discussione dai valori che si sono andati imponendo al volgere del secolo, nei quali la soggettività e la creatività possono essere privatizzate e vendute sul mercato, non solo come singoli prodotti e atti, ma come identità collettive.
Per contro, mentre il ruolo delle politiche culturali pubbliche è profondamente cambiato, gli strumenti e i metodi di analisi di tali politiche sono ancora radicati nella tradizione occidentale degli anni Settanta, caratterizzata da alcuni coraggiosi presupposti:

a) la pratica culturale è fondamentalmente un esercizio collettivo (ad eccezione dei piu’ facoltosi), che va promosso e regolato dai poteri pubblici;

b) lo stato (a tutti i suoi livelli e con tutte le sue istituzioni) è il solo agente di riflessione e di pianificazione strategica per le arti e per la cultura;

c) la sfera culturale si incentra sulle arti classiche, più il cinema. Le forme della cultura popolare, nel senso moderno del termine, vengono incluse solo marginalmente nelle politiche ufficiali negli anni Ottanta;
br> d) i fenomeni culturali sono alimentati essenzialmente da una dialettica nazionale/locale; l’ internazionalizzazione è tuttora considerata un fatto eccezionale.

La struttura istituzionale che ha funzionato fino agli anni Novanta era perfettamente in grado di gestire questi presupposti: bastava collo care la cultura accanto all’educazione e ad altri servizi alla persona, fornendo i finanziamenti complementari e i sistemi di regolazione.
Tuttavia, le politiche culturali conseguivano solo di rado la stessa rispettabilità amministrativa delle altre aree dell’intervento pubblico, tanto che la salute, l’ambiente, l’occupazione, la sicurezza o l’educazione hanno utilizzato la cultura come supporto per i loro obiettivi principali. Burocrati, amministratori e mediatori tendono a vedere nelle politiche culturali un’appendice dell’educazione, della comunicazione o del tempo libero. E’ un paradosso del nuovo millennio che l’area pubblica più trascurata nel XX secolo sia oggi chiamata ad occupare il centro della. scena, bensì non in termini di area di governance, ma piuttosto come fonte generosa di materia prima per l’espansione del mercato. Il danno alle politiche culturali come area di interesse pubblico potrebbe essere irreversibile.
La ragione di ciò risiede in parte nel fatto che le politiche culturali non sono più state propriamente strutturate nell’ambito dell’azione politica convenzionale. Per quanto concerne la cultura, i programmi principali dei partiti si limitano ad una modesta combinazione di politiche di tutela e di accesso, con scarso riferimento a un progetto culturale generale per la società o la comunità.
Il discorso culturale resta sganciato dai diritti e dai valori. Le politiche — di destra o di sinistra — non sono riuscite a introdurre il discorso cul turale nelle aree calde dell’inquietudine sociale: le migrazioni, l’esdusione, la disoccupazione, i diritti dei consumatori, o i diritti umani. Questo potrebbe spiegare come mai in molte aree della coscienza politica, in Europa e in America, l’impegno ambientalista ha Sostituito la battaglia culturale, visto che la sinistra ha rinunciato — ancora una volta — a con siderare la cultura come un’area speciale di «consapevolezza dei valori».
Il conflitto crescente fra l’Europa urbana e quella rurale fa parte di un nuovo divario nel quale i temi culturali possono essere facilmente igno rati, mentre preoccupazioni ambientali correnti — come quelle per la qualità alimentare o per le crisi dell’agricoltura — costituiscono obiettivi chiari e precisi.

3. Politiche per obiettivi

Le politiche culturali pubbliche sono state, storicamente, di vario tipo, in particolare nella tradizione occidentale, dove l’intervento pubblico nel campo delle arti può essere documentato diacronicamente fin dal Rinascimento.

a) Uno dei modelli tradizionali fa riferimento alle politiche guidate dalla magnanimità personale: il volere del Principe che gestisce privilegi, accresce il benessere o il patrimonio ed esercita una influenza diplomatica.
La comunicazione fra il potere e il popolo può essere resa più agevole sottolineando la comunanza dei simboli e la capacità del Principe di legittimarli. I principi cattolici o gli imperatori giapponesi rappresentano modelli diversi di gestione delle arti e del potere.
La crisi delle monarchie assolute e l’emergere della borghesia ridimensiona questa modalità della politica senza eliminarla completamente. I politici contemporanei a volte emulano la politica del Principe e così fanno i leader dell’imprenditoria attraverso la sponsorship aziendale delle arti.

b) In forma corollaria rispetto al profilo del Principe, troviamo politiche come «la ragion di stato», che corrisponde alle pratiche di costruzione dello stato: le arti come corollari dei simboli di stato, insieme all’esercito, al linguaggio e alla moneta. La conservazione dei tesori di stato e il sostegno agli «artisti nazionali» costituisce una parte significativa delle politiche nazionaliste. Questo tipo di meccanismo è ancora molto vivo ai nostri giorni, nonostante l’erosione generata dai processi di integrazione continentale e globale, e la spinta alla diversità culturale interna (dal momento che il fatto che nessuno stato nazione possa essere descritto come «monoculturale») è una realtà contemporanea indiscutibile. Non di meno, le politiche di costruzione dello stato nazionale — trasformate in una difesa disperata dei beni culturali (spésso depredati da contesti coloniali o regionali) — ispirano ancora molte pratiche politiche nel campo della cultura. La «sussidiarità culturale» nell’Unione Europea si ferma ai livelli degli stati, e possiamo individuare forti domande di costruzione nazionale nelle politiche culturali in Africa e in America Latina.

c) Accanto a quelle politiche, troviamo politiche guidate da «obiettivi». Come si sa, la Seconda guerra mondiale introdusse una nuova ondata di assunzione di responsabilità della politica, con la conseguente domanda di assunzione di responsabilità pubblica anche in campo culturale. Le politiche culturali vennero pertanto giustificate per il loro contributo ai processi generali di tipo sociale, politico ed economico sulla base di obiettivi che sono andati cambiando nel corso del XX secolo, secondo modalità che cercheremo di sintetizzare.
È noto che negli anni Cinquanta l’azione culturale pubblica tendeva ad obiettivi di riconciliazione e di ricostruzione: ciò vale particolarmente per l’Europa, ma può essere esteso ad altre regioni del mondo. Negli anni Sessanta, tale ruolo andava ricercato soprattutto nel contributo della cultura alla educazione permanente ed extrascolastica, mentre la logica prevalente degli anni Settanta riguardava l’integrazione delle culture rurali e periferiche nei processi di modernizzazione. Negli anni Ottanta l’obiettivo principale diviene quello dello sviluppo economico, mentre negli anni Novanta è il benessere sociale a dominare la scena (riduzione della disoccupazione, riqualificazione urbana, sviluppo rurale, integrazione degli immigrati, lotta contro l’esclusione sociale).
Sembra che nei primi anni del XXI secolo la spinta principale sarà data dalla valorizzazione delle tecnologie. In altre parole, le principali politiche per la cultura, nel settore pubblico come in quello privato, potrebbero favorire l’uso delle tecnologie della società dell’informazione nella tutela, nella divulgazione, nella comunicazione o nella creatività culturale. Questa non è che una supposizione, anche se avvalorata da molti segnali, come, ad esempio, l’accento posto dalla Unione Europea sull’introduzione degli strumenti della società della informazione nello sviluppo culturale, sia in Europa, sia nelle regioni associate.
Le politiche finalizzate al conseguimento di obiettivi sembrano desti nate a restare, perché ci sarà sempre un ruolo per la politica culturale come supporto ad altri obiettivi socio economici, anche se la costruzione del consenso attorno alle politiche culturali nelle società complesse è divenuta sempre più difficile.
Questi tre tipi di politica hanno strumenti di attuazione distinti. Nel primo tipo, si tratta di un sistema di corte, con le sue gerarchie di rotazione per i «favoriti». Il secondo tipo strumentalizza una struttura statuale con un potere decisionale centralizzato basato sull’esercito, su alleanze con la religione, sui sistemi educativi e sugli interessi coloniali. Il terzo tipo opera attraverso la delega, la devoluzione e il decentramento, in un complesso gioco politico di sfide e di obiettivi.
Oggi possiamo individuare una tendenza capace di sostituire le politiche guidate da obiettivi con politiche guidate da valori. Per politiche orientate ai valori intendiamo quegli sforzi concertati nei quali viene rielaborata e riscritta la linea di fondo del perché la cultura vada sostenuta. Cinque decenni di politiche orientate agli obiettivi non sono riusciti a portare la cultura «dai margini al centro» e a riconoscere «la nostra diversità creativa)). Il ruolo della fenomenologia culturale pubblica nella nostra società è troppo delicato e trascurato per essere mantenuto al li vello di qualsiasi altro esercizio di fissazione di obiettivi politici o economici. Le politiche culturali guidate da valori considerano la cultura un diritto umano, radicato nel nucleo della dignità umana.

4. Test e benckmark

La fenomenologia contemporanea delle relazioni culturali è oggetto di studio privilegiato da una varietà di scienze sociali, specialmente quelle più adatte all’analisi dei rapporti simbolici e di potere all’interno di una particolare struttura sociale, inseparabile oggi da un sistema di interazione culturale di portata mondiale. Ma, i reiterati tentativi di sfruttare il potenziale delle scienze sociali di contribuire alle politiche culturali, hanno finora deluso. Ciò vale non solo per l’analisi delle politiche come corpus specializzato di conoscenza, ma anche per gli studi sulla cultura in generale:

«L’esame del comportamento culturale è stato un incubo storico per gli antropologi. Le teorie funzionaliste e comportamentaliste sono state scartate dalle scienze sociali con la stessa sistematicità con cui esse formulano le proprie leggi.»

Queste difficoltà hanno rallentato il ritmo dell’analisi culturale dal punto di vista antropologico, e hanno quasi negato la possibilità che tali analisi entrassero a fare parte della governance politica. La ragione di tali perplessità può essere dovuta a condizioni avverse, o all’appropriazione degli studi sulle politiche culturali da parte di burocrati ai quali spetterebbe solo di attuarli, o, semplicemente, alla mancanza di interesse per la ricerca. Ma se queste ragioni potrebbero essere plausibili nel mondo occidentale, non lo sono necessariamente in altri emisferi, dove il concetto di politica culturale è stato meno strutturato nelle domande istituzionali di intervento pubblico. Sebbene la sfera pubblica nella vita culturale delle società che si trovano nella metà inferiore dell’indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite sia perfettamente identificabile e normalmente più vibrante di quanto accada nella «metà superiore», la governance culturale assume una inclinazione diversa a seconda dei suoi diversi stili nel processo di costruzione istituzionale. Comunque, gli antropologi moderni trovano difficile, tanto nelle società premoderne, quanto in quelle industriali, includere nella loro nozione di mutamento sociale le trasformazioni nella pratica artistica e nell’offerta pubblica di cultura, nonostante la popolarità dell’argomento.

«Di questi tempi, gli antropologi si innervosiscono notevolmente quando affrontano la cultura — il che è sorprendente, in apparenza dato che l’antropologia della cultura è un genere di successo. Mentre altri concetti venerabili sono praticamente sbiaditi e scomparsi dal discorso delle scienze sociali, anche un postmodernista può parlare inconsciamente della cultura (tra virgolette, magari.., pensate al destino di concetti come personalità, struttura sociale, classe, o, più di recente, genere sessuale). In effetti, la cultura oggi è più di moda che mai.»

Ma perché le politiche culturali sono state una moda marginale del XX secolo, e non sono riuscite a collocarsi al centro dell’interesse pubblico? Uno degli ostacoli principali è stato tradizionalmente costituito dalla ossessione di produrre valutazioni attendibili e modalità di comparazione. Valutazione, analisi di qualità, comparabilità e stima delle tendenze sono stati argomenti sfuggenti per la comunità degli analisti delle politiche culturali fin dall’inizio della disciplina. Dopo 50 anni di esperienza si può dire che la maggior parte delle difficoltà riguarda la mancanza di correlazioni prevedibili fra obiettivi e attività di benchmarking.
Anche se, alla fine, gli obiettivi della politica culturale possono venire definiti, il modo in cui sono giudicati il loro conseguimento, o meno, varia con i cambiamenti che queste politiche provocano al momento della loro attuazione. Infatti, se è vero che le politiche culturali sono ritenute meccanismi lenti, tuttavia, è spesso sufficiente la sola decisione pubblica di attivarle per trasformare il clima culturale che domina i processi influenzati da tali politiche. Ad aumentare le difficoltà di valutazione, c’è poi il fatto che le politiche culturali sono attuate fino in fondo solo di rado; una particolare tendenza messa in moto dall’azione pubblica può portare infatti a una reazione imprevedibile (da parte della offerta o della domanda) che a sua volta potrebbe condurre a una trasformazione della politica stessa. Le politiche culturali sono strumenti insoliti, nella misura in cui esse tendono ad essere ancillari rispetto ad altri meccanismi e ad avere finalità molteplici. Esse operano tanto sulla percezione dell’ambiente quanto sul comportamento della vita reale; infatti, spesso la domanda di politiche culturali è più forte della insistenza sulla loro attuazione. È per questa ragione. che il benchmarking è possibile solamente in aree altamente regolate, dove l’esame dell’attuazione fa parte integrante della politica. Ciò accade molto raramente nei sistemi culturali aperti: i soli tassi di visita o il numero dei biglietti venduti forniscono una misura molto modesta del successo o del fallimento di una politica, e, in ogni caso, i risultati sono destinati a restare all’interno dei soggetti che li hanno conseguiti, perché è molto difficile ottenere indici di comparabilità fra contesti culturalmente diversi e fra pro cessi che fanno di tutto per essere unici. Uno dei problemi principali dell’analisi culturale riguarda il ben noto fatto che la cultura viene considerata nello stesso tempo oggetto e strumento della definizione. Per tutte queste ragioni, la valutazione delle politiche culturali si è ridotta quasi del tutto a un esercizio interno ad ogni disciplina o area di applicazione, spesso attuato dalla stessa struttura responsabile. Ambiguità fra soggetto e oggetto delle definizioni, fra giudice e parte in causa, sono ostacoli teorici ben lungi dall’essere risolti nel gioco attuale della politica culturale, dove la valutazione costituisce uno dei lati oscuri.
La formulazione e la valutazione delle politiche culturali hanno attirato l’attenzione degli analisti fino dalla fine degli anni Settanta, anche se sono pochi metodi sono stati sperimentati sistematicamente. I tentativi di raggiungere la comparabilità sono stati finora esperimenti coraggiosi di combinare la diversità culturale con la responsabilità comune: un tentativo che sembra autolesionista, forse perché è troppo preoccupato degli obiettivi e troppo poco dei valori. Il ripensamento delle politiche culturali potrebbe beneficiare di un approccio orientato invece ai valori. L’oggetto di questo esercizio è triplice:

— affermare l’universalità dei diritti culturali e pertanto dei valori culturali;

— promuovere un elemento di comparabilità delle politiche sulla base di benchmark comuni;

— sollecitare un dialogo culturale basato sui valori piuttosto che sugli obiettivi «strategici».

5. Revisioni orientate ai valori

Dobbiamo comprendere nella categoria indicata dal termine di «revisioni» sia la formulazione delle politiche, sia la loro valutazione. La sezione che segue è dedicata a suggerire un certo numero di aree di interesse assiologico per le politiche culturali e per la loro attuazione. Questa proposta mira a sollecitare un dibattito sull’argomento, che potrebbe essere ripreso dai professionisti della cultura e dagli esperti di politiche pubbliche e di diritti umani; un dibattito che, si spera possa essere largamente condiviso.

a) Sostenibilità
Il concetto dovrebbe abbracciare una visione armoniosa dei progetti e delle politiche culturali, profondamente radicati nella nozione di sostenibilità ambientale, dove l’energia impiegata nei progetto è congruente con i risultati attesi. La sostenibilità è anche una funzione di un input intensivo di risorse umane unito ad altri input, fra cui le risorse materia li. Le preoccupazioni ambientali non dovrebbero però essere legate sola mente ai limiti materiali, ma anche alle relazioni non materiali fra i progetti artistici e il loro ambito territoriale. Il paesaggio, il linguaggio, il dialetto e i sistemi di riferimento culturali devono contare in un modo o in un altro, per i progetti artistici, per quanto astratti e universali. Questa eco-responsabilità induce una qualità nei progetti e nelle politiche culturali percepibile a diversi livelli: in primo luogo, è una misura di valori universali collegati all’ambiente in senso lato. L’impatto culturale sull’ambiente deve essere valutato sulla base di una nuova obiettività. Secondo, la fissazione di benchmark sulla qualità dei collegamenti fra il progetto culturale e il suo ambiente aiuta a collocare in una nuova prospettiva il rapporto fra cultura autoctona e culture eteroctone. Terzo, l’eco-sostenibilità apre una nuova opportunità per collegare i movimenti di consapevolezza ambientalista al rafforzamento dei valori comuni.

b) Memoria
La memoria come valore riguarda la necessità di «decentramento verticale», cioè il tipo di consapevolezza culturale che si estende, non solo orizzontalmente fra diversi paesaggi e territori, ma anche su base verticale. La qualità che la «memoria» porta ai processi umani in generale e ai processi culturali in particolare implica un senso di continuità nella costruzione delle sensibilità e una responsabilità verso il divenire l’anello di una catena, un veicolo attivo fra passato e futuro. Sotto questa prospettiva, il patrimonio culturale è inteso, non tanto come eredità del passato, ma come prestito dal futuro.
Per contro, il valore della memoria riguarda non solo ciò che si col lega agli ambiti locali, ma anche le memorie trapiantate da differenti tradizioni culturali. Queste «radici mobili>) sono portatrici di differenti modalità di memoria e di modi diversi di considerare il valore del tempo e del patrimonio. La qualità della memoria culturale consiste anche nella condivisione di memorie di altre culture che partecipano oggi dello stesso spazio sociale.

c) Diversità
Il pluralismo culturale è un corollario necessario della diversità; esso corrisponde a una qualità della fecondazione incrociata fra diverse modalità culturali o tradizioni estetiche. Ma, questa ibridazione è veramente fruttuosa solamente quando i (partner) mostrano un grado sufficiente di partecipazione egualitaria. La diversità non è il melting pot e può ancor più difficilmente essere il «salad bowl» se il mix è deciso solo da una frazione degli agenti che intervengono. Intendiamo la diversità come un ((lavoro in corso», dal momento che le forme e i movimenti culturali tendono tanto all’uniformità quanto alla differenza, e il movimento fra imitazione, sfida e originalità è spesso non discernibile. La diversità, pertanto, va intesa come una spinta attiva verso la singolarità e verso le condizioni che la rendono possibile. Come valore, la diversità implica un atteggiamento morale a favore di una differenza creativa.

d) Connettività
Le qualità connettive dovrebbero essere contemplate come un bene per le politiche e i progetti culturali per via del loro corollario sulla diversità. Le politiche culturali che non incoraggiano per quanto possibile la connessione fra progetti dello stesso genere non rispettano l’imperativo della fecondazione incrociata nell’esperienza culturale. Tuttavia, la connettività è anche parte integrale della qualità espressiva di qualsiasi pro posta artistica. La spinta a collegare, a comunicare in maniera interattiva è un valore che stabilisce le fondamenta comuni dell’esperienza culturale che appartiene a tutta l’umanità, ma che sottolinea anche l’imperativo della reciprocità. La connettività culturale esige che si stabilisca la reciprocirà nel tempo e nello spazio come parte dell’esperienza del legame umano attraverso le arti. La connettività è anche una esigenza per un vero universalismo e per il cosmopolitismo, dal momento che essa veicola gli elementi della fiducia e della libertà necessari alla crescita di qualsiasi progetto culturale.
La connettività è un valore anche per altre politiche pubbliche, soprattutto per quelle della sfera socio-educativa. Le politiche culturali non possono più essere valutate solo a partire dal loro impatto diretto sui processi creativi, ma vanno esaminate in rapporto al loro impatto su altre politiche che intervengono sullo stesso contesto sociale.
La morfologia della connettività si riflette nell’etica della cooperazione culturale, come un codice di condotta per assicurare la qualità della reciprocità nelle partnership.

e) Creatività
Mettere la creatività al primo posto è uno degli impegni centrali di qualsiasi autentico progetto culturale. La ricerca della qualità creativa è un imperativo per tutte le parti coinvolte in un processo culturale. La creatività è la spinta verso la produzione di nuovi linguaggi espressivi attraverso combinazioni originali di vecchi linguaggi o l’evoluzione in una direzione completamente nuova. Non è sempre evidente quando e dove si verifichino momenti di rottura nelle arti, e le svolte significative non possono essere colte nell’immediato, ma solo a distanza. Inoltre, piccoli processi creativi possono costruire impercettibilmente una massa critica che alla fine travalica le forme culturali esistenti. La creatività nelle arti può raggiungere forme pure, ma le sue qualità si trovano in ogni attività umana. Spesso la creatività nelle arti è fortemente aiutata dalla scienza, dall’educazione o da decisioni politiche come quelle che stanno alla base delle politiche culturali. La creatività è un valore legato a quello della libertà, ed è altrettanto difficile da definire.

f) Autonomia/Sussidiarità/Prossimità
C’è una qualità speciale nei processi culturali che sono completamente determinati loro stessi dai protagonisti, dove nè i mercanti, nè i mecenati, né i funzionari decidono sui contenuti o sulla struttura. Come ogni valore, questo fa parte dei desiderata difficilmente conseguibili. L’autonomia e l’autogoverno accrescono la gamma delle scelte riguardo alla partnership, facilitano un forte impegno nei confronti del progetto culturale ed esaltano la responsabilità culturale. L’autonomia nei progetti culturali è valore importante nella misura in cui essa si riflette nella cooperazione di alto livello necessaria ad impegnarsi, non solo su obiettivi comuni, ma anche sul terreno sociale ed estetico.

g) Solidarietà
L’impatto culturale sull’ambiente sociale viene valutato normalmente con riferimento all’accesso da parte dei gruppi meno privilegiati, ai risultati educativi e alla partecipazione, alle dinamiche sociali avviate dal pro getto. Questa nozione dovrebbe comprendere elementi che pongano il progetto culturale in rapporto ai temi sociali di natura politica o intellettuale di altre comunità o di altri ambienti. La qualità della responsabilità sociale presuppone una consapevolezza nei confronti delle disuguaglianze, e un appello all’equità nella distribuzione del capitale culturale.
Le politiche culturali socialmente responsabili tenderanno a collegarsi ad altre politiche sociali nei campi della salute, dell’occupazione o della educazione. Soprattutto, la responsabilità sociale nelle arti dovrebbe concretizzarsi nella qualità dell’espressione del dibattito sociale. Si dovrebbe stendere una Carta socio-culturale che fornisca le linee guida per l’esercizio della responsabilità sociale nella elaborazione delle politiche della cultura e delle arti.

h) Diritti culturali
Si ritiene che i diritti culturali esistano quando è possibile avviare su di essi una causa in tribunale. I diritti culturali invece esistono anche se non è possibile applicarli. I detentori dei diritti culturali possono essere singoli individui o comunità. I diritti culturali possono esistere solamente come diritti universali e indivisibili. Essi comprendono il diritto a determinate libertà (di espressione, di lingua, di pratica religiosa, di associazione, di adunanza pacifica, di educazione…), il diritto di accesso (ai mezzi di comunicazione, di espressione, ai beni e ai servizi culturali) e la tutela contro l’intolleranza, il razzismo e la xenofobia. La politica culturale deve favorire e sviluppare i diritti culturali così come sono definiti dall’UNESCO, dall’ONU (Convenzione sui diritti sociali, economici e culturali) e dal Consiglio d’Europa. In questo senso, i diritti culturali come valori devono potersi concretizzare in attività e scambi, ma special mente nella formulazione di nuovi progetti.

Questi esempi di elaborazione di politiche e questi criteri di valutazione intendono affermare il bisogno di ricostruire le politiche culturali sulla base di valori piuttosto che di obiettivi. C’è da aspettarsi che questo dibattito, grazie all’impulso delle comunità che sostengono i diritti culturali, ambientali e della solidarietà, farà da battistrada al rinnovamento dello spazio pubblico culturale nel XXI secolo.

Note

1- Marvin Harris, «Theories of Culture», in Post-modern Times, Alta Mira Press, 1999, p. 21.
2- Adam Kuper, Culture, the Anthropologists account,

Eduard_Delgado

2005-11-20T00:00:00




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