Post-modern Shakespeare

Come potrebbe cominciare un saggio sulle Scene di Amleto di Federico Tiezzi

Pubblicato il 14/01/2001 / di / ateatro n. 000

Che straordinario e importante spettacolo, quante cose insieme è l’Amleto di Federico Tiezzi, e che emozione per lo spettatore. Intanto – è ovvio – è la messinscena del più noto e rappresentato testo teatrale, ma è anche una riflessione sulle messinscene novecentesche di quel dramma, e dunque sull’intera storia della regia nel secolo. Una lezione di teatro, insomma, che esplora la grammatica dello spazio e del tempo, del gesto e del personaggio, e il rapporto dello spettatore con l’evento scenico. E dunque, ancora, riflessione sulla regia e sull’interpretazione del testo.
Va subito detto che Federico Tiezzi non segue la strada verso il sublime di Carmelo Bene, che disarticolava nel suoi Amleti di meno i concetti stessi di rappresentazione, di personaggio, di soggetto (prendendo in contropiede i monologhi attraverso i quali Shakespeare costruisce l’individualità moderna), per dissolversi nel non-senso musicale della phoné. E si contrappone al gesto nichilista della Societas Raffaello Sanzio, che riportando Amleto alla sua radice etimologica (“deficiente”) ne faceva un disarticolato demente, un autista chiuso nel proprio mondo incomunicabile, al di qual del confine del significato per costruire un paradosso nel quale l’unico senso possibile è il non-senso.
Al contrario, Tiezzi è animato dalla fede che un testo come Amleto (e forse ogni testo) abbia un significato, o meglio una molteplicità di significati, che può essere ricercato e trovato solo nella pratica di palcoscenico, nel lavoro di scavo e di approfondimento del regista e dei suoi attori sui personaggi (soprattutto intorno a questo ruota la prima parte del trittico). Il problema, semmai, sta nell’eccesso, nella inesauribile molteplicità dei significati, che porta il testo a sfrangiarsi in mille sfaccettature, a frammentarsi in una girandola i schegge, filtrati da una serie di interpretazioni tulle legittime.
Ecco dunque il testo ripreso per scene, in ambientazioni diverse. Le tre parti dello spettacolo seguono lo stesso percorso. La prima sezione in una tenda sotto il deserto nel Medio Oriente, con il pubblico a una distanza ravvicinata, lletteralmente circondato dall’azione scenica, e il testo proiettato nell’attualità. La seconda in una “stanza da musica indiana”, rarefatta come un giardino giapponese. La terza, in qualche modo oltre e lontano, nello spazio della rappresentazione (e che però, nella scena della recita, verrà ribaltato: il pubblico è dietro la scena e vede, oltre gli attori, il pubblico della corte di Elsinore: Claudio, Gertrude, Amleto…)
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Non assistiamo a un’implosione o una dissoluzione del senso, ma a una sorta di esplosione, a una proliferazione dei possibili significati, a una costante contaminazione del testo (e dell’arte) con la vita, con l’attualità e la storia, e con le successive interpretazioni del testo. Una messinscena dunque “ermeneutica”, dove l’interpretazione del testo può venire forzata fino al limite di rottura, e teoricamente fino al nonsenso, all’assurdo (la follia di Ofelia vede l’attrice costretta su una sedia a rotelle, sospinta da un’infermiera con la maschera di Topolino…). Tuttavia lo spettacolo trova sempre un punto d’equilibrio tra la libertà assoluta (secondo la quale tutte le interpretazioni, in teoria, sono legittime) e la fedeltà al testo.
Tanto per cominciare questo Amleto, seppur frammentato, lacunoso, punteggiato da ripetizioni e andirivieni, costruito per scene accostate e giustapposte secondo un criterio d’ordine più musicale che narrativo, è nella sostanza fedele al plot: comincia con la prima scena del primo atto, e si conclude con la strage finale e l’arrivo di Fortebraccio.
In secondo luogo – e questo è forse il punto chiave – tutti gli slittamenti di senso avvengono all’interno di un orizzonte preciso, che è, come si è detto, quello della storia del teatro del Novecento, da Stanislavskij e Craig (citato nella scena della reggia, con l’incrocio di linee orizzontali e verticali) a Bob Wilson e oltre. Qui “storia” non va però inteso nel senso “progressista” del termine, come se si potesse parlare di un’evoluzione, quanto piuttosto di una serie di pratiche tutte ugualmente legittime. A questo punto la questione pare semplicemente slittata, dato che si potrebbe chiedere allo stesso modo: che cosa legittima quelle pratiche? Quella che compie Tiezzi è però nella sostanza una scelta di “maestri” con in quali intraprendere, nella pratica scenica, una sorta di dialogo. A trarne ispirazione e insieme verificare la loro “tenuta”. A legittimare questi maestri è la loro esperienza artistica e umana, la profondità del loro lavoro, la qualità di sollecitazioni che riescono ancora a mandarci.
Ecco, questo Amleto si muove nella distanza tra la storia e l’esperienza individuale, personale di Federico Tiezzi (e ovviamente della sua compagnia, con i suoi 25 anni di teatro), e quella di questi maestri, in un costante confronto. Va aggiunto, a questo proposito, che questo dialogo è reso possibile da un atteggiamento registico tanto consapevole quanto discreto: in ogni scena – per quanto complessa e ricca di rimandi – la prima regola sembra quella della semplicità, della assoluta mancanza di concessioni al proprio talento e alle aspettative degli spettatori,
E a questo va aggiunto quel filtro ironico che inevitabilmente accompagna le operazioni più consapevolmente post-moderne.
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