Convertito, abbandonato, degradato, conteso

Breve storia del Teatro Rossi di Pisa che può rivivere

Pubblicato il 14/07/2002 / di / ateatro n. 043

È un emozione varcare per la prima volta la soglia di questo teatro, nascosto dove non ce l’aspetteremmo mai. Costruito tra il 1770 e il 1771 – secondo il gusto dell’epoca, quando si preferiva evitare la corrispondenza tra uso interno e involucro esterno dell’edificio – ci appare dunque all improvviso, preziosa gemma incastonata nel cuore di un ordinario antico palazzo.
I progetti a noi rimasti si riferiscono, non a caso, solo alla sua parte interna; ma questo singolo interesse dipese anche dalla posizione scelta per l’edificazione, alquanto defilata rispetto al centro cittadino vero e proprio; nonché dalla tendenziale introversione che presenta ogni edificio teatrale.
L’architetto prescelto dai Lorena – i quali a partire dal 1767 avrebbero privilegiato Pisa per trascorrervi l’inverno – fu Zanobi del Rosso, fiorentino, benché pochi anni prima anche Ignazio Pellegrini – già autore a Pisa di molti palazzi privati – si fosse cimentato in un interessante progetto. Forse quest’ultimo pareva ancora troppo legato al manierismo per poter soddisfare la richiesta leopoldina di un architettura dell’utile.
Del Rosso, allievo di Vanvitelli e Fuga a Roma, tornato in Toscana diventa un architetto di fervida attività, al quale saranno commissionate le più grandiose fabbriche del suo tempo, tra cui i due teatri di Pisa e di Fiesole. Vicino a un’architettura neoclassica venata talvolta di spunti rococò, per Pisa formula un progetto che tiene ben presente quello già ultimato da Orazio Cecconi, capomastro dell’impresa. Per la sala sceglie la forma a ferro di cavallo. Quattro gli ordini dei palchi, con venti palchetti per ogni ordine. Il palco reale, tre volte più grande di quelli normali, è conformato a balconcino, secondo la tradizione dei Bibiena (anche se purtroppo non è giunto così sino a noi, rimpicciolito e snaturato negli innumerevoli successivi restauri). I camerini per gli attori furono insolitamente previsti dall’architetto esternamente all edificio teatrale.
Ma non è questa la sola particolarità del teatro. La più rilevante sta nella sua forma esternamente irregolare, dovuta ad un piccolo edificio preesistente al margine orientale dell’area che costrinse, in pianta, ad inclinare il fronte meridionale verso l’interno, in corrispondenza del palcoscenico. Questo fu progettato molto ampio rispetto alle abitudini dell’epoca, con due aperture sulla parete di fondo.
Lo spettatore rimane perciò piacevolmente sbigottito nel trovarsi di fronte un palcoscenico che si estende stranamente con una profondità maggiore sul lato destro, creando una singolare asimmetria; e resta incantato dai due enormi archi a sesto acuto trasversali posti da del Rosso a troneggiare sul palcoscenico: soluzione del tutto originale rispetto alle consuetudini costruttive di simili edifici. Insomma, lo sfondo della scena non è altro che l’angolo acuto del palazzo visto dall’interno, con tanto di finestre e finestrelle; il tutto come incorniciato dalla imponente doppia arcata gotica.
Resta da capire come mai, all’epoca, si scelse di edificare il teatro nell’Orto della Dispensa Vecchia, dove avrebbe dovuto essere così condizionato nella forma. Probabilmente nell’ottica di una riorganizzazione di quella parte di città intorno a palazzo granducale, ristrutturato e ampliato esso stesso. Forse perché così il teatro poteva essere collegato direttamente, tramite un lungo corridoio, alla sunnominata residenza; o forse ancora per la prossimità di numerose proprietà della nobile famiglia Prini, da subito coinvolta nell’impresa e sua unica proprietaria dopo pochi anni.
 

 

Il teatro venne inaugurato il18 maggio 1771 con l’Antigono di Metastasio. Portato a termine dal capomastro Orazio Cecconi, presentava un apparato decorativo di Mattia Tarocchi ed il sipario dipinto dal celebre maestro Giovanni Tempesti, tutti pisani.
Il teatro fu subito intensamente utilizzato e sebbene le rappresentazioni fossero generalmente di carattere popolare, sappiamo anche di un’esibizione di Paganini nel 1818.
Negli anni si succedono gestioni diverse. Nel 1798, con l’imminente dominazione francese in Toscana, il teatro passa alla neonata Accademia dei Costanti che nel 1804 affida ad Antonio Niccolini il compito di dipingere il soffitto della platea, le pareti, il vestibolo e il nuovo sipario. Viene usato come modello il Teatro della Pergola di Firenze come accadrà, singolare ricorrenza, in seguito per il nascituro Teatro Verdi. Il pittore ed architetto Niccolini è quello stesso che pochi anni dopo ricostruirà il Teatro San Carlo di Napoli in tutto il suo splendore. In un suo scritto elogia vivacemente la perfetta acustica del Teatro di Pisa, purtroppo danneggiata dai successivi interventi di modifica.
Nel 1820 il teatro viene ceduto all’Accademia dei Ravvivati. Col 1824, che segna i grandi lavori affidati ad Alessandro Gherardesca, il teatro assume una diversa fisionomia. Viene modificata soprattutto la zona dell’ingresso: i grandi ambienti concepiti da del Rosso con spesse murature vengono sostituiti da un colonnato con capitelli ionici, che crea un unico vano molto più spazioso, di un amabile stile neoclassico. E’ l’atrio che troviamo ancora adesso. Il Teatro dei Ravvivati diventa un polo culturale di importanza sempre crescente, dove gli attori più famosi d’Italia amano esibirsi e dove si può assistere sempre più spesso a opere liriche di Donizetti, Verdi, Cherubini.
Per mancanza di adeguati restauri nel 1860 si arriva purtroppo al degrado. Gli attori di maggior importanza ora cercano di disertare la tappa pisana. Poi la data cruciale, il 1867, quando a Pisa viene inaugurato l’attuale Teatro Verdi, bello e decisamente spazioso. Questo avvenimento segnerà inesorabilmente l’inizio della fine per l’antico teatro granducale, declassato da allora in avanti a semplice comprimario della vita culturale della città.
Il 1878 registra un nuovo ciclo di restauri, nella speranza di poter competere così con il nuovo teatro. Si ha un ennesimo cambio di nome per quello vecchio, intitolato da quel momento all’attore livornese (perché mai, ci chiediamo) Ernesto Rossi. L’intervento più evidente è quello apportato dall’ingegner Studiati nel 1912, il quale, seguendo ancora una volta l’esempio del fiorentino teatro della Pergola, demolisce le parti in muratura del quarto ordine di palchi riunendo tutto in un’unica galleria. I parapetti saranno sostituiti da una sinuosa ed elegante balaustra di ferro lavorata a motivi stile liberty, opera di Lelio Titta, padre del celebre baritono pisano Titta Ruffo, che abbiamo potuto ammirare anche noi.
Ma questo seppur felice ammodernamento non basta a rinnovare le sorti del vecchio teatro, ormai segnate dall’avvento del nuovo e ampio Verdi, dalla concorrenza di numerosi altri edifici teatrali in Pisa e dal crescente interesse per una nuova arte dello spettacolo: il cinema. Il Teatro Rossi dunque si vedrà costretto a snaturarsi, ospitando molte proiezioni cinematografiche.
 

 
Nel 1940 la società del Teatro Rossi fallisce. La Cassa di Risparmio di Pisa ottiene l’immobile alla conseguente asta, nello stesso anno, per una cifra irrisoria. Due anni dopo lo rivende per quella stessa cifra alla federazione fascista, che lo utilizza per riunioni e manifestazioni. Dopo la guerra, a cui il teatro miracolosamente sopravvive, diventa proprietà dello Stato italiano che lo possiede tuttora.
Tra il 1946 e il 1955 viene concesso in gestione a Luigi Bellini. In questo periodo viene impiegato per i più svariati scopi: rappresentazioni teatrali (per quanto sempre più scarse), proiezioni di film, conferenze politiche e incontri pugilistici. La destinazione principale sarà però quella cinematografica, tanto che si arriva a sventrare la sala centrale dei granduchi, dietro al palco reale, per creare una cabina di proiezione in muratura, danneggiando in gran parte le pareti affrescate.
Ma lo scempio non termina qui. Nel 1956 il Soprintendente dichiara che il soffitto della sala, affrescato da Niccolini e visibile ora in un’unica importante foto, non presenta alcun pregio artistico, per cui si può procedere alla demolizione. E così purtroppo accade.
Il Rossi continua tristemente a proiettare film sino al 1966, anno della sua definitiva chiusura. Il Comune di Pisa ha mantenuto in affitto il Rossi fino al 1977, destinandolo a magazzino-deposito di oggetti smarriti. Insomma, il nobile teatro è stato degradato a rimessa di motorini.
Nel 1981 il teatro viene affidato alla Sovrintendenza di Pisa. A contenderselo sono, nuovamente, la Cassa di Risparmio (che ha sede adiacente e gradirebbe la zona del retropalco per creare nuovi uffici) e il Comune. Cominciano le dispute per possederlo, mentre l’edificio ha bisogno sempre più urgente di restauri. Si dice che manchino i fondi, per cui vengono effettuati piccoli e graduali interventi di consolidamento, al solo scopo di garantirne la sopravvivenza, in attesa di una vagheggiata rinascita.
Oggi assistiamo a un tentativo di rilancio del teatro. Si sono mossi congiuntamente Comune, Provincia, Sovrintendenza, la neonata Fondazione Teatro di Pisa, i gruppi Teseco e Renova, affidando all’attore pisano Andrea Buscemi, diretto da Gianni Ippoliti, l’allestimento di Edmund Kean, testo-omaggio all’arte del grande attore scaturito dalla penna di Dumas figlio. Il 21, 22 e 23 maggio scorsi è stato così concesso a pochi iniziati (ogni serata poteva raggiungere un massimo di cento spettatori, quasi tutti su invito) di varcare dopo trentasei anni la soglia del teatro per sedersi in platea (l’unica zona agibile) su sedili portati per l’occasione. I trecento privilegiati hanno così potuto ammirare il teatro Rossi in tutto il suo fatiscente splendore regale, nella sua antica bellezza diroccata.
Per mantenere viva l’attenzione sul Rossi, dopo lo spettacolo di Buscemi-Ippoliti, è andata in scena Croisades, pièce di Michel Azama, drammaturgo francese contemporaneo. Il testo, che verte su una guerra senza nome, a racchiudere idealmente tutte guerre, è stato portato in scena dal 29 maggio al 3 giugno, in prima nazionale, dai giovani allievi del quarto anno di Fare Teatro e da una sola attrice professionista, per la regia di Franco Farina e Lorenzo Mucci. Ma hanno promesso di dare una mano al settecentesco teatro Flavio Bucci, Giorgio Albertazzi, Rossella Falk e Marina Malfatti. Nei giorni di Croisades Alessandro Benvenuti ha tenuto un incontro col pubblico all interno del teatro stesso e Alessandro Bergonzoni è stato protagonista di un videointevento trasmesso ogni sera prima della rappresentazione. Il 27, 28 e 29 giugno, giorni in cui la Scuola Normale di Pisa vi ha poi portato in scena la lettura teatralizzata della Divina Commedia dantesca, sostenuta da un progetto scenografico innovativo e di grande suggestione, per un coro di 254 voci.
Queste giornate di apertura straordinaria sono state concepite allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di completare il restauro del teatro. Per salvarlo si dice. Benché il soprintendente Guglielmo Malchiodi parli non di teatro, ma di edificio da salvare e da restituire alla città come spazio per momenti espositivi, musicali, culturali in genere. Con questo obiettivo l’iniziativa di rilancio sta proseguendo sulla strada che per il soprintendente è l’unica da percorrere: quella di una fondazione, un gruppo misto, pubblico-privato, che proceda alla gestione con finalità non solo di spettacolo. Il progetto di restauro dell’edificio esiste già da sei anni e prevede un esborso di oltre due milioni di euro.
 

 
Comune e Provincia, rappresentati dagli assessori alla cultura Fabiana Angiolini e Aurelio Pellegrini, non invitati alla conferenza stampa di Malchiodi, dalle pagine dei giornali si diichiarano in disaccordo sull’eventualità di una seconda fondazione teatrale in città, a loro parere controproducente. Disponibilità totale degli enti locali, invece, sul restauro del teatro, di cui è stata richiesta più volte l’acquisizione al Ministero dei beni culturali (la Soprintendenza è proprietaria del teatro per conto del suddetto Ministero), per rendere possibili interventi di sistemazione altrimenti irrealizzabili, data la attuale normativa che impedisce opere su immobili di cui non si abbia la titolarità. Pellegrini rincara la dose dicendo che sarebbe opportuno che la Soprintendenza intervenisse per impedire l’ulteriore degrado del teatro: «Chi ha voluto tenerlo, ignorando le richieste di vendita degli enti locali, è ora tenuto a salvaguardarlo: dopo si potrà ragionare di gestione. La Provincia è disponibile al confronto e a sostenere le iniziative che non sono pura accademia».
Il dibattito è continuato sui quotidiani locali con l’intervento di Ilario Luperini, presidente della Fondazione Teatro di Pisa, che individua il punto centrale della questione nella scelta del tipo di teatro con cui connotare il nuovo Rossi. Secondo Luperini la fisionomia della sala non può essere stravolta. Asserisce che Pisa avrebbe bisogno di un teatro dalla capienza medio-piccola (circa 400 posti) per quegli spettacoli che per le loro caratteristiche difficilmente si collocano al Verdi; e se questo progetto è possibile, continua il presidente, è necessario presentarlo al più presto. Si dichiara d’accordo a raccogliere un insieme di forze diverse, pubbliche e private, che mirino a restituire alla città un edificio con la funzione di teatro. Per quanto riguarda il problema della gestione dell’attività della sala, Luperini pensa che costruire un organismo che non tenga conto della presenza di un altro teatro, già dotato di una struttura gestionale ben consolidata e competente (ovviamente quella dal lui diretta), sarebbe un inutile spreco di risorse.
Continuare a contendersi il teatro e a palleggiarsi ignominiosamente le responsabilità, evitando per anni e anni di giungere ad una soluzione, cioè a come fare per restaurarlo definitivamente e così salvarlo, è una vergogna. Che poi si possa arrivare al restauro per destinarlo a attività che non riguardino la sua funzione primaria, è un vero sacrilegio.

Roberta_Mannelli




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