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Note in margine a The Merchant of Venice di Peter Sellars

Pubblicato il 28/10/2002 / di / ateatro n. 044

Peter Sellars, geniale ed irriverente regista teatrale e d’opera, nasce nel 1957 in Pennyslavania; interessato all’ambito antropologico del teatro, dopo la laurea all’Università di Harvard intraprende viaggi di studio e di ricerca in Australia, India, Giappone e Cina. In America collabora con il Wooster Group di Elizabeth LeCompte. Si è affermato soprattutto grazie alle sua particolarissime regie d’opera, trasgressive e ironiche quanto ad ambientazione, molte delle quali realizzate in collaborazione con il direttore d’orchestra Craig Smith: Le nozze di Figaro alla Trump Tower, Don Giovanni in un bordello. E’ anche regista cinematografico (The cabinet of Dr. Ramirez, 1993, ispirato all’omonimo film espressionista di Robert Wiene) e autore di videoclip musicali (HardRock, per il jazzista Herbie Hanckock); ha diretto per due anni il Los Angeles Festival ed attualmente insegna World arts and culture all’UCLA.1
Caratteristica del suo teatro è una scena pregnante di tematiche di vero attivismo, di impegno politico e sociale2 spesso mascherate sotto testi classici (i Greci e Shakespeare) e ricche di riferimenti a culture non esclusivamente occidentali. Costante del suo teatro – come ricorda Valentina Valentini – è, infatti, sia il multiculturalismo, sia quel principio dell’attualizzazione del mito antico e di “denuncia del sistema politico” che rimanda al teatro epico di Brecht e al nuovo teatro americano: “Prendere in esame il lavoro di Sellars significa innanzitutto esaminare cosa, a fine secolo, è diventato il teatro che ha ereditato la tradizione sperimentale -modernista ed interculturale – delle neo-avanguardie.” 3 E’ proprio da questa emergenza “ereditaria”, sopravvivenza della schechneriana “teoria della performance”, che parte Valentina Valentini nel saggio su Sellars pubblicato all’interno della monografia dedicata al regista, sviluppando l’analisi critica dal sincretismo interculturale quale metodo e “dispositivo costruttivo” del lavoro di Sellars, nonché marca identificativa di questa neo-neo-avanguardia americana (in cui è possibile includere anche Robert Lepage, in riferimento a The Dragon’s Trilogy, The Seven Streams of the River Ota, Tectonic Plates, ispirati a tematiche orientaliste).
C’è sempre un riferimento ai fatti attuali nelle opere di Sellars; del resto durissime sono le sue dichiarazioni sulle tematiche del momento: dalla globalizzazione alla multiracial society, dalla guerra alla manipolazione dell’informazione ad opera dei media, al razzismo, rilasciate in occasioni di conferenze o di interviste:

In quasi ogni stanza in cui trascorriamo la nostra vita c’è una televisione, che diventa così un personaggio. Quindi molte volte nei miei spettacoli metto una televisione sul palcoscenico perché è un qualcuno con cui conviviamo e che non sta mai zitto. Come puoi avere dei tuoi pensieri quando vivi accanto a questa cosa che non fa altro che parlare? E’ uno dei grossi punti di tensione della vita quotidiana, ogni parte del nostro dialogo interiore è influenzata da questa scatola, se ti chiedi quali sono le opinioni basate su ciò che hai visto con i tuoi occhi e quelle invece create dalla TV ti rendi conto che è pazzesco.

Aiax (Boston, 1986) è ambientato al Pentagono, mentre in The Persians (Parigi, 1993) le immagini sugli schermi in scena mostrano spezzoni della guerra del Golfo vissuta attraverso le “giornate televisive”, attraverso in sostanza, i réportage della CNN; in The Merchant of Venice durante la scena del processo tra l’ebreo Shylock e il nobile veneziano Antonio, una tv mandava in onda le immagini girate da un videoamatore dell’automobilista negro Rodney King picchiato a sangue da poliziotti bianchi poi assolti dal tribunale con la sentenza che scatenò i moti di Los Angeles nel 1992.
Aiax, interpretato da attori nelle vesti di generali americani e di agenti della Cia che sguazzano in una chiazza di sangue, fu tra i primissimi spettacoli di Sellars ad affrontare, a partire dalla tragedia greca, il tema della violenza, della guerra, della manipolazione del consenso dei media e il loro controllo “militare”. L’evento di cronaca a cui si ispirò per la messinscena fu la notizia del bombardamento della Libia da parte dell’America nel tentativo di eliminare Gheddafi, all’epoca della presidenza Reagan:

Quando si lavora in un teatro chiamato American National Theater, il pensiero comincia a rivolgersi al dramma greco e all’idea di un teatro popolare in grado di discutere tematiche molto serie che, anzi, sarebbero considerate da non mettere in discussione ai giorni nostri. E’ la nostra maggiore crisi in America: viviamo in una società che è la più censurata del mondo. Arrivano pochissime informazioni che non si adattino agli scopi del sistema economico capitalistico. E i giornali a grande tiratura, in particolare la televisione, operano sotto una censura tremenda… Non è più una questione di individui, ma di uno strano collettivo senza volto che prende le sue decisioni senza chiedere a nessuno. Così in America è in un alto palazzo di uffici all’angolo tra la 57th Street e Avenue of the Americas (Sixth Avenue) a New York che si prende la decisione nel notiziario CBS di come stanno le cose.4

The Merchant of Venice ha debuttato nel 1994 al Chicago Goodman Theatre, interpreti uno Shylock e un Marocco nero, una Porzia cinese e Bassanio e Antonio sudamericani. Lo spettacolo è ambientato a Venice, in California. Sellars crea una scena tecnologica “abitata” da monitor, schermi, microfoni a vista, telecamere di controllo che suggeriscono l’idea di vigilanza ossessiva, della natura pericolosa e panottica del potere e dell’uso dei media per controllare e registrare la vita dei cittadini. Per attualizzare il testo, Sellars opera secondo un principio di equivalenza assolutamente ineccepibile: se ai tempi di Shakespeare il mercato era legato al commercio in mare, ora il potere economico è determinato dalle tecnologie e da chi ne detiene il possesso.
La critica ai media di Sellars sembra allinearsi alle tesi del sociologo Kevin Robins che in Into the image. Culture and politics in the field of vision si era schierato contro quella tecnocultura che esalta incondizionatamente le tecnologie dell’immagine in quanto “intrinsecamente liberatorie”, produttrici di un mondo rassicurante ma inesistente. Secondo Robins dobbiamo iniziare a “operare una discriminazione tra l’uso liberatorio e censorio delle immagini, tra quelle che dischiudono e quelle che interrompono i nostri rapporti con l’altro, tra quelle che democratizzano la cultura e quelle che la mistificano, tra quelle che comunicano e quelle che manipolano”. Le immagini implicano un senso di responsabilità rispetto ai fatti, rendendoci testimoni: come dice l’autore, la televisione può aver anche creato il villaggio globale ma “nessuno è corso ad aiutare il proprio vicino che ne aveva bisogno”. La condizione subìta dai telespettatori è contemporaneamente di coinvolgimento e di estraneamento. Di “paralisi”, come hanno evidenziato i réportage televisivi della guerra nel Golfo, in Bosnia (Robins ne parla ampiamente nel capitolo Visioni di guerra). Le nuove tecnologie hanno imposto un predominio della vista, una “sovranità della vista contro il tatto” che per Robins rivelerebbe, dietro il principio di un mondo dove tutto è visibile, un universo ordinato per essere controllato. Dietro la cultura del vedere, insomma, si nasconderebbe una cultura della non partecipazione. La vista mediata tecnologicamente (e interpretata come un aumento di conoscenza) secondo Robins sarebbe, in realtà, sinonimo di “non realizzazione”, di distacco dall’esperienza, allontanamento-dissociazione dal mondo.
Il “consumo” cannibalico, onnivoro, acritico delle immagini dei media occupa gran parte della riflessione di Robins: non solo la visione della guerra attraverso la sua “miniaturizzazione” prodotta dallo schermo la rende accettabile o tollerabile, allontanandoci completamente dal suo significato, ma la sua vista paradossalmente, è rassicurante e ci rende “sollevati”: “L’osservatore è all’esterno dell’esperienza e protetto da essa. Lo schermo è uno scudo che isola lui o lei dal bombardamento di esperienza”. Elias Canetti aveva posto l’accento sul “piacere della sopravvivenza”, affermando che “l’orrore alla vista della morte si trasforma nella soddisfazione che sia qualcun altro a morire”. Dunque questa deterritorializzazione resa possibile dai media non rende affatto l’altrove vicino ma al contrario, produce la coscienza di una mostruosa alterità. Si accentua ancora di più la “lontananza” e la “differenza”. Quello che si vede in diretta non è “qui” e “ora”: “Il telespettatore dovrebbe essere devastato dal trauma intenso di tali realtà. Il “consumatore di sofferenza” e di terrore, dovrebbe essere traumatizzato dal fatto di incorporare una visione del genere.” E aggiunge che il fatto di essere sottoposti a tali visioni avrebbe senso solo se questo potesse effettivamente cambiare qualcosa ma “senza quella possibilità, vi è una certa oscenità nel conoscere.”
I mezzi di comunicazione di massa hanno clamorosamente fallito il loro scopo, quello di divulgare capillarmente, fuori da ogni nazionalismo e separatismo, le culture più lontane, far comprendere le ragioni profonde e la storia di popoli che abitano angoli remoti, praticano religioni e stili di vita diversi. La domanda fondamentale è: può l’arte (anche l’arte del teatro) farci comprendere la realtà e il momento storico in cui viviamo?

Dice Sellars:
 
“Il teatro spiega che la decisione di un individuo, su come vivere o non vivere la propria esistenza, forma il clima e la temperatura morale di una nazione e influisce sulla direzione politica e il temperamento di un’epoca”.5

Il teatro deve ritrovare la sua necessità, la comunicazione diretta. Ora più che mai è la realtà che deve trionfare sulla scena, una realtà che il mezzo di riproduzione che sembrerebbe più adatto, paradossalmente, ne è anche il più lontano:

Domanda: Ce l’ha con la CNN?

Sellars: Certo, sa dirci cos’è successo negli ultimi 5 minuti ma ha una totale amnesia degli ultimi 5 secoli. Se conosci gli ultimi 5 secoli e li unisci alla storia degli ultimi 5 minuti capisci qualcosa di più (…) La CNN parla di morte 24 ore su 24 senza avere il senso di ciò che sia una sola morte. I media non sono forse anche uno strumento per comunicare? Una comunicazione vera si muove in due direzioni: lo scambio e l’uguaglianza sono fattori determinanti per la sua riuscita. Arriviamo da un secolo che ha inventato la comunicazione di massa monolitica e monodirezionale. Un adolescente che cresce in un campo profughi della Palestina sa tutto sul modo di vivere degli americani, mentre gli americani non sanno nulla di come vive e di ciò che pensa quell’adolescente… Nel XII secolo le culture si capivano più di adesso. Lo scambio era continuo. Favorirlo di nuovo vuol dire per esempio finanziare progetti culturali. Politici e uomini d’affari si chiedono: A che serve l’arte? Io rispondo che l’arte è la testa dell’economia e della politica, può spiegarci come andrannno le cose. Io incarno un’occasione di dialoghi trasversali tra contesti che non si incontrerebbero mai. L’artista deve essere le orecchie della società: ora più che mai visto che in America 4 società possiedono l’80 per cento dei media. Dai giornali e televisioni si ottiene un unico punto di vista. E’ pericolosissimo il modo distorto e deviante in cui vengono raccontate le storie.

Domanda: Accusa i media nella loro totalità?

SELLARS: La vicenda dell’antrace fa capire la perdita di ogni senso delle proporzioni. Qualche decina di persone colpite fa più notizia di milioni di bambini morti di fame in Iraq. Paradossalmente l’arte non può più alimentarsi di fantasia ma di realtà visto che la fantasia oggi è dominio dei media. La vera arma di chi fa il mio lavoro adesso è la riproduzione della realtà al di là della fiction.6

In occasione di un convegno su “Multiculturalismo nelle arti e nella società”, Sellars aveva affermato il ruolo che spetta all’artista nella società contemporanea. Non ci si può nascondere dietro i problemi del mondo. Ne siamo tutti coinvolti. Ma il multiculturalismo per Sellars è soprattutto presa di posizione a favore delle minoranze:

Quando parliamo di multiculturalismo e affrontiamo il problema degli stranieri, degli attacchi agli immigrati, e diciamo: “Ah, questi immigrati, vogliono solo venire qui, sfruttare il nostro successo economico e ingorgare le nostre strade”, dovremmo chiederci: “Perché non possono vivere a casa loro?” Non possono vivere a casa loro perché la loro patria è governata da un dittatore e questo è in relazione al fatto che possiamo continuare a mangiare le noccioline sull’aereo. Al Senegal è stato imposto per venti anni di non piantare altro che arachidi perché l’Europa voleva le arachidi, e ciò ha distrutto la terra e l’intera economia di una nazione… Siamo il 14% della popolazione mondiale che consuma l’80 per cento delle risorse del mondo. Perché non facciamo lo sforzo di diventare più obiettivi e trattiamo il multiculturalismo non come un capriccio ma come una realtà? Il fatto è che la vita di ognuno di noi è inseparabile dalla vita degli altri in altre parti del pianeta; siamo economicamente e politicamente responsabili.7

The Merchant of Venice

Il mercante di Venezia di Sellars è diventato un “classico”, una sorta di esempio-campione per chi si occupa del fenomeno del teatro elettronico o del rapporto tra teatro e tecnologia. Riprendendo lo schema cronologico-storico e le argomentazioni di Béatrice Picon-Vallin (Les écrans sur la scène; La scène et l’image), François Parfait, autrice di un recentissimo volume antologico sulla videoarte, cita The Merchant di Peter Sellars e la storia di una “consuetudine” di antisemitismo e di ingiustizia sociale nella Venezia del Cinquecento (tele)trasposta ai giorni nostri, come esempio emblematico dell’uso politico del video in scena.

Frédéric Maurin in un articolo intitolato Scène, mensonges et vidéo. La dernière frontière du théâtre américain,8 apparso in “Théâtre/public”, colloca Il mercante di Venezia di Sellars nell’ambito delle produzioni da lui identificate dalla contrapposizione oggettività/spettacolarità (l’oggettività dei fatti e la loro “spettacolarizzazione” mediatica).
George Banu ne parla, invece, nell’articolo Théâtre et technologie ou Celui qui dit oui/celui qui dit non, apparso nel 1999 nella rivista canadese di teatro “Jeu”. L’effetto di moltiplicazione di punti di vista e la possibilità di primi piani resi in scena dai monitor, testimonierebbero una continuità del videoteatro con il teatro di ricerca “storico”, impegnato da sempre, secondo Banu, alla questione dell’avvicinamento (rapprocher); dispositivi architettonici e strategie scenografiche furono impiegate per soddisfare questa esigenza di prossimità che permetteva all’attore di mettere in luce il valore della presenza. Il video in scena, quale è significativamente evidente proprio in The Merchant di Sellars, rimanderebbe inoltre, secondo Banu, alla visione poliprospettica e alla scomposizione della figura umana attuata dalle avanguardie pittoriche primonovecentiste, quella cubista principalmente:

Le recours à la caméra permet une multiplicité de stratégies du regard, car elle tourne, change d’angle, modifie la perspective. La vidéo offre une grande variété de points de vue sur la comèdien et l’espace. Cela a conduit bon nombre de commentateurs à assimiler ce dispositif télévisuel du regard à l’approche cubiste qui, elle aussi, dès le début du siècle, s’était proposé de montrer le motif plastique dans une perspective prismatique. La technologie actualise pour le spectacle vivant une répons déja formulée par les peintres. La barrière de la frontalité est battue en brèche.

Sellars dice che “Shakespeare analizza le radici economiche del razzismo. Venezia era una superpotenza mondiale che controllava i commerci, cosa che portò a un razzismo sistematico; un’enorme struttura coloniale viene creata all’epoca di Shakespeare. Shakespeare è più eloquente dei dati economici”. Da qui l’equivalenza con la nostra società, multirazziale e ben spinta dal razzismo allo sfruttamento, alla discriminazione, all’intolleranza, alla xenofobia, all’emarginazione. Nessuna forzatura, dunque, perché – come sottolinea il regista – Shakespeare descriveva una società molto simile alla nostra, ovvero “una società multiculturale in seno al quale il razzismo istituzionalizzato permetteva di ‘fare buoni affari’ e avere vantaggi economici”. 9
Il video, come si deduce dalle fotografie di scena e dalla precisa analisi dello spettacolo a cura di Fréderic Maurin comprensiva dello schema tecnico della disposizione dei monitor in scena, è il vero protagonista:

L’uso del video è di capitale importanza nella percezione di The Merchant of Venice di Peter Sellars, al pari della distribuzione multirazziale dei ruoli e dello sfondo californiano.10

Nello spettacolo una telecamera portata in spalle dagli attori o fissata a terra su un treppiedi ben visibile agli spettatori, registra in diretta l’azione di un personaggio e la trasmette ai monitor. Questi, schierati in posizione avanzata sul palcoscenico, diventano presenze “fisiche”, giurati o testimoni oculari; del resto la parte centrale della commedia è ambientata proprio in una sala del tribunale dove un giudice deve pronunciare una sentenza. E’ come se la telecamera spiasse i personaggi, scrutandoli ad uno ad uno, attardandosi su alcuni loro particolari, ma da angolature diverse dal frontale. Gli spettatori, perciò, hanno davanti a loro l’intero in carne ed ossa (il corpo dell’attore) e il particolare (un dettaglio del volto). E’ chiaro che lo schermo è specchio che riflette il sé più intimo e nascosto dei personaggi: è l’interiorità, la memoria, la verità nascosta. Nella commedia si parla di “false apparenze” e della necessità di non giudicare superficialmente un uomo: “Le forme esteriori possono ingannare – Sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce graziosa non maschera il volto del male?”

Il video frammenta il corpo, restituendone porzioni o brandelli: lo “smembramento”, come è noto, è proprio il tema della commedia (nel contratto è previsto che se l’ebreo Shylock non verrà pagato sarà prelevata una parte dal corpo di Antonio); il video inoltre, sottolinea il volto, isola il gesto, che a teatro diventa confuso tra gli altri gesti, perché l’attenzione è distratta dal “totale”. Volti che sembrano imprigionati nella scatola televisiva, come le teste “ritagliate” su cuscini nelle videoinstallazioni di Tony Ousler. Tranci di carne, teste tagliate, corpi a pezzi, per denaro, per debiti, per guerre, sono quelli trasmessi dai telegiornali; il nostro occhio televisivo è già così ben abituato a vedere a pezzi un corpo, che non associamo più quella immagine alla morte. La tecnologia scardina gli organi. Non c’è più alcuna integrità possibile.

It’s now our time
Il documento video commissionato a Sellars dalla BBC ha il titolo significativo It’s now our time. A new generation approach to Shakespeare.11 Girato in occasione delle prove di The Merchant of Venice, il film è un vero svelamento del suo metodo di lavoro e contiene le argomentazioni e i pensieri che precedono lo spettacolo ma, a differenza dello spettacolo, non ha nulla di tecnologico: Sellars introduce, infatti, un unico elemento scenografico, uno specchio.
In un ambiente quotidiano, stanze spoglie con molte finestre, il regista, adoperando una tecnica che potremmo definire “minimalista”, riprende gli attori mentre leggono a voce alta il testo di Shakespeare avendo sempre la loro immagine riflessa in uno specchio o in una finestra e rivolgendo lo sguardo direttamente alla telecamera (cioè, indirettamente, a chi guarderà il film).
La caratteristica di questo documento è che gli attori una volta letto il brano, con procedimento di straniamento brechtiano, lo commentano, aggiungendovi passaggi da testi di economia (tra cui How capitalism underdevelopped black America): la conoscenza delle leggi del mercato dà valore alla dimensione critica dell’attore nella costruzione attualizzata del personaggio; ed ancora, passi dalla Bibbia, dal Corano, dal Tao Te Ching che non fanno altro che evidenziare il tema della diversità di etnia, di strati sociali, di religione, di sesso, di età dei personaggi: “Gli attori ci portano nelle loro vite interiori e raffrontano quotidianamente le loro vite con Shakespeare, psicologicamente, fisicamente” , dice lo stesso Sellars nell’introduzione al video.
L’attore che impersona Shylock viene scelto di pelle nera e diventa il simbolo di tutte vittime innocenti che pagano per la sola colpa dell’appartenenza a un popolo o ad un’etnia emarginata e perseguitata; queste alcune frasi con cui Sellars fa parlare lo Shylock nero:

Nessun bianco che fosse ubriaco, molestatore di bambini o criminale è stato considerato inferiore a un nero per quanto retto e ricco che fosse…. Una donna nera attraente potrebbe essere violentata da un bianco in piena impunità legale. Se suo marito, il suo amante, figlio o padre avessero qualcosa da dire in merito potrebbero essere castrato o linciati.

Che sarebbe l’equivalente dell’arringa di difesa dell’ebreo Shylock in Shakespeare:

Mi ha svillaneggiato, mi ha fatto andare in malora mezzo milione, ha riso alle mie perdite, schernito i miei guadagni, disprezzato il mio popolo, rovinato i miei affari, raffreddato i miei amici, infiammato i miei nemici -e per quale motivo? Perché sono ebreo. Un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni? Non è nutrito dallo stesso cibo, ferito dalle stesse armi? Soggetto alle stesse malattie? guarito dalle stesse medicine? Riscaldato e raffreddato dallo stesso inverno e dalla stessa estate di un cristiano? Se ci pungete noi non sanguiniamo? Se ci fate il sollettico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo?

Nel video Marocco interpreta invece il tema della rivolta anticoloniale, pronunciando una frase tratta da I dannati della Terra di Fanon:

In quanto rifiuto sistematico dell’altro e ostinazione caparbia a negare all’altro ogni attributo di umanità, il colonialismo obbliga i propri sottomessi a chiedere continuamente: “Chi sono io veramente?”.

Graziano legge un testo sullo sterminio degli Indiani d’America mentre passano immagini di repertorio sulle esecuzioni del Ku Klux Klan a ricordare le vittime di tutte le ingiustizie razziale. Teatro è il (non) luogo di un utopico dialogo multirazziale: “Tutti noi rappresentiamo molte culture”, ricorda Sellars. Particolarmente toccante è il momento in cui i personaggi, uno dopo l’altro, guardando in macchina, pronunciano la frase: “Non vi dispiaccia il mio colore“.

Lo specchio introduce visivamente il tema del dualismo esteriorità/interiorità, falsità e lealtà, verità e menzogna: il personaggio non ha un solo volto ma mille maschere e questo rende esplicito il concetto shakesperiano che “non bisogna fermarsi alle apparenze esteriori”. Lo specchio, disposto alle spalle del personaggio che parla, permette di restituire sia la contemporaneità di campo e controcampo, sia una visione “prismatica” dello stesso personaggio, generando un complicato incrocio di sguardi e un particolare effetto ottico di loop o di scatole cinesi. Il video dunque, lontano dal voler restituire il “corpo” dello spettacolo, mostra i ragionamenti e le modalità che lo hanno generato, in un cammino à rebours che ripercorre il difficile processo di creazione. In scena gli specchi diventeranno i video, ma secondo lo stesso principio di scomposizione e smembramento del corpo umano, in una potente sintesi visiva dei devastanti effetti di un’economia razzista e della necessità di vedere il mondo da un’altra prospettiva.

Un ringraziamento specialissimo alle mie studentesse Giulia Carrara e Claudia Meini, che hanno svolto una brillante relazione su Peter Sellars e che hanno scrupolosamente trascritto il testo del videodocumentario It’s now our time che ho usato per la mia analisi.

NOTE
 
Peter Sellars ha diretto più di 100 spettacoli in America e in Europa; ha lavorato in collaborazione con il compositore americano John Adams per Nixon in China, The Death of Klighoffer e con il poeta/librettista June Jordan per I was looking at the ceiling and then I saw the sky. Le notizie biografiche riportate sono state tratte in parte dal sito dell’UCLA, in parte dal saggio Fare teatro, fare la società: un’introduzione al lavoro di Peter Sellars di M. Delgado, in M. Delgado – V. Valentini (a cura di) Peter Sellars, Catanzaro, Rubettino, 1999.
 
2 “Sostengo che le arti hanno il compito di spingere all’azione e alla partecipazione, scoprire quello che va fatto e farlo, un ruolo di attivismo puro: dare alle persone la possibilità di riprendersi la loro società, le loro sicurezze, la propria vita, non come spettatori ma come partecipanti attivamente impegnati”P.Sellars, La questione della cultura, in V.Valentini, M.Delgado (a cura di) Peter Sellars, cit., p. 38.
 
3 V. Valentini, Interculturalismo e modernismo nel teatro di Peter Sellars in Peter Sellars, cit., p. 57.
 
4 P. Sellars, Conferenza tenuta a Carnutum, Austria, 1989.
 
5 P. Sellars, Conferenza tenuta a Carnutum, Austria, 1999, in M. Mac Donald, Sole antico, luce moderna, cit., p. 92.
 
6 Intervista a P. Sellars a cura di Leonetta Bentivoglio, “la Repubblica”, 18 novembre 2001.
 
7 P.Sellars, La questione della cultura, Lisbona, Fourth Elia Conference, 13-16 novembre 1996, in V. Valentini – M. Delgado (a cura di), P.Sellars, Catanzaro, Rubbettino, 1999, p. 32-33.
 
8 “Théâtre/public”, gen.feb.1996, numero monografico Théâtre et technologie.
 
9 Dal videodocumentario della BBC It’s now our time su “The Merchant of Venice” ,1994.
 
10 F. Maurin, Usi e usure dell’immagine: speculazioni su “The Merchant of Venice”, in V. Valentini – M. Delgado (a cura di), Peter Sellars cit., p. 115. Trad. di A. Pomarico (Ia pubbl. in B. Picon-Vallin, a cura di, Les écrans sur la scène. Tentations et résistances de la scène face aux images, Lausanne, L’age d’homme, 1998). Rimando senz’altro al testo di Maurin per la descrizione dettagliata dello spettacolo.
 
11 It’s now our time. A new generation approach to Shakepseare, 55′, col., 1994. Regia: Peter Sellars. Produzione: M. Kustow/Holmes associates per BBC television. Trasmesso su BBC 2 nel 1994.

Anna_Maria_Monteverdi




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