Alla ricerca dei teatri perduti | Il Teatro Olimpia di Milano
Quando il cafè chantant era undergorud
Un teatro sotterraneo! I miei genitori, assidui frequentatori, ne parlavano spesso: l’Olimpia era un teatro molto signorile, con grandi spazi, in una bellissima posizione a pochi metri dal Castello Sforzesco. E per di più, si trattava di un teatro sotterraneo!
A rendere la cosa ancor più singolare ai miei occhi di ragazzo undicenne, era accaduto un fatto che aveva acuito il mio desiderio di poter entrare, un giorno, in quel luogo misterioso.
Papà e mamma erano andati all’Olimpia a vedere l’Enrico IV con Ruggeri. Sarà stata una domenica pomeriggio di fine novembre o della prima metà di dicembre del 1942, un periodo strano, perché dopo il bombardamento dell’ottobre giunto imprevisto dopo un anno di quiete, si udivano spesso le sirene, ma annunciavano quasi sempre dei falsi allarmi. Ero rimasto a casa con mia sorella, e verso le quattro e mezzo la sirena annunciò quello che a noi parve il solito falso allarme, che infatti si concluse dopo una mezz’ora.
Ma loro alle sei non erano ancora rientrati a casa, come previsto, e li riabbracciamo solo intorno alle sette. Cosa era successo? Al suono della sirena lo spettacolo era stato sospeso e il teatro aveva chiuso le porte trasformandosi in un rifugio antiaereo. Cessato l’allarme, la commedia era proseguita, e adesso i genitori ci stavano raccontando quell’avventura, che accrebbe la mia voglia di scoprire come era fatto quel misterioso teatro sotterraneo.
Che aveva altri aspetti insoliti. Alla fine dell’Ottocento, in quell’ampio sotterraneo si svolgevano gare ciclistiche, manifestazioni di atletica leggera e di pugilato, e il nome “Olimpia”, ricordo di quel periodo tutto dedito allo sport, era rimasto anche al teatro che iniziò l’attività all’inizio del nuovo secolo. Ma più che un teatro era un caffè concerto, la grande platea occupata da molti tavoli, il biglietto d’ingresso che comprendeva anche il costo della consumazione, e il palcoscenico, di dimensioni ridotte, destinato all’esibizioni di cantanti e artisti di varietà. Poi, nel corso degli anni Trenta, l’Olimpia si era trasformato in un vero teatro, che comunque prediligeva il varietà, come gli spettacoli della Compagnia ZaBum creata da Mario Mattoli: spettacoli che attiravano molto mio padre, ma la mamma faceva resistenza: “Sciocchezze!”, diceva.
Quando finalmente sono andato all’Olimpia, mi aspettavo una specie di rifugio antiaereo trasformato in un misterioso e scomodo teatro all’insegna del provvisorio e dell’imprevisto. Era invece un luogo molto accogliente, totalmente rinnovato nel 1942, caratterizzato da un ingresso molto spazioso, che avviava lo spettatore verso una larga scalinata che, in discesa, portava verso un corridoio che racchiudeva lo spazio della platea. Qualcosa di stranamente inquietante, almeno alla prima visione: quella scala verso il basso, anziché verso l’alto, era il plastico invito a qualcosa che assomigliava a una cerimonia di iniziazione che quel giorno della primavera 1947 quando, insieme alla mamma, sono per la prima volta entrato all’Olimpia, purtroppo non si concretizzò. La commedia di Cesare Vico Lodovici L’incrinatura, affrontando la problematica di un difficile rapporto a tre, era del tutto estranea alla capacità di comprensione di un sedicenne che invece, proprio negli stessi giorni, si era entusiasmato con L’albergo dei poveri con cui era iniziata l’avventura del Piccolo Teatro.
Da quel momento, il fascino dell’Olimpia cominciò a tramontare. Frequentandolo, mi rendevo conto che era destinato soprattutto a quella ricca borghesia che abitava nei grandi palazzi nati subito dopo l’Unità in Foro Bonaparte, in via Boccaccio, in via Carducci, un pubblico che si divertiva a spettacoli che si accontentavano di riprendere successi del cinema americano, come Non potrete portarli con voi di Kaufman e Hart, dove Ruggero Ruggeri e Laura Adani cercavano di dare un senso a una commedia che era solo il pretesto per mettere in moto il meccanismo dell’Eterna illusione abilmente governato da Frank Capra.
Il nome, la professionalità, l’impegno di un’attrice come Diana Torrieri non potevano bastare a dare vita a un testo come Incantesimo di Barry, che invece funzionava perfettamente nelle mani di George Cukor. Oppure si potevano scegliere le recite goldoniane della compagnia di Cesco Baseggio, mentre al Piccolo c’era l’Arlecchino strehleriano. Nel frattempo il pubblico, quel pubblico che fino a qualche decennio prima era del tutto appagato dal meccanismo un po’ casuale delle compagnie di giro, stava dedicandosi ad altre attività ricreative, per poi emigrare in altri quartieri, o forse scomparire del tutto.
Nella stagione 1955-1956 ci fu qualcosa di nuovo, grazie all’iniziativa di Maner Lualdi, sempre pronto a mettere la sua celebrità di aviatore al servizio del teatro. Per qualche mese trasformò l’Olimpia in un “Teatro delle Quindici Novità”, l’esperimento di far giudicare dal pubblico, con un sì o un no, quindici atti unici commissionati a noti letterati e giornalisti italiani, e recitati da Carlo Ninchi e Laura Solari, Nando Gazzolo e Mario Castellani.
“L’iniziativa di Maner Lualdi è uno squillo di campanella agli scrittori e al pubblico”, scrisse Eligio Possenti: agli scrittori italiani perché si decidano finalmente a dedicarsi al teatro, e “al pubblico per dimostrargli che né cinema né televisione valgono una rappresentazione teatrale”. Belle parole; ma intanto, in quegli stessi giorni, trionfava Lascia o Raddoppia?, mentre i “grandi attori”, annotava ironicamente Dino Buzzati, vanno “avanti eternamente con Ibsen e con Cecov”. E infatti quell’esperimento, malgrado l’auspicio di Valentino Bompiani – “Il Teatro delle 15 Novità avrà fortuna” – rimase senza seguito, e nulla rimase degli esperimenti tentati da Mario Soldati (La prova decisiva) e Indro Montanelli (Resisté), da Dino Buzzati (Drammatica fine di un noto musicista), Giovanni Mosca (Adamo ed Eva) e Leo Longanesi (Facile, troppo facile). All’Olimpia ripresero le recite della “Compagnia stabile del giallo”, tornò Joséphine Baker ormai cinquantenne, e ci fu anche qualche tentativo di rinverdire la tradizione del varietà. Dieci anni di un lento declino.
Nel 1965 l’Olimpia chiude definitivamente l’attività. Quel grande spazio sotterraneo rimane inerte per molti decenni, poi, quasi come un ritorno alle origini, si apre a un grande emporio di articoli sportivi. Non sono un frequentatore abituale di quei luoghi, ma ogni tanto ne varco la porta, ed entro in quello che era l’accogliente ingresso del teatro: a destra mi sembra di vedere il botteghino, e a sinistra il busto di Maria Melato dello scultore Michele Vedani.
E mi avvicino alla scala: è rimasta intatta. Mentre la osservo, mi sembra quasi di vederla con gli occhi di quel primo giorno della primavera del 1947. Quanti gradini… ma non scendo, mi limito a guardare in giù, dove scorgo una grande animazione, gente che va, gente che viene, e nulla che mi faccia ricordare che laggiù, un tempo, tutte quelle persone stavano per entrare in un teatro.
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