L’Alchimie du Verbe tra Arthur Rimbaud e Fanny & Alexander

Ovvero come (non) diventare adulti

Pubblicato il 04/01/2004 / di / ateatro n. 025

Il testo che segue è stato pubblicato originariamente sul numero di settembre-ottobre de “Lo Straniero“, e viene ripreso su “ateatro” per gentile concessione della rivista (con la quale peraltro i motivi di sintonia sono numerosi: sul numero di novembre-dicembre de “Lo Straniero” si può leggere Il Noboalfabeto di Martinelli-Montanari di recente pubblicato da “ateatro”).
Mi è capitato, dopo la lunga lavorazione di Requiem, che ha debuttato a Ravenna Festival ai primi di luglio, di rileggere un libricino assai prezioso, pubblicato da Quodlibet e scritto da Furio Jesi nel 1972, che si intitola “Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud”. E’ un testo che annuso, manduco e rileggo spesso da alcuni anni, dal 1997, quando me ne parlò in termini entusiastici Marco Belpoliti, saggista, editorialista e scrittore, sempre attento a rimpinzare la mia biblioteca con suggerimenti di acquisto. Inoltre, nel suo ultimo libro, Settanta, edito da Einaudi, scandaglio dei nodi e intrecci letterari degli autori chiave di quegli anni (Pasolini-Parise-Calvino-Sciascia-Manganelli-Arbasino, ecc.), libro che consiglio a tutti i lettori di “Lo Straniero” e anzi mi auspico che Goffredo voglia recensirlo o farlo recensire al più presto, Furio Jesi e il suo libretto sono nuovamente citati nel capitolo “Il sacrificio e la rivolta”. Da qui il mio rinnovato desiderio di riprendere in mano questo libretto, così arduo e difficile per l’ampiezza e profondità di sguardi e linguaggi, che da sempre mi porta a raffronti e riflessioni parallele sul mio fare teatro. Inoltre in Requiem Chiara ha utilizzato il testo di Rimbaud Bateau Ivre con una funzione nodale interna alla partitura che teneva conto della “lettura” di Furio Jesi. Insomma, bisognava approfondire: ho così riletto il testo ponendomi continui interrogativi sul percorso di Fanny & Alexander, su Requiem, sulle parole ascoltate di molti spettatori e amici, sulle recensioni dello spettacolo.
Il testo di Jesi ha un’articolazione molto complessa, nonostante le poche pagine, per cui ho pensato di seguirne passo a passo la struttura, divisa in tredici paragrafetti.
I
F.Jesi introduce il tema del luogo comune all’interno di un’opera d’arte: “Vi sono opere d’arte che hanno il privilegio d’essere materiate di luoghi comuni e di divenire esse stesse un luogo comune alla superficie della creazione dell’artista”. Il luogo comune viene visto nella complessa oscillazione di valori che ne riguarda il concetto: da una parte l’apertura dell’artista al giungere – durante l’atto creativo – di luoghi comuni che si impadroniscono dell’esperienza creativa stessa, dall’altra l’appartenenza del luogo comune a un territorio “non-nuovo”, a una sfera di “non-novità”, che fa dell’opera creata una novità di retroguardia. La novità che attinge al luogo comune ha il privilegio di entrare, in poesia, nel territorio immediato dei monumenti, nel cimitero della poesia, essendo oggettivata come novità per eccellenza.
Il tema è scottante e quanto mai ci riguarda: che cos’è un luogo comune teatrale? Quante volte ci lasciamo impadronire da luoghi comuni teatrali? Questi luoghi comuni, assunti consapevolmente o inconsapevolmente favoriscono l’affacciarsi di uno spettacolo nel campo del cimitero teatrale (cimitero inteso di monumenti celebrativi, che marchiano un’esistenza poetica oggettivata, accettata da una collettività)?
Ma andiamo avanti…
II
Esiste una simmetria, dice Jesi, tra il riconoscere lo statuto autonomo di un’infanzia, vista come luogo di diversità e il regno della poesia (e noi potremmo dire del teatro) come luogo abitato da diversi. Il professare una poetica infantile è tipica di molti gruppi teatrali: tramite uno sguardo infantile non esercito nessun potere, ma dispongo di un serbatoio inesauribile di forze autonome ed esclusive da contrapporre a un mondo di adulti.
Fanny & Alexander, dal film di Bergman, sono per noi da sempre un totem, un simbolo riposante in se stesso, un’immagine di due bambini che da tempo si è impadronita di noi, un’ipostasi infantile: da questo osservatorio regredito, di retroguardia, di balbuzie, ci si affaccia al mondo degli adulti… Ma chi sono questi adulti nel nostro ambito teatrale?
Jesi scrive che “lo stato dei citoyens è interessato allo sfruttamento del potere di cui l’infanzia è serbatoio inesauribile”: chi esercita un potere ha bisogno dei diversi e edifica per loro monumenti. Questi monumenti fanno dell’artista un “classico”, una retroguardia “dalla quale giungono voci profetiche, forze novissimae”. Facciamo un esempio: la Socìetas Raffaello Sanzio può essere ormai collocata nel campo cimiteriale, tra i monumenti teatrali italiani? Qui si sta parlando di una punta del teatro di ricerca italiano, di un gruppo che fa dell’infanzia un manifesto, da tanti dichiarato veggente, e che ormai ha assunto una posizione “intoccabile” agli occhi degli adulti.
Perché, quando l’opera di un artista entra a far parte della cerchia privilegiata dei monumenti, chi non fa ancora parte di questa cerchia tende a considerarla meno vitale, meno nuova, meno “veggente”? Un’opera viene assunta al rango dei monumenti solo nel caso in cui sia materiata da luoghi comuni ormai leggibili da una collettività, quando essa stessa diventa luogo comune per la creazione altrui?
III
Rimbaud dice, al suo amico Ernest Delahaye, che ha scritto Bateau Ivre “perché lo vedano quelli di Parigi”. Proviamo a dire: ho fatto Requiem perché lo vedano quelli di Santarcangelo, oppure quelli di Milano, di Roma… Oppure ancora l’ho fatto perché lo vedano i “Romagnoli” (Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Romeo Castellucci, Mariangela Gualtieri, ecc.). Quante volte formuliamo questo pensiero durante una nuova creazione artistica? Da un lato io sono il bambino che “teme i diversi adulti”, temo l’esposizione e per questo cerco di espormi secondo i canoni di gradimento degli adulti. Chi sono questi adulti? Prima ho fatto una lista: in quanto bambino cerco di essere simile e di piacere ai diversi adulti per eccellenza, teatranti come me, quindi agli amici “Romagnoli” o altri in simile posizione. Ma in quanto teatrante, anziché bambino, diverso, il mio spettacolo “è una merce da offrire, una cosa che può fruttare; e una cosa che può fruttare ed è destinata a fruttare è necessariamente materiata di luoghi comuni”. L’esistenza stessa della mia opera, esistenza-circolazione, è dovuta moltissimo allo sguardo di quelli di Santarcangelo, di Milano, di Roma… Il mercato non è che paga solo merce già nota ma, dice Jesi, bisogna che l’artista abbia un’attitudine, una propensione ad accogliere certi luoghi comuni perché l’opera possa essere cosa in sé, merce apprezzabile. Da quello sguardo dipende la mia stessa esistenza, sopravvivenza: quanto questa preoccupazione influisce sulla mia attitudine ad accettare nella mia opera i luoghi comuni? Ciò che rende l’opera monumento è certamente la sua oggettivazione, il suo farne cosa a sé stante, merce da vendere, anche, nel caso della poesia, a dei posteri. Nel caso del teatro si tratta di monumenti che si sbriciolano quotidianamente, ma che rimangono, anche se per breve tempo, nell’immaginario collettivo. I cippi sono allora i libri, i saggi, le riviste, le pubblicazioni, le cronache, i documenti filmati. Il teatro, così effimero, esprime quindi un vincolo con la morte ancora più forte e saldo di quello della poesia.
IV
“Il bambino non è soltanto più vicino alla morte di quanto lo sia l’adulto, poiché è più vicino alla nascita e dunqua al limitare della non-esistenza.”.
Il bambino è fragile, la morte, come per il vecchio, può colpirlo più facilmente. I posteri, gli adulti, essendo lontani dalla morte possono esercitare il potere, possono avere in mano, gestire un’opera, esserne produttori. Dunque io mi faccio finanziare dagli adulti il mio percorso di bambino, di “fanciullino”, di “in-fans”. Ci sono momenti in cui sono io stesso il mio adulto e devo equilibrare le due spinte, i due vettori. Questo è tipico della complessa articolazione di un gruppo, in cui c’è bisogno di forze dinamiche, in equilibrio, a volte centripete, contrapposte; oggi sarai tu l’adulto, domani tocca a me. Il tutto sempre tramite lo sguardo, verso l’esterno, dell'”infante”, che, innanzitutto, gioca, vive la sua creazione con l’ebbrezza e l’abbandono di una festa. “Giochiamo insieme?” diceva Dorotea a Cipresso, nel teatrino anatomico di Ponti in core, sotto lo sguardo di spettatori adulti. E’ ovvio che ci si aspetta dallo spettatore uno sguardo bambino, ma la sua funzione è, per chi si sottopone al suo sguardo, sempre quella di un adulto. L’attore-bambino-diverso, così vicino alla morte, si sottopone a quella piccola morte vitale che è l’atto teatrale.
V
“Luogo comune, nel nostro contesto, è una categoria di materia poetica denunciata dalla funzione di merce che è conferita dal poeta a una sua determinata opera. Ciò che rientra in questa categoria è ciò che rende cosa l’esito dell’operazione creativa.”.
Prendiamo lo spettacolo Requiem: vi si trovano i luoghi comuni che rendono cosa lo spettacolo esibito “perché lo vedano quelli di…”; i luoghi comuni propri della poetica di Fanny & Alexander (i cosidetti topoi), intrecciati a quelli di un “certo teatro di ricerca” degli ultimi anni. Topoi, nel significato tradizionale dell’espressione, caratteristici della poetica di Fanny & Alexander, che ritornano in Requiem sono: il mito della morte, come luogo da attraversare, vitalissima discesa iniziatica e metamorfosi; l’adolescenza-infanzia, come luogo soglia da cui ci si affaccia al mondo degli adulti; il mito della coppia visto dall’angolatura dell’abbandono e del tradimento, dell’ostacolo; l’immagine del monumento-teatro-sarcofago nuziale da cui ha origine la creazione stessa dell’opera. Topoi da “certo teatro di ricerca” italiano, sono tutti quelli che ruotano attorno alla scelta di un mito discenditivo e alla problematica del suo attraversamento: in Requiem si attinge a un luogo comune per eccellenza, il mito di Amore e Psiche, che viene assunto come elaborazione di un tradimento, di un lutto, di un abbandono e come percorso iniziatico interno alla creazione dell’opera. Siamo partiti con immaginare l’eroina Psiche, una fanciulletta qualsiasi, come una possibile Alice, che in seguito alla caduta nel sottosuolo, e al lago di lacrime in cui stava rischiando di annegare, a stento si rialza incuriosita da un bianconiglio che ne racconta la storia, il mito di Amore e Psiche. Il bianconiglio però si perde nei fili della storia, in preda a un disorientamento linguistico, alla balbuzie più totale (forse si tratta di Fanny & Alexander…) mentre Psiche-Alice usa la storia stessa per salvarsi, anzi la spegne, spegne “questo Requiem, questa vostra litania…”, la creazione stessa. Ne rimane un marchio indelebile, come sempre dopo un percorso iniziatico, quando si accoglie su di sé l’esperienza del mito e la si fa paradigma della propria creazione.
Il nostro bianconiglio è sicuramente, dichiaratamente “parente evidentemente prossimo dell’analogo personaggio dell’Orestea secondo la Socìetas Raffaello Sanzio” come scrive un adulto, Gianni Manzella (“il manifesto”, 19 luglio 2001), che di luoghi comuni teatrali è un esperto, ma è anche parente dell’asino psicopompo di All’Inferno! di Marco Martinelli: si potrebbe cominciare da qui una catena di parentele che, tramite Propp, Jesi, Carroll, Artaud, Apuleio e la bella addormentata nel bosco ci porterebbe direttamente al mito di Adamo ed Eva; ma è certamente più comodo fermarsi ai luoghi comuni-topoi più facili da riconoscere e che non richiedono studio, approfondimento. Sono topoi peculiari di un “certo teatro di ricerca” anche forme e immagini utilizzate nello spettacolo: in Requiem se ne potrebbero diagnosticare moltissimi, dall’uso del dialetto a quello dell’animale in scena, dalle luci in movimento al rapporto musica-azione, dall’impianto scenografico all’uso della voce, ecc. Ci si apre ai luoghi comuni del fare teatro tramite l’intreccio tra i topoi peculiari esibiti della propria poetica e quelli di un “certo teatro di ricerca” anche e soprattutto quando si nega ogni parentela con questi luoghi comuni, proprio perché negandoli si dichiara di non esserne immuni e si richiama indirettamente la loro esistenza.
“Conseguenza dell’esibizione è però l’accesso a ipostasi della realtà – i luoghi comuni – che arredano lo spazio pedagogico in cui gli adulti costringono il bambino a vivere”. “L’adeguamento a codesta pedagogia è esibizione e mercificazione, la spinta a subire codesta pedagogia è necessità di sopravvivere e necessità di trarre frutto dall’opera. Gli adulti che impongono codesta pedagogia assumono le sembianze di coloro che elargiscono sopravvivenza e guadagno.”
Quando il fanciullo esibisce la sua opera, anche se ancora zoppicante e incompiuta, perché – in quanto teatrante – deve mercificarla, arrivare all’appuntamento con la prima, “venderla”, rischia moltissimo: rischia che l’adulto che “elargisce sopravvivenza e guadagno”, che generalmente è in grado di leggere il livello più superficiale dei luoghi comuni interni all’opera e si ferma lì, non permetta all’opera di circolare come merce e restare in vita tramite la circolazione. Sono innumerevoli i casi di opere teatrali che muoiono per via del giudizio, spesso fin troppo frettoloso, degli adulti di…
La scommessa di tutti è quella di riuscire, da fanciulli, a oggettivare la propria opera al punto tale da farne un luogo comune alla superficie della propria creazione. A quel punto “quelli di…” si riferiscono solo ai luoghi comuni interni alla macchina poetica di quella creazione e la mercificazione si può dire così per sempre assicurata. E’ il momento in cui l’opera è equivalente a un simbolo riposante in se stesso.
VI
E’ ovvio che il fanciullo-poeta-teatrante non ama gli adulti in generale e soprattutto quelli da cui dipende esclusivamente la mercificazione della propria opera. Egli si deve scegliere, tra gli adulti, “adulti solo quanto alla loro potenza, bon poètes“, dei sovrani cui dedicare l’opera, un luogo privilegiato, un “haut-lieu” in cui i luoghi comuni siano accettati, ma in quanto luoghi comuni inversi a quelli graditi agli adulti in generale: “di quelli che valevano come moneta corrente nel regno degli adulti (sebbene non nell’haut-lieu)”.
“Nell’haut-lieu si praticava la veggenza, quindi l’inverso del guardare”. Questi sovrani, personalissimi, potrebbero essere i “Romagnoli”, per esempio, citati al paragrafo III.
Si tratta di una vera e propria insurrezione attuata sotto lo sguardo di “modelli”, sovrani designati per riflessione di specchi che io individuo in Requiem. Insurrezione di chi dichiara l’opera, l’assunzione di un mito come territorio di rivolta interna, di sacrificio personalissimo, che vede nell’exemplum teatrale una via (polittttttticissima, direbbe Marco Martinelli) di sprofondamento in sé, di messa in gioco continua, di dinamica esibita, sì mercificata, sì rispecchiata, ma comunque sempre vissuta e attuata su di sé, sul proprio corpo marchiato a vita, mai consolatoria, sempre vitalissima, che non concede garanzie agli adulti in generale. E’ il privilegio della condizione dell’infanzia e dell’haut-lieu, in cui gli adulti perdono vita per mano di diversi che scelgono la creazione artistica come un “bateau ivre” liberatorio da cui farsi trascinare, magari “bateau frèle comme un papillon de mai” (fragile come una farfalla di maggio)…
VII
Si può dire che questa esibizione-mercificazione da cui deriva l’insurrezione liberatoria è riscattata e resa necessaria “dall’esistenza di sovrani veggenti e soccorritori, valorizzatori”. “L’apertura ai luoghi comuni è solo formalmente adesione alla falsa oggettività degli adulti, di coloro che esercitano il potere: di fatto essa si propone di essere accumulo di forze per la rivolta”.
Ogni rivolta è una sospensione del tempo storico. “La maggior parte di coloro che partecipano a una rivolta scelgono di impegnare la propria individualità in un’azione di cui non sanno né possono prevedere le conseguenze”. Il teatro è l’opportunità della rivolta intestina che uno ha davanti a sé e davanti al mondo degli adulti, “una battaglia cui si è scelto deliberatamente di partecipare”.
VIII
Il paragrafetto di Jesi in cui descrive la qualità inconsueta del tempo sospeso della rivolta è bellissimo: “Si può amare una città, si possono riconoscere le case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’haut-lieu e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri;propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate…”. Per il teatrante la rivolta avviene soprattutto durante il momento privilegiato di una nuova produzione-spettacolo, quando il proprio spazio circoscritto diventa quello della scena, del teatro o luogo scelto per la rappresentazione, luogo individuale, ma anche haut-lieu comunitario, in cui viene ipotecato il tempo storico, ma anche quello biologico, del cibo, degli affetti, del sesso, del sonno; quando la città in cui si vive, il mondo esterno si sfuocano, perdono i contorni, diventano secondari e solo lo spazio prescelto è a sua volta lo spazio vitale omnicomprensivo, immaginario e concreto, casa, letto, giaciglio, cucina, campo di battaglia; quando l’haut lieu è visto in una luccicanza che non possedeva prima e lo si percorre come per la prima volta, con passi da gigante, senza fatica, possedendolo, sentendolo veramente, nuovamente proprio; quando, prima dello scontro con gli altri, un istante prima della prima, dell’arrivo del pubblico, esso è avvolto in una “quiete paradossale”. Dopo che la battaglia è avvenuta si torna a vivere, indipendentemente dal suo esito, con uno sguardo più solitario, la battaglia individuale di sempre. E’ la città, nel nostro caso, che torna a vivere, a farsi nitida: la si riscopre, se ne osservano i cambiamenti, che erano sfuggiti; si riallacciano gli affetti con gli altri; si tirano le somme e si osservano le conseguenze dopo che “ciò che avveniva, con estrema rapidità, sembrava avvenire per sempre.” Ed è nel momento della rivolta che, in una collettività come quella di un gruppo, ci si misura realmente con se stessi e rispecchiandosi negli altri, si osserva, una volta per tutte, di quale opacità o nitore si sia capaci durante tale assalto. “Ora o mai più! Si trattava di agire una volta per tutte, e il frutto dell’azione era contenuto nell’azione stessa. Ogni scelta decisiva, ogni azione irrevocabile, significava essere in accordo col tempo; ogni indugio, essere fuori del tempo. Quando tutto finì, alcuni dei veri protagonisti erano usciti dalla scena per sempre.”.
IX, X
Il presupposto tattico della rivolta di Fanny & Alexander è, come per Rimbaud, la condizione dell’infanzia, di quel luogo di non responsabilità che è il gioco amoroso infantile, in cui gli adulti siano assenti e sotto lo sguardo di sovrani, anch’essi bambini, nell’orrizzonte di un regno in cui si è sudditi bambini, “in cui la responsabilità sia rimpicciolita alla misura di giochi infantili e la fragilità per eccesso sia un’oggettiva liberazione dalla responsabilità.”. Dietro questa natura si nascondono i teatri, il ministero, lo Stato italiano, l’Europa, il super-mercato, il super-regno degli adulti. Questa “profezia di rivolta” si contrappone alla “falsa oggettività pedagogica degli adulti e alla falsa oggettività dello sfruttamento di chi produce merci”. Essersi aperti ai luoghi comuni, che hanno materiato l’opera perché fosse merce, è il presupposto dell’artista che accumula forze in vista della rivolta, in cui può continuare a dichiararsi infante, cosa non-responsabile, straordinaria forza “veggente” per sé e per gli altri.
XI, XII, XIII (Conclusioni)
Se i luoghi comuni posseggono oggettività, dice Jesi, e se li consideriamo come vere e proprie “entità, cose, che giungono nell’esperienza creativa dell’artista e se ne impadroniscono”, è lecito porsi la domanda: da dove giungono? Jesi tira le file della sua tesi a partire dal parallelismo luogo comune-mito e da quella che si potrebbe definire la summa del suo pensiero, evocando la macchina mitologica “che produce mitologie e induce a credere, pressante, che essa stessa celi il mito entro le proprie pareti non penetrabili”. Abbiamo visto che la tesi era applicabile non solo a Rimbaud, ma anche all’opera di Fanny & Alexander, e non solo: questo implica che bisogna forse allargare l’ampiezza dell’orizzonte del discorso. Se i luoghi comuni, per “toccarci”, provenendo da un “altro mondo”, quello della macchina mitologica, devono “giungere”, vuol dire credere all’esistenza autonoma del mito entro la macchina mitologica, e alle sue epifanie sotto le sembianze di luogo comune o mitologhema. Nel caso in cui si creda che “la macchina mitologica sia vuota (o piena solo di sé, che è lo stesso)”, vuol dire essere persuasi che “l’essenza dei luoghi comuni usufruibili nell’Alchimie du verbe” di Fanny & Alexander “sia unicamente un vuoto cui la macchina mitologica rimanda”. L’equivalenza è tutta tra macchina mitologica e macchina poetica (Alchimie du Verbe) di Fanny & Alexander: la funzione di questa macchina “consiste nel rinviare al vuoto di essere”?. L’alternativa è tutta nel credere o non credere all’essenza autonoma del mito all’interno della macchina mitologica o del luogo comune all’interno dell’Alchimie du Verbe: se ci credo posso confidare nelle forze profetiche e liberatorie della rivolta, essere trasportato da forze che provengono da “un altro mondo”, sospendere il tempo, affermare come in un gioco l’infinita “ripetibilità delle sospensioni del tempo”, appellarmi a “l’inesprimibile”, affermare dall’interno della mia “scatola” poetica la problematicità della scatola stessa, metterla in crisi, guardarla esplodere, indicare nodi per me e per altri, oscillare continuamente tra i luoghi comuni della materia poetica e quelli comportamentali, gestuali, della vita di sempre, variarli, farli rispecchiare, contraddirli, abbandonarmi all’ebbrezza di questo vortice irruente. Se non credo all’essenza autonoma del mito o del luogo comune all’interno della mia Alchimie du Verbe, e penso che quel mondo parallelo non sia esistente (se lo dichiaro, ne affermo comunque involontariamente l’esistenza…), se non credo nella potenzialità di trascinamento insita nella materia poetica, e al fatto che essa possa impadronirsi di me, ma affermo che io ne possa essere il solo esclusivo artefice, il pianificatore, sarò uomo che ha davanti a me solo la rivoluzione o conservazione, il suo tempo unico e tecnicizzato, non ripetibile, la rinuncia a me stesso, il Progetto, una vita non più abitata da metafore, non più immaginaria, senza messa in gioco, decisamente solitaria, lontana dai confini irti del corpo, in un’isola dove io e altri sono la stessa cosa, commensurabili, geometrici. Jesi dice che in realtà le due alternative non sono altro che due modi differenti di vivere il tempo che vige all’interno della scatola mitologica, e che rimandano entrambe al vuoto di essere, alla radice del tempo, all’essenza del linguaggio, che solo il privilegio della materia poetica può forse mettere in crisi…
“Nel Bateau ivre il fallimento del’esperienza del regno della libertà in termini di materia poetica apre per Rimbaud la via di una critica al privilegio della materia poetica, che condurrà all’abbandono dell’attività creativa ed all’esperienza abissina: dal luogo comune in sede di poesia al luogo comune in sede gestuale, di comportamento. Se l’attività poetica di Rimbaud costituisce un momento di rivolta, la sua attività di commerciante e di viaggiatore in Africa costituisce un momento di rivoluzione. Si tratta però di una rivoluzione solitaria e pessimistica, che procede dalla convinzione dell’impossibilità di spezzare il tempo e soprattutto di spezzare la radice del tempo: il vuoto di essere che possiamo chiamare mito o essenza dei luoghi comuni. Spezzare codesta radice significherebbe disporre di un linguaggio o di un complesso di gesti tali da affrontare la macchina mitologica su un piano che consistesse di dichiarare al tempo stesso l’esistenza e la non-esistenza di ciò che la macchina dice di contenere: J’écrivais des silences…je notais l’inexprimable… Proprio nella qualità pessimistica e nel carattere individuale, solitario, di questa rivoluzione naufraga la componente infantile della seconda parte della vita di Rimbaud, dopo l’abbandono della poesia. L’abbandono dell’Europa è ,sì, un luogo comune conciliabile con l’infanzia: ma scegliere l’abbandono dell’Europa quando non si crede più nella sua efficacia liberatoria è rinunciare alla condizione infantile ed entrare a far parte del regno degli adulti che, soli, accettano di dedicarsi a rivoluzioni di cui danno già per scontato il fallimento. Se Bateau ivre era stato scritto perché lo vedessero, la seconda parte della vita di Rimbaud è stata anch’essa vissuta come una merce, perché il regno degli adulti vedesse Arthur Rimbaud divenuto un adulto.”

Luigi_De_Angelis

2004-01-04T00:00:00




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