Made in Italy/Made in Ilva al Fringe di Edimburgo

Che ci fanno 30 compagnie italiane tra 3000 spettacoli?

Pubblicato il 18/09/2014 / di / ateatro n. 151

Quest’anno al Fringe di Edimburgo la presenza italiana è stata massiccia: una trentina di eventi tra teatro, musica, danza.
Per quello che ho potuto vedere e captare negli ultimi giorni di Festival (molto poco rispetto alla totalità dell’offerta italiana), credo che si possa riconoscere un tratto forte e piuttosto ricorrente nella poetica delle performances presentate, ossia una certa qual ‘afasia’ compensata da un’espressione fisica tendente all’esasperazione. Come se l’assenza o povertà di testo, scarno di parole, cercasse di riempire il vuoto dell’incapacità o l’impossibilità di dire, facendosi carne, sangue, muscoli e sudore in un movimento esagitato del corpo. L’incapacità di dire è quell’impossibilità di fare esperienza che ha ben definito Walter Benjamin riferendosi all’evento traumatico della guerra mondiale; un trauma così grande da far ammutolire, da togliere le parole per definire, per dare un nome a quanto è subito, parole indispensabili per fare esperienza e contenere così la violenza di quello che è vissuto senza alcuna difesa. C’è da chiedersi se questa fisicità così potente in molte espressioni del teatro contemporaneo italiano non sia allora segno di un profondo malessere ancora incapace di farsi parola, di individuare un nemico con cui confrontarsi e contro cui combattere.
Emblema di questa afasia sembra essere uno dei lavori presentati quest’anno al Fringe: Made in Ilva di Instabili Vaganti, dove l’esperienza annientante dell’operaio della fabbrica-scandalo d’Italia può solo essere espressa in un moto esasperato del corpo, quello di Nicola Pianzola da solo in scena, e in una ripetizione ossessiva delle stesse frasi; frasi che non sono di denuncia, ma di fallimento e condanna a una morte che se non è ancora arrivata – come purtroppo abbiamo costantemente notizia da Taranto – si è certi che presto o tardi arriverà.
A Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola ho chiesto di restituirci un po’ dell’atmosfera vissuta a Edimburgo.

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Come si colloca la scelta di partecipare al Fringe rispetto alle altre esperienze in giro per il mondo che avete maturato in dieci anni di attività?

Il Fringe rappresentava per noi un sogno da realizzare. Quando abbiamo fondato la compagnia eravamo appena rientrati dal Festival di Edimburgo dove avevamo lavorato come volontari per una venue e ci eravamo ripromessi, un giorno, di tornare al Festival con un nostro spettacolo. Il nostro desiderio è rimasto assopito in noi per anni, non tanto per l’impossibilità di prendere parte al Fringe ma perché semplicemente non avevamo avuto l’occasione giusta per risvegliarlo. In questi dieci anni di lavoro le nostre esperienze all’estero sono state tante. In Paesi in cui non ci saremmo mai aspettati di andare siamo tornati diverse volte: la Corea, il Messico, l’Iran. Abbiamo sempre costruito i nostri progetti con un respiro internazionale e quando abbiamo ricevuto la telefonata da parte della direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Edimburgo, Stefania del Bravo, che ci invitava a prendere parte alla piattaforma italiana al Fringe, si sono scatenati in noi vecchi ricordi, desideri che abbiamo deciso di seguire, anche un po’ inconsciamente.

Perché la scelta di portare questo spettacolo?

Ci siamo interrogati molto sullo spettacolo da portare al Fringe, abbiamo cercato di capire quale poteva essere la scelta giusta in base al contesto di riferimento e poi abbiamo scelto Made in Ilva per due motivi principali. Il primo e fondamentale è stato quello di poter puntare su uno spettacolo già ampiamente collaudato, con una storia alle spalle, con dei premi ricevuti, che potevano in qualche modo distinguerci dalla moltitudine di spettacoli in programma. Avere qualcosa in grado di farci notare tra gli oltre 3000 spettacoli presentati, e soprattutto, essere pienamente padroni del lavoro artistico che c’è alle spalle dello spettacolo, sono stati sicuramente dei punti a nostro favore. Made in Ilva è stato ospitato in moltissimi contesti, compreso un fringe, quello di Stoccolma, dove aveva già suscitato una certa attenzione della stampa; e poi a Teheran, dove era stato perfettamente compreso nonostante la lingua, insomma sapevamo di poter affrontare il Festival. Il secondo motivo è più di ordine personale. Lo spettacolo parla di una vicenda a me cara, io sono nata e vissuta per vent’anni a Taranto e quindi mi sento di dover portare all’attenzione di quante più persone è possibile la vicenda dell’Ilva.

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Che tipo di intervento/adattamento ha richiesto rispetto al contesto?

Se nelle precedenti date all’estero lo spettacolo era stato fatto in italiano, per un contesto come il Fringe di Edimburgo la traduzione in inglese era quasi d’obbligo. Questa operazione non è stata semplice perché nello spettacolo il testo è utilizzato nella sua funzione musicale e sonora e, cambiando la lingua, anche i ritmi generati dalle parole hanno subito delle variazioni. Così siamo intervenuti anche sulle musiche, che sono parte integrante della drammaturgia. Possiamo insomma dire di aver fatto una vera e propria nuova produzione.

Quali risultati ha portato? Ne siete soddisfatti?

E’ ancora difficile capire quali risultati il Fringe ha portato in modo complessivo, sullo spettacolo, sul nostro lavoro e sulla compagnia. Certamente ci sono dei risultati immediati, raggiunti durante il Festival, come le ottime recensioni sulle più importanti testate inglesi e soprattutto la nomination al Total Theatre Awards, che ha collocato il nostro spettacolo in una rosa di 29 produzioni scelte tra le oltre 3000 in programma. Abbiamo ricevuto diverse richieste da parte di teatri e festival che vorrebbero programmare lo spettacolo in Inghilterra, in Russia, e altri paesi, ma stranamente la prima data si è concretizzata proprio in Italia. Siamo contenti di questo perché è importante per noi che ci sia una ricaduta nel paese in cui viviamo e lavoriamo da anni.

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Come vi siete percepiti nel contesto globale del Festival, sia in termini di estraneità al contesto sia rispetto alle altre presenze italiane? E qual è la particolarità dell’esperienza rispetto ad altri festival?

Il Fringe è completamente diverso dagli altri festival in cui siamo stati. La competizione è fortissima e l’impegno che ognuno deve mettere nella promozione del proprio prodotto, in questo caso lo spettacolo, ti assorbe completamente, lasciandoti poco spazio per capire il contesto generale.
Certo è un luogo in cui tutto può accadere, in cui puoi incontrare persone provenienti da differenti parti del mondo, ma in cui è molto difficile potersi dedicare alle relazioni personali se si deve seguire ogni aspetto del proprio lavoro. Una compagnia indipendente come la nostra, senza una produzione alle spalle, deve affrontare un carico di lavoro enorme che va dal volantinaggio, ai rapporti con la stampa, alla promozione su web, sui social, eccetera, e ovviamente preoccuparsi anche della buona riuscita dello spettacolo. Con gli altri gruppi presenti al Fringe abbiamo cercato, per quanto possibile, di sostenerci a vicenda, di vedere i rispettivi spettacoli, di darci consigli, grazie anche al prezioso lavoro di coordinamento e promozione dell’Istituto Italiano di cultura, che ha creato la piattaforma italiana, e del gruppo che abbiamo personalmente creato innescando una catena di mail condivise tra i partecipanti italiani per tenerci sempre aggiornati sugli sviluppi dei rispettivi spettacoli. Rispetto ad altri festival, quella del Fringe è un’esperienza unica, non esistono altri contesti simili, sia in positivo sia in negativo. E’ la più grande fiera del teatro al mondo, in cui bisogna avere capacità imprenditoriali enormi, ma dove per contrasto può ottenere maggiori risultati una piccolissima produzione indipendente. Secondo me il Fringe è il luogo dei contrasti, dell’impossibile che si realizza, del “tutto può accadere”: spetta agli artisti saperne trarre il meglio.




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