Lo spettacolo dell’11 settembre

Requiem for Ground Zero di e con Steven Berkoff

Pubblicato il 01/09/2002 / di / ateatro n. 041

Certamente uno degli spettacoli più discussi nella torrenziale offerta del Fringe al Festival di Edimburgo 2002 è stato il monologo di Steven Berkoff Requiem for Ground Zero, presentato alle Assembly Rooms e probabilmente destinato a essere ripreso a Londra nella prossima stagione.
Berkoff è da tempo uno dei protagonisti della scena inglese, come attore, regista, scrittore e drammaturgo fuori dai canoni, dotato di notevoli qualità tecniche e di un autentico talento di provocatore. Un suo spettacolo dedicato agli eventi dell’’11 settembre si presenta come un evento – anche perché l’autore-attore affronta il tema nella maniera più esplicita e diretta: attraverso un racconto di quello che è successo quella mattina, “September eleventh at eight forty five a.m.”, come dice il primo verso.

Prima ancora di entrare nel merito del monologo di Berkoff, vale la pena di affrontare alcune questioni preliminari. O meglio, la questione preliminare. Con quale forza e legittimità il teatro può portare in scena un evento storico di questa portata? E’ una questione che il teatro e in generale la cultura occidentale affrontano da sempre: dai tempi dei greci, che dopo I Persiani smisero di affrontare nelle loro tragedie eventi troppo vicini a loro (per filtrarli piuttosto attraverso vicende e situazioni riprese dal repertorio della mitologia), fino alla domanda di T.W. Adorno sulle possibilità della poesia dopo Auschwitz e al successivo dibattito (basti pensare alle riflessioni di Primo Levi in I sommersi e i salvati).
Sui due piatti della bilancia, si possono pesare molti pro e altrettanti contro.
E’ chiaro che di fronte al dolore autentico, a qualunque dolore, le nostre parole sono impotenti, vacue. Rischiano di apparire inadeguate e – ancora peggio – frivole, perché l’’arte, per sua natura, malgrado ogni proclamato rigore, punta sempre a una certa piacevolezza, oltre che a una maestria che può apparire virtuosismo.
Quando ci troviamo di fronte all’’orrore assoluto, alla rivelazione del male, alla cancellazione del senso, quando ci confrontiamo con la Shoah o con la distruzione delle Twin Towers, il divario appare ancora meno colmabile. Che possiamo dire? Ogni spiegazione, ogni racconto appare inadeguato, minuscolo, velleitario di fronte alla sofferenza infinita delle vittime. Ma anche senza confrontarsi con tragedie di questa portata (e persino il termine tragedia, il più iperbolico che l’estetica abbia saputo concepire, appare così inadeguato, futile, elusivo), già di fronte a episodi storici meno devastanti lo sguardo dei contemporanei appare spesso miope, privo di quella distanza che pare necessaria a uno storico per non considerarsi un giornalista (Ma quanti anni servono prima di poter fare storia? Venti? Venticinque?)
A livello più volgare, in quest’’epoca di ipocrisie collettive non possono mancare i sospetti di miserabili speculazioni: le televisioni pullulano di artisti che, sfruttando emozioni massificate e inalberando qualche causa politicamente corretta, si ripuliscono l’’immagine.
D’altro canto, accettare il nostro silenzio è una dichiarazione di sconfitta, proprio di fronte all’orrore che abbiamo il dovere di combattere, proprio di fronte a quell’assurdo che vogliamo scardinare. Di fronte al trionfo del nulla e della morte, noi abbiamo il dovere di testimoniare: l’’artista è uno dei custodi della memoria. In questo, i testimoni privilegiati – e forse gli unici legittimati a testimoniare – sono ovviamente le vittime; ma chi può dare voce alle vittime silenziose? E come tenere vive, in ogni caso, quelle voci preziose? La realtà, da sola, è muta, trovarne il suono e il senso è un compito arduo, che va ripreso e rinnovato ogni giorno.
Ancora, è vero che ogni dolore (così come ogni emozione) è personale e dunque incommensurabile e incomunicabile, ma proprio l’arte si è da sempre assunta il compito di rendere i sentimenti condivisibili. Si tratta dunque di dare al grumo che ci agita una forma, un linguaggio. Creare una serie di convenzioni e di gesti in cui una comunità possa riconoscersi – e partendo da lì, plasmare e incanalare le energie e le emozioni collettive.
A questa funzione rituale (a cui rimanda peraltro esplicitamente il titolo di Berkoff) se ne affianca una più direttamente e banalmente politica. Di fronte a eventi storici che cambiano la vita di una collettività, è inoltre necessaria una riflessione pubblica, che non è solo una discussione storica o politica, ma un tentativo di costruire un senso comune. In questo, l’’artista ha l’’arrogante e generosa missione di usare il proprio io (con tutte le sue facoltà culturali, intellettive, emotive, e anche fisiche) per dare una misura di quello che sta accadendo alla società in cui vive. E anche (eventualmente) per esprimere la propria posizione politica e offrirla al pubblico dibattito (e anche qui correndo il rischio di apparire didascalico, ideologico, manipolatorio nei confronti del pubblico).

Alla fine, la nostra bilancia pare dare una risposta pragmatica e precisa: se qualcuno ha il coraggio (o l’incoscienza) di fare un’’opera del genere, e se qualcuno avverte la necessità di ascoltarla, allora vuol dire che è possibile fare poesia anche su eventi di questo genere. Ma anche in questo caso, è una risposta a metà, che vale solo per il nostro qui e ora: come possiamo sapere che peso avranno quelle parole tra cinquant’anni, o cento? Qualcuno – a parte gli storici e i filologi – sentirà ancora il bisogno di leggerle, di ascoltarle? Manterranno la loro capacità di trasmetterci un’emozione?

Il monologo di Berkoff è composto di quartine di pentametri giambici; molto spesso il primo e il terzo verso oppure il secondo e il quanto verso di una quartina rimano tra loro. Il testo è ricco di metafore, a cominciare da quella più facile: i due aerei dirottati sono “two great birds”, due grandi uccelli. E’ punteggiato di riferimenti colti, da una formula rubata a Romeo e Giulietta all’inevitabile citazione di Prometeo. Anche New York viene raccontata attraverso alcuni dei suoi monumenti culturali, da Gershwin a Shakespeare a Central Park passando per lo Yankee Stadium (anche se vengono citate pochissime icone dalla cultura pop).
Al tempo stesso, a cercare un effetto di verità, il poema riprende molti dettagli quotidiani, a volte convenzionalmente realistici, come il bacio sulla porta alla mattina, dopo i corn flakes e il caffè. Riecheggiano i nomi di alcune vittime, e quello del capo dei dirottatori Mohammed Atta, e quello del pilota John Ogonowski. Ci sono alcuni episodi che abbiamo tutti letto sui giornali, come quello dell’’ultima telefonata dal cellulare di un passeggero che dava l’’ultimo addio ai suoi cari.
Si tratta di un mix estremamente sapiente e controllato, ricco di sottili effetti retorici. E corrisponde in pieno alla recitazione di Berkoff (antico allievo, peraltro, del mimo Jacques Lecoq). Vestito di nero sul palcoscenico nudo, illuminato dall’alto, scandisce il racconto con gesti incisivi e precisi, a dare sostanza visiva alle immagini e alle metafore del testo. Anche in questo caso, a stupire è un controllo virtuosistico del corpo – il volto, le mani e le braccia. E’ una tecnica che riprende la lezione dei teatri orientali (il modello più evidente è il kathakhali) e al tempo stesso aggiunge una dimensione epica al racconto.
Sono dunque immediatamente in atto diversi effetti retorico, che danno una forma a un grumo di eventi amplificati e moltiplicati all’infinito dai mass media. Cercano di inserirlo nella griglia di una precisa (e raffinata) tradizione culturale – che è poi quella dell’’autore, che circa a metà della narrazione si mette personalmente in gioco (e in scena), quando ricorda dove era al momento dell’impatto: a Oxford, non lontano dal museo in cui si possono ammirare disegni di Michelangelo e Raffaello, dove in quei giorni “My irony, we play the death of Christ”.
(Certo, per quasi tutti noi la vita è più importante dell’arte, ma per altri l’assoluto è un’emozione estetica, altrettanto indicibile…)

Come ogni requiem, anche questo è ovviamente dedicato alla vittime: dal monologo emerge un autentico coro di volti, voci e storie bruscamente e ingiustamente interrotte. Un secondo protagonista è il dirottatore Atta, il carnefice. Il terzo è Berkoff, e attraverso di lui il suo pubblico, noi, i sopravvissuti, la cui vita (e l’immagine del mondo) è stata colpita nel profondo. Che solo per caso non ci siamo trovati al posto delle vittime – su uno degli aerei, al nostro posto di lavoro. Noi, che potremmo essere vittime innocenti di un prossimo attentato.
Polarizzando l’attenzione su questo triangolo, su queste tre individualità, Berkoff non si pone molte domande sulle molteplici cause e sulle ragioni storiche (economiche, politiche) di quella mattina di folle terrore. Il problema è ridotto al fanatismo religioso di alcuni islamici, cui si contrappone il desiderio di vendetta del cowboy Bush, in cui interventismo militare è oggetto di una feroce e godibile caricatura (in questo lo spettacolo si è inserito polemicamente nell’attuale dibattito politico sull’opportunità della guerra all’Iraq, visto che non viene risparmiato neppure l’alleato di ferro Tony Blair).
La versione originale (a stampa) si concludeva con una arringa anti-Bin Laden, “the god of death”, “just like the Satan”, e proclamava il diritto di tutti noi “to live our lives in peace / By common consent with all humanity. / Mankind must offer shelter to all faiths: / We were humans before we had a creed”. (Di questa impostazione “teologica” resta tuttavia nel testo una traccia evidente. Dio viene infatti chiamato in causa spessissimo: “One hundred and ten floors up, you can see God’s heel”; “You God or something, you our destiny?”; “With fundamentalist insanities / Like God is mankind’s unforgiving foe”; “How easily we use the name of God”; “We know God weeps for all her souls who die / Before their rightful, fruitful years are spent” eccetera eccetera.
Nello spettacolo di Edimburgo, l’’alternativa alla guerra è un invito alla pace e alla tolleranza, previa rinuncia al fanatismo religioso, in nome dei comuni valori dell’umanità: molto efficace sulla scena, condivisibile in tutto e per tutto, ma anche generico e inefficace sul piano politico.
E’ una scelta determinata forse anche dalle feroci polemiche suscitate da un lavoro dove l’’esplicita polemica politica si intreccia con una riflessione di carattere più generale, quasi metafisico, sul valore della tolleranza e sul rifiuto del fanatismo religioso. E’ forse nel rapporto irrisolto tra questi due piani che lo spettacolo tradisce la sua maggior debolezza, riscatta da una interpretazione meticolosa ed energetica, anche se caratterizzata – così come l’’intero testo – da una formalismo estetizzante.
 
Steven Berkoff (1937), inglese, è attore, regista e autore di vari testi autobiografici. Dopo aver studiato tra l’altro con Jacques Lecoq a Parigi, nel 1968 è tra i fondatori del London Theatre Group, che si afferma con una serie di adattamenti caratterizzati da partiture gestuali di grande rigore, su testi di F. Kafka (La colonia penale, 1968, La metamorfosi, 1969, in seguito interpretato da R. Polanski, Il processo, 1970), W. Shakespeare, Eschilo ed E. A. Poe, con un allestimento di La caduta della casa Usher (1970) replicato anche al National Theatre. Nei suoi testi, affronta tematiche e situazioni contemporanee utilizzando forme classiche, con effetti insieme parodistici e rivelatori: in East (1975) ripercorre la sua adolescenza londinese tra il blank verse shakespeariano e gli slogan dei tifosi di calcio; Greek (1979) racconta della vita di coppia nella società dei consumi riecheggiando la tragedia greca; Decadence (1981) è una satira dell’upper class. A Kvetch (1987) e Acapulco (1989), segue Requiem for Ground Zero (2002). Le sue interpretazioni (tra cui diversi monologhi-collage tratti da W. Shakespeare) sono caratterizzati da un’intensa presenza scenica, da una voce profonda e graffiante e dalla padronanza di una gestualità precisamente codificata. Come regista firma due fortunati allestimenti di Coriolano (1989) di W. Shakespeare a New York e Salomè (1989) di O. Wilde a Dublino e Londra.
 
Sul sito di Steven Berkoff ampi brani del testo (in inglese).
 
Le recensioni di Oliviero Ponte di Pino a Decadence e Alla greca nelle messinscene dei Teatridithalia.
 
Il sito del Festival di Edimburgo.
 
Il sito del Fringe.

Oliviero_Ponte_di_Pino




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