Crisi della democrazia, nuova democrazia e dispositivi comicopolitici

Comico e populismo oltre Beppe Grillo

Pubblicato il 07/07/2019 / di / ateatro n. 169

Il nuovo numero di “Stratagemmi – Prospettive Teatrali” documenta l’incontro “Perché (non) siamo popolo. Discutiamo di populismo”, organizzato da Paolo Giovannetti all’Università IULM in occasione di Bookcity Milano (16 novembre 2018). Dal numero 038-039 [ 2/2018 – 1/2019 ] di “Stratagemmi – Prospettive Teatrali” pubblichiamo il saggio di Oliviero Ponte di Pino

Il comico Beppe Grillo è stato l’efficace strumento di marketing con cui il 26 gennaio 2005 è stata lanciata la piattaforma politica digitale più ambiziosa e discussa della storia, quella del Movimento 5 Stelle, prima con il blog dello stesso Grillo e poi con le successive versioni di Rousseau [1], ideate e gestite da Casaleggio Associati.
E nell’ultimo decennio sono stati gli esperimenti di alcuni teatranti a farci riflettere sulla crisi della democrazia [2] e sulle prospettive della Democrazia 2.0, caratterizzata da meccanismi partecipativi [3], dalla massiccia interazione dei politici sui social, dall’uso sistematico dei big data per la profilazione degli elettori che consente forme di marketing capillare e aggressivo [4]. Senza dimenticare il ruolo dei media nel plasmare la realtà. Il teatro torna a essere strumento di riflessione civile e di educazione alla democrazia, non tanto per i contenuti quanto per i dispositivi [5] messi in atto.
E’ possibile esemplificare questo percorso attraverso performance che rinunciano al meccanismo della rappresentazione e alla tradizionale scatola scenica per creare dispositivi partecipativi, in cui lo spettatore assume un ruolo attivo [6].

L’autore di questo saggio partecipa a Domini Públicin piazza Ganganelli, Santarcangelo.

Capostipite di queste esperienze è Domini Públic (2008) del catalano Roger Bernat [7], un “gioco di società a grandezza naturale” che si svolge in spazi pubblici come piazze e strade. Non ci sono attori, se non un testimone-arbitro muto. Gli “spettattori” – alcune decine – sono dotati di cuffie attraverso cui ricevono le necessarie istruzioni, nella forma algoritmica “se… allora…”, in genere lunghe più o meno come un post su Twitter. I sistemi di regole di questi show interattivi ricordano quelli di un gioco o di uno sport. Sono gli stessi utilizzati anche dalle drammaturgie dei social network, dove peraltro sono in voga quiz e pseudo-quiz come quelli impartiti in alcuni di questi spettacoli e allestimenti (a questa famiglia appartengono anche i test utilizzatati da aziende di profilazione come Cambridge Analytica) [8]. Anche i social network sono gestiti da registi-drammaturghi (gli sviluppatori), che decidono le regole dell’interazione e costruiscono la piattaforma tecnologica che può supportarle [9].
Gli spettattori di Domini Públic interagiscono sulla base di regole predeterminate: alcune esplicite, altre implicite perché imposte dai vincoli “tecnici” della struttura. In contesti così stratificati si delineano diversi livelli di consapevolezza. I passanti, come la maggioranza degli internauti che assistono passivamente a quello che accade in rete senza produrre contenuti, hanno un accesso parziale al sistema: non conoscono le regole del gioco, che possono solo intuire (o meglio dedurre), curiosando nella porzione “pubblica” e aperta del social network.
Gli spettattori di Domini Públic costituiscono un campione sociologico, che viene sezionato e ricomposto attraverso una serie di domande che ricordano quelle di un sondaggio o di un’indagine di mercato e determinano una serie di movimenti e gesti

“Chi ha figli vada verso sinistra, chi non ne ha vada a destra.”
“Chi è laureato alzi il pugno.”

Il moto browniano dello sciame offre agli spettattori (e al Grande Fratello che li governa) informazioni statistiche di cui loro stessi non erano consapevoli. Nella parte centrale dell’esperienza, i partecipanti si dividono in tre gruppi, caratterizzati da pettorine di diversi colori: i rivoltosi, la polizia e la Croce Rossa mimano la rivolta e la repressione, sulla base delle istruzioni che ricevono in cuffia. Per il passante che, nello spazio pubblico, s’imbatte per caso in queste azioni, è difficile capire di che cosa si tratti: se di un fatto vero o finzione, o magari qualcuno pensa a una candid camera o a uno strano reality… Anche per gli spettattori è difficile indovinare come le loro azioni potranno essere interpretate da quel pubblico casuale e “innocente”, se l’intenzione del loro gesto corrisponderà all’interpretazione di chi li osserva, con sguardo distratto o curioso [10].
Siamo oltre i meccanismi partecipativi di spettacoli-festa come l’Orlando furioso (1969) di Luca Ronconi o 1789 (1970) di Ariane Mnouchkine, ma siamo anche lontani dal coinvolgimento liberatorio degli happening o di Paradise Now! (1968) del Living Theatre. Il gioco si è fatto più sottile, richiede una partecipazione ironica – in fondo è solo teatro, e la finzione prima o poi finisce – che però mette in causa il corpo e l’immagine pubblica dello spettattore.
Verso il finale, le domande salgono a un livello logico superiore e spingono a riflettere sull’esperienza appena vissuta: “Credi che la sottomissione sia una forma di libertà?” oppure “Hai sempre risposto correttamente?” L’ultima sequenza vede l’intero gruppo di spettattori entrare in uno spazio chiuso, dove è possibile vedere raddoppiate e miniaturizzate in centinaia di pupazzetti alti pochi centimetri le figure che hanno animato l’intera performance: i poliziotti, le ambulanze, i manifestanti… Il gioco della partecipazione viene raggelato e oggettivato in una forma ironicamente rappresentativa [11].

In Pendiente de Voto (2012) lo stesso Bernat (con la drammaturgia di Roberto Fratini) chiede agli spettattori di rispondere a una sequenza di domande utilizzando un telecomando. I risultati di ogni votazione vengono via via pubblicati su uno schermo visibile a tutti. La sala si trasforma in un piccolo parlamento, che in una delle prime votazioni può decidere se dichiarare la propria indipendenza: a quel punto il microstato deve dotarsi di una forma di autogoverno. In un sintetico processo costituzionale, vengono affrontate questioni come l’obbligatorietà del voto, il rapporto tra maggioranza e minoranza, il destino di chi non accetta le regole democratiche, il diritto alla ribellione (o alla rivoluzione). Ma viene chiesto di esprimersi anche su questioni come l’accoglienza degli stranieri, la sicurezza, l’aborto, le tasse di successione. Non manca una dimensione in apparenza ludica, che porta a raccogliere ulteriori informazioni: nella sequenza degli ordini del giorno sono inserite domande (in apparenza) frivole:

“Beatles o Rolling Stones?”
“Vorreste veder nevicare in questa sala?”

Nella seconda parte del gioco, si vota per coppie: i posti vengono assegnati tenendo conto che esistono i conformisti, ovvero coloro che si sono schierati più spesso con la maggioranza, ma ci sono anche quelli che si sono schierati in genere con le minoranze, e chi la scelto di astenersi spesso. Le domande ora vertono anche su temi etici:

“Ami Dio più di ogni altra cosa?”
“Sei disposto a uccidere?”

Viene introdotta la possibilità di dibattere sulle questioni proposte, per esempio:

“La sanità pubblica dovrebbe garantire la gratuità della circoncisione per motivi religiosi?”

Nella terza parte, sempre sulla base delle votazioni precedenti e riposizionando gli spettatori, vengono formati alcuni partiti: grandi, piccoli e medi. Solo i leader di partito hanno diritto di voto, solo il portavoce ha diritto di parola (dopo aver consultato il gruppo). Finché il controllo dell’intera sala non viene preso dal Rappresentante Unico, prima di un finale a sorpresa [12].
L’algoritmo che governa Pendiente de Voto ricorda quelli dei social media e dei motori di ricerca: è un potere esterno, invisibile e dunque indiscutibile, che utilizza un meccanismo segreto al quale i giocatori si adeguano spensieratamente. Questo Grande Fratello raccoglie e inserisce nei suoi database tutte le informazioni che gli forniamo (e che magari noi stessi non memorizziamo, anche se ci riguardano) e utilizza i big data per i suoi obiettivi.

Oltre che i meccanismi della politica, i dispositivi performativi ludici permettono di esplorare anche le procedure giudiziarie. In collaborazione con Yan Duyvendak, Bernat, ha ideato Please, Continue (Hamlet) (2011), che nel titolo riprende il mantra ripetuto al prigioniero da chi lo interroga. Alla base del lavoro, che si muove all’intersezione tra realtà e finzione con un abile mix di citazioni, di meccanismi meta-teatrali e di effetti di reale [13], c’è un “vero” episodio di cronaca nera in un palazzo di periferia, che nella dinamica ricorda l’uccisione di Polonio da parte di Amleto. Nel testo di Shakespeare il delitto restava impunito. Please, Continue (Hamlet) è il processo per l’omicidio di Polonio che nel castello Elsinore non è mai stato istruito.
Sul versante della finzione, ci sono tre attori. A loro tocca interpretare i ruoli dell’imputato Amleto, della parte civile Ofelia e della testimone Gertrude. Per calarsi nei panni dei tre personaggi, i tre attori hanno ricostruito la vicenda nei dettagli, memorizzando spazi e gesti, in modo da costruire una memoria dell’evento a cui attingere durante il processo. Sul versante della realtà, ci sono gli altri “attori” della pièce: il giudice e il cancelliere, il pubblico ministero, l’avvocato di parte civile e l’avvocato difensore, più il perito psichiatra. In ogni città vengono coinvolti avvocati e magistrati del foro locale (eventualmente in pensione), ogni sera diversi. Sono professionisti che esercitano la loro “vera” funzione: non devono recitare, ma svolgere il loro lavoro come lo farebbero in un’aula di tribunale. A tutti costoro la produzione consegna con qualche giorno d’anticipo un dossier con gli atti dell’inchiesta: il rapporto della polizia, il verbali degli interrogatori, l’esame dell’anatomopatologo sul cadavere della vittima, eccetera. Il perito può esaminare l’attore-Amleto per stendere la perizia psichiatrica, che viene inserita nel fascicolo (il perito viene peraltro sentito nel corso dell’udienza).
Non esiste un copione da interpretare, con le battute definite a priori: è piuttosto un format, una cornice all’interno della quale “giocare” i propri ruoli. Il processo-spettacolo non segue esattamente il Codice di Procedura Penale. Il dibattimento è concentrato in tre ore, i tempi per gli interrogatori e le arringhe sono contingentati. I sei giudici popolari non vengono nominati all’inizio del dibattimento (come avverrebbe in un regolare processo), ma vengono scelti tra gli spettatori appena prima della camera di consiglio. Lungo tutto il dibattimento qualunque spettatore sa – e teme – di poter essere chiamato a giudicare Amleto: questa possibilità viene enfatizzata dal fatto che all’inizio della serata ogni spettatore riceve un taccuino su cui prendere gli appunti da utilizzare in camera di consiglio. Devono giudicare a partire da quello che hanno appena visto, e forse da un qualche personale pregiudizio sul Pallido Principe.

Please, Continue (Hamlet)

Magistrati e avvocati costruiscono il loro script a partire agli atti di cui dispongono, e devono tener conto delle risposte imprevedibili dei tre attori e delle altre parti. Come accade in un processo, dove ci sono le procedure e gli atti istruttori, ma ciascuna parte sceglie la propria strategia. Gli attori non conoscono le domande che verranno rivolte loro da magistrati e avvocati, e dunque improvvisano a partire dalla “memoria” della scena del delitto, ma anche – per riempire eventuali “buchi” e garantire la verosimiglianza del processo – dal loro vissuto, che interferisce sulla loro interpretazione e dunque sull’andamento del processo.
Nel corso delle repliche, l’imputato Amleto ha affrontato decine di processi in diversi paesi, obbligando ogni volta il pubblico a riflettere sulla complessità del personaggio e sulla sua vera o presunta follia (che è però anche la nostra, se ci immedesimiamo in lui). Ma Please, Continue (Hamlet) ci interroga prima di tutto su cosa intendiamo per realtà, oltre che sui meccanismi della giustizia e del processo penale. Il fatto è sempre lo stesso, le prove sono identiche tutte le sere, ma in base al giudice e ai giurati (scelti tra gli spettatori), oltre che alla bravura di pubblici ministeri e avvocati, la sentenza può essere ribaltata. L’accusa può chiedere dodici anni per omicidio volontario, oppure optare per l’omicidio colposo. La corte può assecondarla, o arrivare all’assoluzione perché il reato non sussiste.

In alcune circostanze a prevalere è l’aspetto ludico, anche se – grazie alla raccolta di informazioni e alla loro pubblicazione – i partecipanti costituiscono un effimero embrione di “comunità riflessiva” [14]: a partire dalla loro esperienza (attività di ricerca e discussione) pubblicano e diffondono contenuti fruibili a tutti. Europa a Domicilio / Home Visit Europe (2015) del collettivo Rimini Protokoll [15] è un gioco di ruolo che si muove su diversi piani: diffondere informazioni e consapevolezza sui meccanismi che regolano l’Unione Europea, e al contempo raccogliere pareri e sentiment attraverso un sondaggio che coinvolge chi partecipa all’esperienza [16]. La performance si svolge in case private, con i quindici spettattori seduti intorno a un grande tavolo e muniti di uno smartphone con la App del gioco.
La tovaglia è una grande mappa dell’Europa, sulla quale i concorrenti segnalano all’inizio il proprio luogo d’origine, ma anche la città in cui desidererebbero vivere. Le istruzioni per il gioco arrivano da una piccola stampante, gestita in remoto da un misterioso, invisibile potere (che si immagina a Bruxelles o Strasburgo) e applicate in locale da un “maestro di cerimonie” che vigila sulla loro corretta implementazione.
Le coppie di spettattori sono in competizione tra loro: devono rispondere a vari quiz di “cultura politica europea”, ma anche prendere decisioni secondo meccanismi che ricalcano quelli degli organismi comunitari, in “coopetizione” con i rivali. Mentre si svolge la partita, nel forno di casa cuoce una torta, che verrà ironicamente e dolcemente decorata con la piantina dell’Europa. I partecipanti riceveranno una fetta di questa “torta Europa” proporzionata al loro punteggio nella classifica finale.

E’ anche possibile immaginare dispositivi spettacolari che aumentino la consapevolezza e inneschino pratiche politiche, come in Actions (2018). Yan Duyvendak, con Nicolas Cilins e Nataly Sugnaux Hernandez, parte dal presupposto che una efficace politica di integrazione deve coinvolgere diversi soggetti e “implica una stretta collaborazione tra lo Stato, le associazioni e la società civile. Si tratta di trovare nuove modalità di scambio e di dialogo tra i servizi necessari e il coinvolgimento personale dei rifugiati/richiedenti nella costruzione di un nuovo percorso di vita” [17]. I soggetti – gli stakeholders – vengono coinvolti in un’assemblea pubblica intorno a una “Pressing Issue”, un tema caldo o un’urgenza condivisa. Attraverso una serie interviste preliminari (in cui viene chiesto ai partecipanti di indicare le loro “azioni e inazioni, esperienze, competenze e limiti, bisogni specifici”) e alcune prove, si mette a punto un copione. Durante la serata devono essere messi sul tavolo bisogni ed emergenze: ai membri della comunità che si è così formata viene chiesto di impegnarsi per raggiungere gli obiettivi condivisi.

The Money (2013) degli inglesi Kaleider utilizza regole ancora più semplici per generare eventi complessi. Anche qui non ci sono attori, a parte una guida che interviene brevemente all’inizio e alla fine del gioco. I 15 spettattori hanno a disposizione una somma di denaro da spendere: i 10 euro (minimo) che ciascuno di loro ha messo sul piatto per partecipare, come in un gioco d’azzardo, più eventuali somme non assegnate nelle repliche precedenti (come in certi quiz radio-televisivi). Lo scenario ideale è la sala del consiglio comunale della città che ospita l’evento: la prima di The Money è stata ospitata nella Guildhall di Exeter, la città britannica dove ha sede il gruppo.
I Giocatori seduti intorno al tavolo hanno esattamente sessanta minuti per decidere a chi assegnare il denaro, con alcune limitazioni: la somma non può essere divisa (per esempio pro quota ai 15 giocatori) e non può essere devoluta a un’associazione benefica. Inoltre i 15 Giocatori devono delegare uno di loro a spendere il denaro, come stabilito durante l’ora di gioco, entro una certa data. I Testimoni Silenziosi (diverse decine) non partecipano al gioco, ma in qualunque momento chiunque di loro può sedersi al tavolo, pagando la quota di almeno 10 euro (così come in qualunque momento un Giocatore può abbandonare il tavolo centrale e diventare Testimone Silenzioso). Un’ultima clausola: il contratto è valido solo se porta la firma di tutti i Giocatori, all’unanimità. Per giungere a una decisione valida sono necessarie progettualità e senso pratico, ma anche la creazione di una volontà comune. In quei sessanta minuti densi di discussioni (e conditi di battute e provocazioni) emergono le difficoltà del processo deliberativo, che mette in gioco la fiducia reciproca e le responsabilità individuali e di gruppo. Tra thriller e farsa (ma il denaro è vero), si affronta una discussione sui valori: non in termini astratti o ideologici, ma scontrandosi con la concretezza di un problema o di un’opportunità. Come è possibile assegnare una somma di denaro? Deve servire per sé o per gli altri? Oggi o nel futuro?

A Bologna Tania Bruguera ha portato una tornata del suo Referendum.[18] L’artista e attivista cubana ha convocato attraverso “bacheche urbane, interventi radiofonici, volantinaggio, postazioni nei teatri, centri culturali, circoli sociali” una serie di incontri, in vista di “un dibattito pubblico e militante” con “realtà attive sul territorio, attivisti, figure impegnate nell’accoglienza, cittadini”. A partire dalla domanda “I confini uccidono, dovremmo abolire i confini?”, per dieci giorni gli abitanti di Bologna hanno potuto “votare in diversi punti della città mentre un tabellone segnava i risultati giornalieri delle votazioni, rendendo visibile la risposta urbana alla domanda e monitorando l’orizzonte di scelta dei partecipanti”. Risultato finale dello spoglio, celebrato con una festa conclusiva: 2030 Sì, 489 No.

Dopo aver lanciato progetti come Immigrant Movement International, Partido del Pueblo Migrante, e School of Integration, nell’ottobre 2017 Tania Bruguera si è candidata alle elezioni presidenziali, pubblicando un video #YoMePropongo en Cuba, nel quale sfidava i cittadini a immaginare un futuro migliore per il paese, nel caso fossero stati nominati presidente. Ha ricevuto decine di video nei quali i candidati proponevano riforme per ridurre la corruzione, offrire case a prezzi abbordabili e migliorare l’economia.[19]
Sul Referendum, già realizzato tra l’altro a San Francisco, Toronto e New York, Bruguera ha dichiarato che

“l’idea è quella di usare la stessa piattaforma impiegata in ambito politico, ma senza la pressione politica del voto. Questo perché spesso, quando le persone vanno a votare, non scelgono i loro candidati ideali. In questo caso, invece, si tratta di votare per sé stessi, senza alcuna conseguenza legale, in quanto non si sta discutendo una nuova legge che entrerà in vigore: si viene chiamati ad essere onesti con sé stessi. Siamo rimasti sorpresi, in alcuni luoghi, nell’osservare che le differenze in termini di voto non fossero troppo distanti l’una dall’altra. Come, per esempio, a New York; si potrebbe pensare che la città sia molto aperta e accogliente nei confronti dei migranti, invece il risultato della campagna referendaria ha mostrato dei numeri molto vicini in termini di preferenze, rispecchiando i sentimenti della collettività.” [20]

Gli spettatori possono anche essere sequestrati in un teatro, come era accaduto a Mosca nel tragico caso del Teatro Dubrovka tra il 23 e il 26 ottobre 2002 [21]. L’idea è venuta ai berlinesi Gob Squad, con Revolution Now! (2010), anche se il programmatico titolo alla fine risulta velleitario o ironico [22]. In uno scenario storico come quello attuale, carico di tensioni a causa della crisi economica, mentre all’esterno – almeno così si dice, come nel Balcon di Genet – imperversano i saccheggi nei negozi del centro, un gruppo rivoluzionario insedia il proprio quartier generale in teatro. Attraverso canti, proclami, slogan, il commando cerca di coinvolgere gli spettatori per indirizzarli verso una maggiore consapevolezza politica e un’azione insurrezionale:

“E’ il momento giusto per una rivoluzione? Qui e ora? Non viviamo un po’ troppo comodamente per ribellarci? Siamo pronti a sacrificarci per la causa? Noi, e il modo in cui viviamo, siamo parte del problema o della soluzione? E il significato della parola ‘rivoluzionario’ non si è sbiadito, dal momento che lo usiamo per vendere qualunque cosa, dalle boy bands alle caramelle alla nicotina ai detersivi per il cesso?”

Anche in questo caso l’obiettivo è individuare il Rappresentate del Popolo che possa parlare a nome di tutti. Ma l’azione non resta confinata in teatro: attraverso una telecamera, la sala ha un occhio sullo spazio esterno antistante il teatro, dove altri attori cercano di convincere alcuni passanti a fare irruzione sulla scena, come una folla di rivoltosi in un quadro ottocentesco.

Gli spettacoli di Milo Rau continuano invece a utilizzare un dispositivo tradizionale, con il pubblico disposto frontalmente di fronte (o intorno) allo spazio scenico o davanti a uno schermo, ma superando e mettendo in crisi le tradizionali modalità di rappresentazione del reale e in particolare della violenza, con il suo mostruoso fascino mediatico. Il regista rivendica la dimensione politica del proprio lavoro fin dall’insegna del suo International Institute of Political Murder, che mette l’enfasi sul suo lato oscuro e sulla criminalità del potere. Uno dei principali fili rossi del suo progetto è la frizione tra la realtà (che si tratti di un evento storico o di un fatto di cronaca), la finzione teatrale e la realtà mediata dal cinema o dal video, con immagini registrate o riprodotte dal vivo, con attori che entrano ed escono dalla parte, che esibiscono od occultano il loro vissuto [23]. A rendere evidente e insieme straniante il meccanismo sono gli effetti di reale e gli effetti di presenza che Milo Rau utilizza con intelligenza provocatoria e le domande che si pone sulla rappresentabilità della violenza.

ph Zeno Graton

Hate Radio (2011) è dedicato ai massacri del Ruanda, e per la precisione alla stazione radiofonica che scatenò l’ondata di violenza che portò al genocidio di centinaia di migliaia di Tutsi, soprattutto a colpi di machete, in poco più di 100 giorni: 800.000-1.000.000 vittime tra il 6 aprile e la metà del luglio 1994. Ad aprire lo spettacolo sono le testimonianze di alcuni scampati al massacro, proiettate in video su pannelli che poi si aprono sulla riproduzione iperrealistica dello studio e della cabina di regia della famigerata Radio des Milles Collines. I corpi e le voci dei testimoni, ma registrati e mediati dal video, lasciano spazio alla finzione del qui e ora teatrale. Quella che viene meticolosamente riprodotta dagli attori è un’ora di trasmissione condotta da tre estremisti Hutu e dall’italo-belga Georges Ruggiu, a base di canzonette e incitamento all’odio, paura e aggressività, battute razziste, cronache di massacri e fake news, in un’agghiacciante esemplificazione del ruolo e delle responsabilità dei media.

Ph: Thomas Müller

In Breiviks Statement (2012) l’attrice Sascha Ö. Soydan recita la dichiarazione di Anders Breivik, il neonazista norvegese che il 22 luglio 2011 a Oslo e sull’Isola di Utoya uccise 77 di persone, in maggioranza giovani socialdemocratici che partecipavano a un campo estivo. 2083: Una dichiarazione europea d’indipendenza di Anders Breivik era stato letta dall’autore [25] il 17 aprile 2012 in un’aula di tribunale, nel corso di un processo per strage: si tratta dunque di un atto giudiziario, di un documento storico. Ma quel frammento di realtà viene spostato in una dimensione performativa, sul piano della finzione. Breivik credeva nelle tesi aberranti che esponeva, l’attrice che pronuncia quelle parole presumibilmente (e sperabilmente) no [26].
Per il lungometraggio The Moscow Trials (2014) il regista e la sua équipe hanno ricostruito nel marzo 2013 un’aula di tribunale dove mettere in scena nell’arco di tre giorni il processo contro alcuni artisti dissidenti colpevoli di aver organizzato nel 2003 la mostra d’arte contemporanea Attenzione! Religione, e contro le Pussy Riot, condannate a tre anni di reclusione per la loro irruzione del 17 febbraio 2012 nella Cattedrale di Cristo Salvatore, a Mosca, durante una cerimonia religiosa, per cantare una preghiera punk con il ritornello “Madonna, liberaci da Putin”. Rau ha convocato presso il Sacharov Centre di Mosca sia gli artisti perseguitati sia i loro avversari, appartenenti alla destra religiosa e politica, e ha filmato il procedimento. A dare ulteriore “effetto di reale”, le proteste e le intimidazioni di un (vero) gruppo di cosacchi contrari all’operazione e l’irruzione delle forze di polizia per interrompere la performance, provocando uno scandalo internazionale [27].
In Empire (2016) cinque attori di diverse nazionalità raccontano frammenti della loro autobiografia, segnata dall’esilio. Emergono i drammi della storia contemporanea, dalla Siria, dalla Grecia e dalla Romania, ma rivissute da cinque attori, e dunque da cinque sacerdoti della finzione, che proprio attraverso il teatro cercano di arrivare non tanto alla realtà storica, ma a una verità umana e dunque condivisibile. Anche in questo caso Milo Rau utilizza una delle sue figure retoriche ricorrenti: la recitazione live e in primo piano degli attori viene doppiata in diretta sullo schermo, in una continua frizione tra il reale e la sua riproduzione. Questo meccanismo è alla base anche di The Repetition (2018), che ricostruisce il brutale omicidio di Ihsane Jarfi, un giovane di Liegi, nell’aprile 2012. Questa “inchiesta teatrale” parte da un truce episodio di omofobia, da un fatto di cronaca apparentemente marginale, per indagare la dimensione tragica del teatro, dall’antica Grecia a oggi.

Milo Rau, Five Easy Pieces

Milo Rau, Five Easy Pieces

Five Easy Pieces (2016) ripercorre il “caso Dutroux”, il pedofilo e serial killer che imperversò a lungo in Belgio, forse con qualche complicità nelle alte sfere [24]. L’agghiacciante effetto di verità è determinato dal fatto che a rivivere sulla scena i diversi episodi della vicenda sono cinque bambini, ovvero le vittime designate del killer, impersonato però da un adulto, l’attore che governa l’intero meccanismo come regista in scena. Anche in questo caso si sovrappongono diversi livelli di realtà: alcune scene sono pre-registrate con attori adulti, ci sono materiali di repertorio, a volte la scena diventa un piccolo set e anche queste immagini vengono proiettate su uno schermo…
Tra il 3 e il 5 novembre 2017, alla Schaubühne di Berlino, Milo Rau e lo IIPM hanno convocato una General Assembly | Weltparlament | Assemblée générale [28], ovvero il “primo parlamento della storia dell’umanità”, con delegati da 60 paesi. L’obiettivo politico era mettere alla prova il governo della Repubblica Federale Tedesca facendogli sentire il parere di coloro che subiscono gli effetti della politica economica ed estera tedesca, ma non hanno voce in capitolo.
La dimensione politica del teatro di Milo Rau, prima che dai drammatici temi trattati e delle atrocità che denuncia, viene dalla stratificazione di diversi livelli di realtà, dalle faglie che li attraversano e dal loro impatto sul nostro immaginario. Se oggi per noi la realtà è un fantasma immaginario plasmato dai media, diventa necessario di decostruire il meccanismo con cui questa realtà immaginaria viene costruita. Milo Rau intreccia il “qui e ora” dell’evento teatrale, il rimando al reale (il fatto di cronaca o l’episodio storico su cui è centrata l’indagine), la riproduzione filmica o video, in diretta o registrata. Come nota Hans-Thies Lehmann, i media non cancellano l’effetto di presenza, ma ne declinano ulteriormente le possibilità [29]. Si tratta di una declinazione mediatica e post-moderna dell’effetto di straniamento (Verfremdungseffekt) brechtiano. Non vengono messi a confronto due “segni” contrastanti (la donna in lacrime cui si affianca il clown che la imita beffardamente, come in Brecht), ma due modalità di rappresentazione dello stesso evento, oppure la rappresentazione di un evento con effetti di reale che ne mettono in discussione lo statuto e il senso. L’obiettivo di Brecht e di Rau è lo stesso: indurre lo spettatore a dubitare di ciò che vede, e dunque trascendere l’adesione emotiva per porsi delle domande e mettere in dubbio i luoghi comuni di cui è portatore.

Beppe Grillo non è certo la causa della crisi della democrazia rappresentativa. Caso mai, il suo successo è il sintomo inquietante di una profonda trasformazione, determinata anche dall’impatto dei nuovi media. Con l’avvento delle nuove tecnologie digitali, si sperava “che i computer potessero – e dovessero – servire per migliorare la vita dell’essere umano, soprattutto in rapporto alla società nella quale l’individuo si trova ad agire”, portando “l’umanità intera al godimento di livelli di libertà e di eguaglianza sociale mai sperimentati prima” [30]. Era l’utopia di wikipedia e dell’“uno vale uno”, presto travolta dall’era della post-verità e dei team di professionisti della propaganda elettorale attraverso i big data e i social media. Questa svolta sta mettendo a dura prova la tenuta della tradizionale democrazia rappresentativa, portando a diverse forme di populismo.
Le nuove tecnologie, con tutte le opportunità che implicano, avrebbero potuto aprire occasioni di emancipazione attraverso nuove forme politiche, o rinnovando le forme tradizionali in chiave non esclusivamente propagandistica. Le forme di teatro partecipato si interrogano sui meccanismi della democrazia, che si fonda su elementi dati per scontati e in realtà fragili. Mettono in discussione i tradizionali meccanismi di rappresentazione lungo due direttrici. Da un lato tendono ad abolire la distinzione tra scena e platea, e tra attore e spettatore. Affidano dunque allo spettattore un ruolo attivo, all’interno di un dispositivo determinato da alcune regole. La gamification del dispositivo teatrale riflette peraltro una tendenza di carattere più generale. Dall’altro lato, smontano e rimontano la nostra percezione mettendo in frizione diversi livelli di realtà: il reale e la sua riproduzione video, il passato e il presente (la diretta e l’archivio), i corpi degli attori e le loro immagini virtuali, la proiezione nell’immaginario.
La partecipazione all’evento teatrale può essere una forma di educazione alla democrazia. Lo è stato nell’antica Grecia, ad Atene, quando il teatro era un mass medium e ai giochi tragici assisteva l’intera cittadinanza[31]. Le moderne esperienze partecipative raccolgono ogni volta qualche decina di cittadini: un’inezia, di fronte alla platee di miliardi di utenti per Facebook o Youtube. Tuttavia possono forse costituire anticorpi contro le illusioni (o le scorciatoie) della democrazia diretta, micro-tecnologie di contropotere che lavorano sull’effetto presenza, ma sui corpi degli spettattori.

NOTE

[1] Per una sintetica ricostruzione del rapporto tra Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle e sul loro impatto nella politica italiana, vedi Oliviero Ponte di Pino, Comico & politico. Beppe Grillo e la crisi della democrazia, Cortina, Milano 2014. Il rapporto tra le arti e i nuovi populismi (allora emergenti) è stato oggetto del convegno Addressing each and every one: Popularisation/populism through the visual arts, ospitato dalla Justus-Liebig-Universität di Giessen il 21 e 22 aprile 2016; per ulteriori informazioni vedi Oliviero Ponte di Pino, Populismi per il XXI secolo, in Doppiozero, 21 giugno 2016, alle pagine https://www.doppiozero.com/materiali/populismi-il-xxi-secolo-i-parte e https://www.doppiozero.com/materiali/populismi-il-xxi-secolo-ii-parte.
[2] Per un sommario aggiornamento bibliografico sulla crisi della democrazia, vedi Oliviero Ponte di Pino, La democrazia: governo della crisi o modello in crisi?, in Doppiozero, 10 giugno 2018, alla pagina https://www.doppiozero.com/materiali/la-democrazia-governo-della-crisi-o-modello-in-crisi.
[3] Sull’arte partecipativa, vedi in primo luogo Claire Bishop, Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa (2012), Sossella, Roma, 2015. Vedi anche Claire Bishop (ed.), Participation, Documents of Contemporary Art, Whitechapel Gallery, London – MIT, Cambridge (Mass.), 2006; Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale (2008), postmediabooks, Milano, 2012; Pablo Helguera, Education for Socially Engaged Art. A Materials and Techniques Handbook, Jorge Pinto Books, New York, 2011; Shannon Jackson, Social Works. Performing Arts, Supporting Publics, Routledge, New York and London, 2011; Grant H. Kester, The One and the Many. Contemporary Collaborative Art in a Global Context, Duke University Press, Durham and London, 2011; Jacques Rancière, Le Spectateur Emancipé, La Fabrique, 2008; Nato Thompson (ed.), Living as Form. Socially Engaged Art from 1991-2011, Creative Time Books, New York – The MIT Press, Cambridge (Mass.) and London, 2012.
[4] Vedi Giovanni Ziccardi, Tecnologie per il potere. Come usare i social network in politica, Cortina, Milano, 2019.
[5] Sul concetto di dispositivo, vedi Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1976), Einaudi, Torino, 1977; Jacques Derrida, Che cos’è un dispositivo? (1989), Cronopio, Napoli, 2007; Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, nottetempo, Roma, 2006.
[6] Molti di questi lavori, programmati nei maggiori festival internazionali, sono stati ospitati a Milano da Zona K: sul sito http://www.zonak.it/ è disponibile materiale in italiano. Particolarmente interessante anche l’edizione 2010 del Festival di Santarcangelo a cura di Enrico Casagrande, uno dei leader dei Motus.
[7] Vedi il sito http://rogerbernat.info/ e lo spettacolo To be or not to be Roger Bernat (2016) con Marco Cavalcoli.
[8] Sul caso Cambridge Analytica, vedi Giovanni Ziccardi, Tecnologie per il potere, cit., pp. 111-122.
[9] Vedi Giulia Alonzo e Oliviero Ponte di Pino, Dioniso e la nuvola. L’informazione e la critica teatrale in rete: nuovi sguardi, nuove forme, nuovi pubblici, FrancoAngeli, Milano, 2017, pp. 167-171.
[10] Capostipite e modello di questi dispositivi spettacolari intermediali resta Andy Warhol’s Last Love (1978), allestito dallo Squat Theatre a New York nella vetrina di un negozio della 23rd Street.
[11] La dialettica tra il reale e la sua rappresentazione teatrale attraverso centinaia di figurine di questo genere è al centro della poetica di Agrupación Señor Serrano. Uno dei loro lavori, A House in Asia (2014), mette a confronto in un paradossale cortocircuito tra reale e immaginario le tre copie del compound che ospitava Osama Bin Laden quando venne ucciso da un commando USA: l’edificio dove effettivamente abitava il leader di Al Qaeda ad Abbottabad (Pakistan), la copia dell’edificio in cui si allenò il commando dei Navy Seals nella base militare di Harvey Point, nel North Carolina; e quella costruita dalla Columbia Pictures in Giordania, vicino al Mar Morto, e che venne utilizzata come scenografia del film di Kathryn Bigelow Zero Dark Thirty (2012). A queste va aggiunta una quarta “casa in Asia”, il modellino utilizzato nello spettacolo.
[12] E’ possibile vedere i risultati delle diverse sessioni, dal 2012 a oggi, alla pagina http://rogerbernat.info/en-gira/parlamento-titulo-de-trabajo-proyecto-2012/resultados-pendiente-de-voto/.
[13] L’espressione “effetto di reale” è stata magistralmente utilizzata in ambito letterario da Roland Barthes in “L’effetto di reale”, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino, 1988, p. 158; in ambito performativo, con l’espressione faccio riferimento all’uso consapevole di frammenti di realtà per contaminare, mettere in discussione o trascendere il statuto finzionale dell’evento: può trattarsi di caratteristiche fisiche, sociali o psicologiche dei performer (spesso non professionisti), della presenza di animali o di bambini (notoriamente meno “controllabili” di un attore), di elementi autobiografici introdotti nella narrazione, di alimenti da consumare eventualmente con il pubblico, dell’inserimento della casualità, dell’imprevedibilità e del rischio, del ricorso documenti e oggetti ostentatamente “reali”, di aperture a spazi dove continua a scorrere la vita quotidiana…
[14] Sul concetto di “comunità riflessiva” vedi Giovanni Boccia Artieri, Stati di connessione. Pubblici, cittadini e consumatori nella (Social) Network Society, FrancoAngeli, Milano, 2012.
[15] Maggiori informazioni sul sito https://www.rimini-protokoll.de/website/de/.
[16] I risultati delle diverse “visite” sono raccolti nel sito http://www.homevisiteurope.org. Le domande del sondaggio di Europa Domicilio / Home Visit Europe pubblicate sul sito:
* Quante persone vivono in questo appartamento/casa?
* Chi a questo tavolo è stato rappresentante di classe o portavoce a scuola?
* Qualcuno qui è mai stato, o è, membro di un partito politico?
* Chi fa parte di un’associazione o di una ONG (Organizzazione Non Governativa)?
* Chi a questo tavolo ha un lavoro di cui riesce a vivere?
* Lavori spesso in un paese diverso da quello in cui vivi?
* Negli ultimi dieci anni, chi ha fatto a botte?
* Chi ha mai mentito sulla sua nazionalità?
* Chi si sente più europeo che cittadino del proprio paese?
* Chi ha paura del futuro?
* Chi pensa che le persone a questo tavolo siano affidabili?
* Durata del silenzio (in secondi) (il risultato di una delle prove del gioco, nd.d.r,):
* Quanti contanti avete con voi?
[17] Vedi il sito https://www.actionsproject.org/.
[18] Dal 1 al 10 marzo 2019, nell’ambito del progetto Atlas of Transitions Biennale, programma di eventi promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione.
[19] Vedi Hans-Ulrich Obrist on Why We Need Artists in Politics, alla pagina https://www.artsy.net/article/artsy-editorial-hans-ulrich-obrist-artists-politics consultata il 30 luglio 2019.
[20] Ginevra Ludovici, Conversazione con Tania Bruguera in occasione di Atlas of Transitions Biennale, alla pagina http://formeuniche.org/tania-bruguera-atlas-of-transitions/ consultata il 30 luglio 2019.
[21] L’azione, organizzata da un gruppo di militanti separatisti armati che chiedevano il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia e la fine della seconda guerra cecena, si concluse con l’irruzione delle forze speciali russe Specnaz; durante l’assalto, nel quale venne utilizzato un misterioso agente chimico, morirono 130 ostaggi e 39 combattenti (ma secondo alcune stime le vittime civili furono più di 200), con circa 700 feriti.
[22] Lo spettacolo è stato portato a Milano, sempre da Zona k, al teatro dell’Arte (Triennale), il 22-23 novembre 2017: http://www.zonak.it/revolution-now/. Anche Paradise Now! (1968) del Living Theatre si concludeva con un invito alla rivoluzione, che in quegli anni aveva ben altre risonanze.
[23] Un’analoga complessità, con intrecci tra reale a virtuale, vissuto personale e immaginario, fiction e autofiction, immagini in diretta e di archivio, è alla base della sofisticata grammatica teatrale di MDLSX (2015) dei Motus con Silvia Calderoni.
[24] In realtà il testo è in buona parte frutto del copia e incolla di documenti di vari ideologi di estrema destra. Al termine del processo Breivik venne dichiarato sano di mente e condannato a 21 anni di reclusione (la pena massima in Norvegia).
[25] Andrebbe aggiunto che le tesi suprematiste di Breivik appaiono oggi, in un dibattito pubblico degradato e inquinato da sfoghi razzisti e xenofobi, meno bizzarre di qualche anno fa: quelle che all’epoca parevano le farneticazioni di un folle, riecheggiano oggi nelle dichiarazioni di qualche politico “sovranista”.
[26] Nel corso dei tre giorni in cui si è svolto The Moscow Trial, Milo Rau ha creato una realtà parallela, una distopia in cui si sono trovate immerse decine di persone. La stessa esperienza ha costruito su scala ancora più grande il regista Ilya Khrzhanovsky con Dau, gigantesco progetto immersivo teatrale e cinematografico centrato sulla figura del Premio Nobel per la Fisica Lev Landau. Oltre 400 attori e migliaia di comparse hanno abitato tra il 2009 e il 2011 un set di 12.000 metri quadri, dove veniva minuziosamente ricostruita la vita quotidiana ai tempi di Stalin. Dalle 700 ore di girato sono stati ricavati film, serie e interviste, presentati in installazioni immersive a Parigi e Londra nei primi mesi del 2019.
[27] Lo spettacolo ha una connessione con Hate Radio: il padre di Marc Dutroux soggiornò a lungo nelle colonie africane del Re del Belgio.
[28] Vedi www.general-assembly.net.
[29] Hans-Thies Lehmann, Il teatro post-drammatico (1999), Cue Press, Imola, 2017.
[30] Giovanni Ziccardi, Tecnologie per il potere, cit., p.15.
[31] Vedi Simon Goldhill e Robin Osborne (cur.), Performance Culture and Athenian Democracy, Cambridge University Press, Cambridge, 1999.




Tag: Il teatro è un dispositivo (28), NaDubrovkaTeatro (5), partecipatoteatro (27), Roger Bernat (5), Yan Duyvendak (3), ZonaK (7)