La stagione a Parigi

Medea con la regia di Deborah Warner & altri spettacoli

Pubblicato il 10/04/2003 / di / ateatro n. 051

Dopo tanto silenzio, due parole sulla stagione…

So che sembra strano a dirsi, la stagione teatrale parigina in corso pare per certo aspetti un po’ meno ricca di quella dell’anno precedente, soprattutto per quanto riguarda le presenze internazionali.
Non bisogna trascurare che il periodo autunnale fu segnato da un evento di grande portata, 4.48 Psychose di Sarah Kane, messo in scena nel suggestivo spazio del Théâtre des Bouffes du Nord da Claude Régy ed interpretato da un’Isabelle Huppert all’altezza della sua fama e che la primavera è segnata dal ritorno al pubblico del Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, che a partire dal 2 aprile presenta Le Dernier Caravansérail, creazione collettiva realizzata a partire dai racconti affidati ai componenti della troupe dai profughi incontrati nei campi di Sangatte, dell’Australia, Nuova Zelanda e di altri luoghi dimenticati del mondo. Per il momento la stampa non ha valorizzato molto il debutto di questo lavoro del Théâtre du Soleil, con un atteggiamento che trovo piuttosto stupefacente e sui quale potrò riflettere meglio una volta visto lo spettacolo…e ovviamente mi impegno a offrirvene un resoconto!
Certamente a determinare la minore varietà e la minore ricchezza (il che non significa povertà, anzi: riuscire a seguire tutto ciò che viene offerto è pressoché impossibile!) di questa stagione contribuisce non poco la “defezione” del Théâtre de l’Europe, l’Odéon, che ha chiuso per restauri la sua sede storica accanto ai giardini del Luxembourg, e si è trasferito negli Ateliers Berthier, i capannoni normalmente utilizzati per le prove e la costruzione delle scenografie, situati ai margini settentrionali della città, che sono stati debitamente attrezzati in maniera da accogliere degnamente il pubblico intellettuale e un po’ alla moda che frequenta abitualmente i suoi spettacoli. A causa di questo costoso trasferimento, il numero degli spettacoli presentati è stato ridotto a tre, e riportato ad un ambito esclusivamente francese. Il nuovo teatro ha aperto le porte con il celebrato ritorno alla scena teatrale di Patrice Chéreau, che ha messo in scena su commissione una Phèdre di Racine, unanimemente acclamata dalla stampa e gratificata da un’enorme successo di pubblico, ma, secondo fonti differenti meno ufficiali, piuttosto deludente: un prodotto commerciale di ottima confezione e niente più. Se riuscirò a procurarmi un biglietto, impresa di grandissima difficoltà, visto che da mesi lo spettacolo è tutto esaurito, non mancherò di fornirvi notizie di prima mano. Le altre due produzioni sono realizzate attraverso uno sdoppiamento della troupe dell’Odéon, di cui avevamo avuto occasione di parlare l’anno scorso a proposito de La mort de Danton: il protagonista dello spettacolo della stagione precedente, Patrick Pineau, si è cimentato nella regia, e ha montato, avvalendosi degli attori consueti della compagnia, Les Barbares di Gorki, rappresentato in alternanza con Phèdre. A maggio sarà la volta de El Pelele, messa in scena di Georges Lavaudant di un testo Jean-Christophe Bailly, autore con cui il regista intrattiene una collaborazione artistica che data ormai vent’anni.
Bisogna anche ricordare il passaggio nelle vicinanze di Parigi di Giorgio Barberio Corsetti con Le metamorfosi di Ovidio in occasione del “6° Week-end Italien” alla Ferme du Buisson a Marne-La-Vallée, la cui edizione è stata arricchita a livello teatrale dalla presenza dei Motus con Twin Rooms e di Armando Punzo con Nihil, Nulla, e quello ormai divenuto quasi un appuntamento tradizionale, di Frank Castorf con la troupe della Volksbünhe di Berlino al teatro Bobigny 93. Quest’anno il regista tedesco ha presentato per pochissime serate un’interessantissima messa in scena de Il Maestro e Margherita di Bulgakov, in cui la complessità dei piani narrativi del romanzo si traduce scenicamente nella moltiplicazione dello spazio e del tempo tramite l’utilizzazione, a tratti smodata, di tecniche audiovisive.
E arriviamo infine allo spettacolo di cui vorrei parlarvi un po’ più a lungo, Medea di Deborah Warner, giovane regista inglese saltuariamente rappresentata a Parigi dal 1989, la cui partecipazione alla stagione colma almeno in parte un curioso vuoto di scambi fra la capitale francese e l’Inghilterra. Lo spettacolo è andato in scena al Théâtre de Chaillot dal 18 al 30 marzo, accompagnato da una forte campagna pubblicitaria – manifesti con la foto di una camicia da notte bianca macchiata di sangue hanno invaso le stazioni della metropolitana circa un mese prima -, celebrato dalla stampa e indicato dalle principali riviste di critica teatrale specializzata come assolutamente imperdibile. La conseguenza: l’enorme sala Jean Vilar è stata riempita quasi ogni sera. E in questo caso, niente delusioni… vediamo perché.

MEDEA
di Euripide
Regia:
Deborah Warner
Traduzione inglese: Kenneth McLeish e Frederic Raphael
Scenografia: Tom Pye
Compositore: Mel Mercier
Costumi: Jacqueline Durran
Suono: David Meschter
Con:
Fiona Shaw, Jonathan Cake, Kirsten Campbell, Joyce Henderson, Derek Hutchinson, Rachel Isaac, Robin Laing, Pauline Lynch, Siobhàn McCarty, Joseph Mydell, Struan Rodger, Susan Salmon, James Buchsbaum, Dylan Denton, Michael Tommer

L’impatto visivo e sonoro e l’organizzazione spaziale
Entrando nella sala, la scena si presenta già aperta ed illuminata con luci fredde che ci introducono immediatamente in un’atmosfera livida ed inquietante, che viene ulteriormente accentuata dalla diffusione di un accompagnamento sonoro costituito dagli interventi improvvisi di suoni concreti su di un accordo fisso e cupo. Il palcoscenico è collegato alla platea su tutta la sua lunghezza da alcuni gradini, e, a causa di questa invasione della scena nella sala, alcune file di posti sono lasciate libere. Il dispositivo spaziale si compone di pochi elementi semplici, estremamente moderni e quotidiani, che però nella loro combinazione creano un sistema complesso di richiami alla tragedia antica, che ruotano attorno a due fulcri di idee: da un lato l’idea di decadenza, di rovina e di abbandono, da porre in relazione con il contenuto del dramma, che infatti trae il suo punto di partenza dall’abbandono della sua sposa Medea e della sua prole da parte di Giasone, interessato a sposare la figlia di Creonte re di Corinto; dall’altro, una dialettica dentro-fuori, che coinvolge le quinte, il sottopalco, come la platea e gli spazi esclusivi del pubblico, dai quali a volte entrano, annunciandosi con grida ed esclamazioni, gli attori. Questa idea conduttrice può essere messa in relazione con l’organizzazione scenica della tragedia antica e con la sua dinamica del rapporto fra spettatori, coro e personaggi.
Il pavimento è di cemento grezzo, grigiastro e scuro e la parete di fondo di mattoni a vista: su quest’ultima scorgiamo una porta murata, ed un’altra chiusa alla meglio con un telo di polverosa plastica trasparente, e qualche finestra priva di infissi. Sul palcoscenico sono sparsi dei mucchi di materiali da costruzione coperti o meno di plastica trasparente e posti sui supporti di legno che vengono di solito utilizzati per il trasporto di carichi pesanti. A questi materiali si mescolano, costituendo l’unica nota di colore, dei giocattoli, un trenino, un peluche e molti altri ancora disseminati disordinatamente su tutto il palco. Fra la parete di fondo e la scena è frapposta una parete di vetro che si estende su tutta la lunghezza e per un’altezza di circa due metri e mezzo. Al centro di questo muro trasparente si trova una porta a due ante, del tutto simile a quelle che possiamo trovare nei negozi e negli uffici delle nostre città contemporanee. Una porta delle stesse dimensioni e dello stesso materiale, ma satinato, mette in comunicazione la parete di fondo con l’oltre delle quinte, che quindi è continuamente presente agli occhi dello spettatore come spazio luminoso e che rappresenta l’interno del palazzo di Medea. Il vetro è trasparente, permette alla vista di insinuarsi quasi nei luoghi più intimi della protagonista , ma allo stesso tempo, quando le porte vengono chiuse a chiave, costituisce una barriera impenetrabile, che nella scena chiave della tragedia – l’infanticidio – impedisce al coro di intervenire per fermare il compiersi dell’orrenda azione. Riconosciamo in questo dispositivo di grande modernità nei materiali e nell’estetica complessiva, una traduzione fedele, pur nella sua originalità, della skené del teatro greco, strutturata esplicitamente come limite fra un dentro e un fuori, fra due luoghi eterogenei in cui solo gli attori, con le loro maschere, erano autorizzati a circolare.
Due ulteriori elementi caratterizzano la scenografia concepita da Tom Pye: davanti alla porta in posizione centrale, sia nel senso della profondità che della lunghezza del palcoscenico, si trova una vasca quadrata, poco profonda, piena di acqua, che ricorda il TROVA IL NOME dei cortili interni dei giardini romani, e quindi allude ancora ad un rapporto fra esterno ed interno. La piccola piscina è circondata sui quattro lati da una grata metallica, che suggerisce l’esistenza di un “sotto”, oltre che di un “dietro”, anch’esso segnalato dal filtrare della luce attraverso la griglia di metallo e confermato da una scala il cui parapetto di legno e vetro emerge sulla destra del palco ad annunciare profondità nascoste, ma accessibili agli attori, nella parte inferiore del palcoscenico. Lo spazio definito in questo modo si qualifica in maniera evidente come uno spazio intermedio fra il pubblico e l’intimo, e diventa la configurazione spaziale del valore che la vicenda del mito assume per la collettività e del passaggio cruciale in cui ciò che oggi viene definito privato ha il potere di divenire tragico. I rapporti fra i personaggi con la loro vicenda, il coro con il suo ruolo di osservazione e di interazione dialogica, e il pubblico con il suo presente collettivo sono fondamentali in questo passaggio: cerchiamo quindi di capire come Deborah Warner ha abitato lo spazio così costruito, e come ha scelto di trattare la relazione con gli spettatori e la recitazione degli attori.

Il coro e i personaggi
Lo spettacolo inizia con l’ingresso sulla scena (o potremmo anche dire l’uscita?) dalle porte di vetro della nutrice che ci introduce nella situazione di Medea, ci informa sugli avvenimenti che l’hanno determinata e ci presenta la condizione folle e disperata della donna, le cui grida e le cui imprecazioni giungono al nostro orecchio dalle profondità inaccessibili del palazzo. Nel suo racconto concitato avanza l’idea del pericolo che la madre può rappresentare per i suoi bambini, presenti realmente in scena, con i loro zainetti, come appena usciti da scuola, spensierati e accompagnati da un servo fedele a Giasone. Entra poi il coro delle donne corinzie, che Deborah Warner ha reso come un gruppo direi quasi di casalinghe, con le loro sporte della spesa e con le loro borsette; ognuna di esse è ben individualizzata e differenziata rispetto alle altre, sia livello degli atteggiamenti, dei gesti e dei toni della voce, sia a livello dell’apparenza esteriore di immediata evidenza. Tutte sono in abiti moderni, come del resto la totalità degli attori, alcune in gonna, con scarpe con tacchi, altre in pantaloni e scarpe da ginnastica, a rappresentare diversi tipi di femminilità, ora più tradizionale, ora più goffa, ora più aggressiva e mascolinizzata. Ma in questa innegabile differenziazione, il gruppo resta un tutto armonico, la cui essenza collettiva si esplica nel fatto che le battute attribuite al coreuta nel testo di Euripide vengono spezzate e assegnate, a volte in frammenti minimi di significazione, alle varie figure del coro, in una sorta di concerto di voci diverse, simile a quelle di uno stormo di uccelli. Inizialmente il coro porta su una scena, resa gravida di minacce e di tensione dalla nutrice, una ventata di leggerezza: le donne sembrano delle comari di quartiere, che manifestano interesse e partecipazione nei confronti della vicenda di Medea più per curiosità pettegola che per autentica compassione; le loro domande insistenti alla nutrice rompono l’atmosfera soffocante creatasi nella fin dall’entrata del pubblico e dall’impatto con il palcoscenico vuoto. Le figure del coro sono infatti dotate di una certa comicità, che si manifesta nella gestualità un po’ maldestra, nei contrasti e nelle rivalità che si instaurano all’interno del gruppo, e in un certo modo di rivolgersi agli spettatori, con i quali instaurano un rapporto di complicità; il loro aspetto comico si pone in netto contrasto con la recitazione gridata e drammatica della nutrice, che apre il dramma.
Il contrasto è un’altra delle chiavi di volta su cui Deborah Warner costruisce la regia dello spettacolo: la climax alla base del testo di Euripide, è infatti continuamente interrotta e deviata da uno zig-zag di passaggi al registro del comico, del grottesco e dell’ironia, padroneggiati con un ritmo tale da non permettere allo spettatore di allentare l’ attenzione e da mantenerlo in uno stato di tensione costante. Credo che, forse, questa capacità di giocare con differenti registri senza dissipare la forza drammatica, ma al contrario nutrendola della capacità di trasformazione continua che è insita al teatro, sia una caratteristica propria del teatro anglosassone, ereditata da Shakespeare e dalla sua tradizione di rappresentazione. Come non pensare alla Tragédie d’Hamlet realizzata da Peter Brook, e ora in scena al Théâtre des Bouffes du Nord, di cui sono stati più volte osservati in Francia, ora con stupita ammirazione, ora con intellettualistica diffidenza, gli effetti comici? Ma lasciamo da parte queste riflessioni davvero troppo generali, e torniamo al concreto della creazione della Warner, in cui il personaggio stesso di Medea è interpretato con grande virtuosità da Fiona Shaw attraverso un accostamento di atteggiamenti, e di tonalità vocali totalmente contrastanti, dal delirio alla lucidità più distaccata, dall’ira alla tenerezza, dalla disperazione all’ironia: la Medea di Fiona Shaw, attrice che da quindici anni collabora in sinergia con la regista, è una donna concreta, vera, ma che giustamente non può essere costretta nei limiti di una spiegazione razionale di tipo psicologico. È un personaggio i cui gesti e la cui estrema azione infanticida al fondo devono rimanere incomprensibili, appartenenti al mistero dell’oscurità, che nonostante la luce ragione, avviluppa la natura umana.
L’entrata in scena di Medea, dalle porte centrali, è già per lo spettatore motivo di sconcerto per il contrasto con le grida del personaggio sentite poco prima durante il racconto della nutrice: entra calma, statica, con un giovanile abito a fiori, un golfino nero, scarpe da ginnastica e occhiali da sole scuri, a nascondere i segni dello sconforto, e si pone in un rapporto di sfida con il coro e con il pubblico, con un atteggiamento da cui traspaiono le domande: “Ma cosa siete venuti a fare? Cosa credete di vedere? Credete di stare a guardare lo spettacolo di un caso umano?” In seguito questo rapporto muta e continua incessantemente a mutare nel corso dell’azione, in un presente che viene scomposto dalla Warner in singoli attimi ben distinti l’uno dall’altro.
Medea e gli altri personaggi si rivolgono spesso al coro e direttamente, frontalmente al pubblico, in una circolazione di sguardi che obbliga gli spettatori ad una partecipazione autentica, e non voyeurista ed illusionistica, alla vicenda agita sul palcoscenico. Il ruolo di mediazione fra i personaggi e gli spettatori svolto dal coro nel teatro antico è mantenuto e reinterpretato da Deborah Warner con grande intelligenza e raggiunge il suo apice di efficacia e nello stesso tempo di evidenza nel culmine drammatico della tragedia, il momento dell’infanticidio: Medea si trova ormai costretta a uccidere i suoi figli, per impedire che siano altri a farlo in maniera più crudele. Si è vendicata servendosi della sue celebri arti magiche di Creonte e di sua figlia, la futura sposa di Giasone, e sa che la risposta della città di Corinto non tarderà a venire. Mentre ella dichiara la sua risoluzione, il coro raccolto intorno a lei, come pietrificato, non può nulla per fermarla, al di là delle parole che tentano una vana persuasione alla ragione: il coro condivide quindi con gli spettatori l’impossibilità di fermare il precipitare dell’evento che avviene sulla scena, ma al contrario di essi può fare arrivare ai personaggi la sua voce, che rimane comunque inascoltata. Medea, decisa, entra furiosa entra nel palazzo passando dalla scala sul palcoscenico e da questo momento il dispositivo della Warner assume un’efficacia straordinaria. A livello sonoro, sale progressivamente un accordo ripetuto con un ritmo ossessivo, mentre le donne del coro si affollano intorno alla grata, per vedere ciò che a noi spettatori non è concesso vedere: la loro attesa diventa la nostra, i loro sguardi terrorizzati diventano i nostri, in una tensione che sembra salire dalla viscere del palcoscenico per espandersi attraverso il coro nella sala intera. Improvvisamente il ritmo ossessiva cessa, e inizia inaspettatamente una canzone leggera, da radio anni Cinquanta. Le donne si levano guardano il pubblico con aria interrogativa, sospesa; il terrore per una decina di secondi si interrompe, per poi precipitare con ancora maggiore violenza. La ritmica ossessiva ricomincia a volume più alto, come il battito di un cuore in preda al panico, il palcoscenico cala nell’oscurità mentre delle violente luci bianche cominciano a lampeggiare sul fondo, rendendo la scena livida. Le donne del coro si spingono contro la barriera di vetro, attendendo il peggio, che inevitabile si manifesta come uno spruzzo di sangue che schizza sulla porta posteriore e che cola sulla sua superficie liscia. Ma in realtà, il peggio deve ancora venire: uno dei bambini, sfuggito alle mani della madre entra dalla porta posteriore nell’intercapedine fra il palco e il fondo, che si è trasformata in una vera e propria gabbia: è terrorizzato, vuole scappare, si dibatte contro la porta chiusa, che le donne non riescono ad aprire. Medea inesorabile entra a sua volta, lo prende con violenza e di corsa lo porta fuori dalla scena, passando sulla destra del palco. Durante quest’azione il pubblico resta immobile, pietrificato, il respiro sospeso nell’attesa di un’azione che sa già inevitabile; posso dire, certo come un’impressione personale, di avere sentito nella sala qualcosa di simile alla controversa e inafferrabile catarsi di Aristotele.

La struttura complessiva
Pur nell’utilizzazione del contrasto e della metamorfosi continua di un registro nell’altro, è possibile individuare nello spettacolo un andamento complessivo, costituito da due parti dalle sfumature differenti: quella che possiamo definire un po’ artificiosamente prima parte, prevalentemente è costruita sul confronto ora serrato, ora vivace, ora ironico, ora drammatico, del personaggio principale con il coro (e quindi il pubblico, nel senso in cui abbiamo parlato prima), e con gli altri “visitatori” del territorio mediano fra pubblico e privato appartenente a Medea – Giasone, ma anche il Governatore, Creonte, Egeo – secondo una messa in scena tesa a porre l’accento sulla differenza e sulla mutabilità; la seconda è caratterizzata da un più uniforme incupimento dei toni e dal vero e proprio ingresso dello spettacolo nella tragedia. Il passaggio, che avviene sulla scena senza soluzione di continuità, ha inizio nel momento in cui Medea apprende dal Messaggero della morte di Creonte e di sua figlia, e che coincide con il passaggio dal “progetto della vendetta” alla “necessità dell’azione”: il racconto del Messaggero, la vivida descrizione della sofferenze dei due assassinati, degli effetti della veste avvelenata sul corpo della giovane e sul padre contaminato nell’atto di soccorrerla, ci gettano nella crudeltà e ci scuotono con l’enorme potere evocativo della parola teatrale. A livello registico, questo passaggio dalla varietà tonale del progetto alla pesante concretezza del gesto è segnato da un cambio di costume di Medea, che, benché possa essere posto in relazione a livello drammaturgico con il calare della notte, assume un significato poetico autonomo: la donna abbandona i suoi abiti moderni e giovanili, per indossare una camicia da notte bianca vecchio stile e rimanere a piedi nudi. Questa sorta di “ripulitura” o “distillazione” dell’apparenza fisica di Medea, a mio avviso, esprime visivamente, in maniera immediata, la concentrazione del personaggio su di un unico atto da compiere, l’uccisione dei suoi figli, e l’entrata della vicenda nell’universo del mito, ulteriormente sottolineate dall’utilizzazione da parte dell’attrice dell’acqua della piscina: durante il monologo in cui la maga rende pubbliche le ragioni e le sofferenze della sua risoluzione ormai inevitabile, Fiona Shaw entra nella vasca e inizia ad aspergersi d’acqua, fino ad essere completamente bagnata. In tal modo vengono resi ancor più manifesti l’inesorabilità del gesto omicida e il montare dell’azione verso questo compimento inevitabile, dal momento che nel tempo teatrale i segni dell’acqua sul corpo dell’attore non possono essere cancellati: l’acqua introduce nell’universo della finzione teatrale un elemento naturale dal valore forte, perché i suoi effetti su questo universo non sono reversibili nel presente della sua esistenza sulla scena. La regia della Warner si basa molto anche sull’irruzione del concreto e quasi del fisiologico sul palcoscenico, tesi a schiaffeggiare lo spettatore per svegliarlo e immetterlo senza mediazioni al centro dell’azione, dei suoi sviluppi e delle sue conseguenze. Legati a questa intenzione sono ad esempio la scelta di avere dei bambini in carne ed ossa sul palco, ed anche, su un altro versante, il fatto che durante la scena dell’infanticidio, una delle donne del coro reagisca in maniera viscerale con un reale attacco di vomito. Sempre in questa prospettiva, compiuto l’assassinio, Medea entra in scena con i cadaveri insanguinati dei bambini in braccio, che dispone con amorevolezza dietro due cumuli di cemento, rendendoli pudicamente invisibili al pubblico e al coro; Giasone entra correndo dalla platea, esterrefatto, reclamando alla vita la sua prole. Anche Giasone è un personaggio che a mio avviso giustamente rimane irrisolto, su cui la Warner non fa pesare delle ipotesi interpretative nette: noi spettatori non capiamo la natura del suo dolore così travolgente e così esteriorizzato, che da un lato, potrebbe scaturire dalla distruzione di tutte le sue ambizioni da parte di una donna abbandonata che credeva di avere in pugno, ma dall’altro potrebbe anche essere l’umana disperazione di una padre a cui sono stati strappati i figli. Egli rimane prostrato sulla scalinata del proscenio, sospeso nella sua ambiguità, mentre Medea, con un procedere meccanico, si mette al centro della vasca, ed inizia a lavarsi con l’acqua la camicia sporca di sangue. Questo gesto immediatamente ci rinvia a Shakespeare e in particolare a Lady McBeth, perseguitata nel sonno dalle sue mani sporche di sangue che nemmeno l’oceano può rendere nuovamente pure. A differenze del personaggio shakespeariano, Medea, nell’interpretazione del mito data da Euripide, viene salvata da suo padre Apollo e trasportata lontano sul carro del sole: questa ascensione, nello spettacolo della Warner, si trasfigura nel fatto che la donna riesce a cancellare dalla veste le tracce del sangue e a renderla nuovamente bianca come prima del compimento del gesto infanticida.
Lo spettacolo si spegne in sordina sulle solitudini immobili di Giasone e Medea: dopo qualche secondo di silenzio per riprendere fiato, scrosciano gli applausi. Si è trattato di uno spettacolo che personalmente mi ha lasciata scossa e “sazia”, e che in generale ha la facoltà di provarci quanto possa essere forte e violento il teatro e quale possa essere il suo potere di coesione e di indurre a riflettere, attraverso le sue proprie risposte, su di un gran numero di questioni cruciali per la prassi teatrale.

Erica_Magris




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