Il programma della Biennale Teatro 2004

36. Festival Internazionale del Teatro. Direttore Massimo Castri. Venezia, 15 settembre > 2 ottobre 2004

Pubblicato il 02/04/2004 / di / ateatro n. 066

Il progetto Biennale Teatro 2004 si sviluppa intorno ad un nucleo centrale: la drammaturgia italiana contemporanea. Questo è il filo conduttore degli spettacoli, ma anche il tema per un’analisi che porti nuova consapevolezza al dibattito sul teatro, offrendo un’occasione per immaginare e progettare la scelta futura a partire dalla nuova drammaturgia e per affrontare in termini concreti il ‘problema’ della scrittura teatrale italiana nel corso del Novecento: un territorio continuamente e pericolosamente sospeso sull’afasia e insignificanza o l’imitazione ripetitiva di modelli stereotipi del novecento europeo. Il testo ed il linguaggio teatrale possono parlare ancora dell’oggi; per questo l’obbiettivo è quello di dare visibilità ai progetti di giovani autori e artisti che nell’ultimo decennio hanno riacceso l’interesse di critica e di pubblico, trovando finalmente spazio nei cartelloni dei nostri teatri.
Il progetto è strutturato in tre sezioni: la prima è dedicata ai ‘padri’ della drammaturgia contemporanea italiana: Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori. Pasolini è autore di una scrittura teatrale forte e coerente, personalissima ma ancora intimamente connessa con la struttura sociale, la sua analisi, la sua critica. Pasolini può essere un riferimento per la sua condizione di anomalia nel vuoto della scrittura teatrale italiana post-pirandelliana, per la sua offerta di un deposito di scrittura teatrale d’oggi, circoscritto ma estremamente denso: un patrimonio quasi unico, un’isola di scrittura che deve essere ancora studiata e decifrata. Giovanni Testori è l’autore delle sperimentazioni linguistiche, stilistiche e tematiche; a lui si deve l’invenzione di una vera lingua poetica che ha dato voce e forza ai drammatici conflitti interiori tra ‘spirito e corpo’, ‘amore e male’, ‘vita e morte’ e affrontato gli eventi politici e sociali con sorprendente lucidità analitica. In questa sezione verranno presentati l’Orestea di Eschilo nella straordinaria traduzione di Pasolini, Bestia da stile, dello stesso autore, e La monaca di Monza di Testori.
La seconda sezione si concentra sull’oggi, coniugando testi italiani recenti con nuovi sistemi e forme teatrali. I modelli di struttura e di linguaggio sono plurimi intendendo dare una visione più ampia della situazione della scrittura italiana contemporanea, e spaziano dalla scrittura ‘dell’oggi’ di Letizia Russo, al lavoro sulla memoria storica di Celestini, alla drammaturgia che nasce direttamente dal lavoro con l’attore di Emma Dante. Completa il progetto una sezione dedicata alla drammaturgia europea contemporanea, allo scopo di attivare una dialettica di confronto con il lavoro di giovani drammaturghi provenienti da civiltà più strutturate, in cui il valore della scrittura teatrale e il suo potere di farsi interprete della società non hanno conosciuto soluzione di continuità.
Giovani autori, scrittura dell’oggi e giovani registi a cui offrire un’occasione di lavoro e di ‘emersione’ in un contesto teatrale italiano spesso sordo alla necessità del ricambio e dell’invenzione di nuove leve artistiche. Gli spettacoli nasceranno alla Biennale nella “cornice” veneziana ma essendo collegati a momenti produttivi esterni avranno poi una vita più lunga nei circuiti e nel tessuto distributivo.
Massimo Castri

15 settembre – Teatro alle Tese – ore 20.00
16 settembre – Teatro alle Tese – ore 21.00
La monaca di Monza
prima assoluta
di Giovanni Testori
regia Elio De Capitani
scene e costumi Carlo Sala
luci Nando Frigerio
con Lucilla Morlacchi, Marco Baliani, Cristina
Crippa, Corinna Agustoni, Anna Coppola, Andrea Facciocchi, Laura Ferrari
produzione Teatridithalia, Teatro Metastasio Stabile della Toscana, La Biennale di Venezia con il contributo della Regione Lombardia, Culture, Identità e Autonomie della Lombardia per le celebrazioni per il decennale della morte di Giovanni Testori

È un progetto che Lucilla Morlacchi accarezzava ormai da tempo quello di interpretare la Monaca di Monza, un testo del 1967 portato per la prima volta in scena da Luchino Visconti con la compagnia Brignone-Fortunato-Fantoni. Ora, grazie agli sforzi congiunti di Teatridithalia e del Teatro Metastasio Stabile della Toscana, con la complicità di Elio De Capitani alla regia e di Marco Baliani che la affianca come interprete, il progetto è finalmente giunto a maturazione.
L’incontro tra De Capitani e la Morlacchi risale al 1990 in occasione dell’allestimento della Sposa di Messina di Schiller per le Orestiadi di Gibellina. A questo è seguita l’esperienza dei Turcs tal Friul, prodotto alla Biennale di Venezia nel 1995 e ripreso con successo a Milano e Roma. Se allora avevano affrontato un inedito di Pasolini, non facile per lingua (interamente scritto in friulano) stile e contenuti, oggi si apprestano a una nuova sfida con questo lavoro di Testori che al suo esordio aveva suscitato molte polemiche. “Non è un caso – ha sottolineato Oliviero Ponte di Pino in un articolo sui più recenti spettacoli testoriani – che oggi si continui a lavorare su Pasolini e Testori che non furono solo e tanto drammaturghi di professione, ma artisti e intellettuali impegnati su vari fronti, compreso quello teatrale. Un’altra convergenza: nel fatidico ’68 Pasolini e Testori sentono la necessità di reagire alla situazione del teatro italiano, con due prese di posizione assai nette: il primo con il Manifesto per un nuovo teatro (su “Nuovi argomenti”), il secondo con Il ventre del teatro (su “Paragone”), in polemica contro il teatro di regia e la sperimentazione, a favore di una riscoperta del valore poetico della parola teatrale e del valore rituale dell’evento teatrale.”

Testori guarda al personaggio manzoniano della Monaca di Monza, indimenticabile figura femminile, e tramite la “sventurata” rielabora un tema che, da Dante al Novecento, ha segnato la storia della nostra letteratura, quello della fanciulla malmonacata: “è un frammento doloroso ed emblematico della storia delle donne l’origine di una galleria di creature fantastiche, sospese tra rinuncia alla vita e disobbedienza alla regola, tra rassegnazione e anelito disperato verso una forma di ‘salvezza’. Salvarsi dalla sepoltura in un chiostro, unica dimensione immaginabile per donne senza dote, vedove, deformi o sole, equivale spesso a uno slancio eretico” (Il topos della malmonacata nella letteratura italiana, tesi di Silvia Filippelli). L’autore ripercorre la vita di Marianna de Leyva (questo è il nome storico della famosa monaca di Monza) facendola riemergere dalla tomba. È lei stessa a richiamare sulla scena a uno a uno gli spettri ormai fetidi e consunti di chi le è vissuto accanto: “Ma adesso siamo qui, incorporati tutti in questo branco di polvere, legati e sciolti in questo intrigo di bestemmie sfiatate e di cupidigie spente…” Tutti sono peccatori, corruttori, corrotti o falsi bigotti: i genitori che odiandosi reciprocamente l’hanno messa al mondo non voluta, il padre che l’ha derubata dell’eredità e costretta in convento, il prete laido e sconsacrato che l’ha spinta subdolamente verso Gian Paolo Osio, la madre superiora interessata unicamente al buon nome del convento e l’amante posseduto dalla passione come dalla tentazione del sangue e dell’omicidio. Sono affrontati temi chiave dell’esistenza dell’uomo in ogni epoca, cari all’autore dai primi testi fino agli ultimi della sua produzione: l’urlo di rabbia contro la nascita e la morte, lo scandalo del peccato, la bestemmia vissuta come una sfida e dialogo con il creatore, la potenza della parola in senso esistenziale, teatrale e metateatrale. Lucilla Morlacchi, che conobbe Testori lavorando nell’Arialda diretta da Visconti (1960), e in seguito nei Promessi sposi alla prova diretti da Andrée Ruth Shammah (1984), su Hystrio di alcuni mesi fa lamentava che “la cultura provinciale che domina il nostro paese non approfondisca l’opera testoriana come dovrebbe. Mentre il pubblico ne resta assolutamente affascinato”.
In occasione del decennale della morte di Testori, molte sono state le riprese e i nuovi allestimenti che hanno in parte riequilibrato questa situazione.
Manca ora che ritorni sulle scene questo testo ingiustamente poco rappresentato.

Elio De Capitani, regista, attore, autore, ha legato il suo nome a quello del Teatro dell’Elfo entrandone a far parte non ancora ventenne nel 1973. Nei primi dieci anni di storia dell’Elfo è stato protagonista in oltre una dozzina di spettacoli diretti da Gabriele Salvatores, tra i quali Pinocchio Bazaar, Satyricon, Sogno di una notte d’estate.
E’ del 1982 la sua prima regia: l’esperimento radicale di una personalissima versione italiana iperrealistica di Nemico di classe di Nigel Williams che scuote la scena italiana allora assai ostile agli autori contemporanei. Allo spettacolo partecipa un gruppo di giovanissimi attori messi insieme dopo un anno di provini: tra questi Paolo Rossi, Claudio Bisio e Antonio Catania, il nucleo dei futuri “comedians”.
Nell’estate del 1983, l’Elfo nomina De Capitani regista stabile del teatro. Ha inizio il lungo rapporto con Ferdinando Bruni, Ida Marinelli e Cristina Crippa, protagonisti di tutti i successivi lavori di De Capitani all’Elfo, assieme agli altri attori del nucleo storico, Corinna Agustoni e Luca Toracca. La nuova direzione del teatro rivoluziona stile e repertorio, inaugurando una linea di estrema attenzione alla drammaturgia contemporanea. Visi noti, sentimenti confusi, il primo Botho Strauss messo in scena in Italia assieme al primo Fugard italiano, L’isola, valgono a De Capitani e all’Elfo il Premio UBU 1984 per la drammaturgia contemporanea.
Nella stagione ‘92/’93 l’Elfo si associa al Teatro di Porta Romana dando vita ad un organismo unico denominato Teatridithalia. De Capitani, di nuovo alla regia insieme a Ferdinando Bruni, porta in Italia la pièce di un giovane autore canadese, Brad Fraser: Resti umani non identificati e la vera natura dell’amore, che suscita non poco clamore per la scabrosità dei temi trattati e per la crudezza del linguaggio fino a diventare spettacolo cult. A distanza di sette anni De Capitani torna a Shakespeare con Amleto (stagione ’94/’95). Nel marzo 1995 De Capitani mette in scena il suo primo Koltés, Roberto Zucco, e nel giugno dello stesso anno, alla Biennale di Venezia, il suo primo incontro con Pasolini: I Turcs tal Friul, primo testo teatrale dell’autore scritto nel friulano materno di Casarsa, protagonista Lucilla Morlacchi e una compagnia di quaranta attori friulani. Spettacolo vincitore del Biglietto d’Oro per il Teatro 1996.
Nell’aprile ’98 mette in scena La morte e la fanciulla di Ariel Dorfmann.
Nel maggio del ‘99 affronta autori contemporanei italiani con Tango americano di Rocco D’Onghia e La nuova gioventù, firmato a quattro mani con Francesco Frongia, una nuova incursione nel mondo friulano dopo I Turcs tal Friul.
Torna nuovamente a Pasolini scegliendo la sua traduzione dal greco per l’allestimento dell’Orestea di Eschilo, un progetto di respiro triennale che coinvolge gli attori storici della compagnia dell’Elfo e un nutrito gruppo di giovani attrici/cantanti: una vera sfida produttiva e registica. Nella stagione ‘99/2000 firma inoltre, con Ferdinando Bruni, la regia di Edoardo II di Christopher Marlowe, ripreso anche nel gennaio 2001 con un notevole successo di pubblico. Per la Fenice di Venezia firma nel gennaio del 2001 la regia del Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, ripreso per una tournée in Giappone nel mese di giugno.
Gli ultimi titoli allestiti sono stati: Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo, firmato in coppia con Ferdinando Bruni, che ha debuttato nel dicembre del 2002 e viene quest’anno riproposto in una lunga tournée che si concluderà al Teatro Argentina di Roma; Polaroid molto esplicite dell’inglese Mark Ravenhill, testo inedito in Italia, e il Mercante di Venezia di Shakespeare, realizzato per l’Estate Teatrale Veronese nel luglio 2003.

16 > 20 settembre 2004
Tese delle Vergini, Teatro Piccolo Arsenale,
Teatro alle Tese
Orestea di Gibellina

Da anni le Orestiadi di Gibellina volevano riproporre al teatro le domande che dall’antichità classica lo spettatore gli rivolge: domande sul futuro e sul presente, sulla propria comunità e su quanti da fuori vi guardano. E’ nata così questa nuova Orestea, che guarda a Eschilo da questo terzo millennio in cui tutto appare precipitosamente cambiato. Da qui la decisione di chiamare tre registi diversi (per sesso, nazionalità, cultura e formazione), tutti sotto la soglia dei quarant’anni, cui affidare la realizzazione delle tre parti della trilogia. Ad essi la Fondazione Orestiadi ha suggerito solo due chiavi di lettura, strettamente legate tra loro: la prospettiva dell’Africa, che poche miglia dividono dalle coste siciliane con tutte le cronache di dolore di questi anni ma anche di felice integrazione, e il lavoro poetico di Pier Paolo Pasolini, che non solo tradusse Orestea nel 1960 per Vittorio Gassman, ma trovò proprio nell’Africa il luogo di contatto tra il mito e noi, come dimostrano i suoi film, in particolare quel saggio poetico che sono gli Appunti per un’Orestiade africana.
Il primo episodio di questa nuova Orestea è stato realizzato nell’estate 2003 a Gibellina da Rodrigo García. Fedelissimo nello spirito alle chiavi di lettura affidategli, il lavoro dell’artista ispanoargentino ha sconvolto chi l’ha visto, per la violenza e la poesia con cui ha affrontato le tematiche del potere e della sua legittimazione, della spartizione delle risorse, della giustizia e delle responsabilità.
Proprio grazie all’invito della Biennale Teatro diretta da Massimo Castri, quest’anno sono state realizzate e debutteranno per la prima volta a Venezia, gli altri due episodi della trilogia. Monica Conti si avvale di altri linguaggi (come il canto e la musica) per affrontare il “lato femminile” della tragedia, quelle Coefore che sono il luogo di transito obbligato tra un “passato che non passa” e un futuro che resta oscuro e quasi impossibile da razionalizzare. Caden Manson e il suo Big Art Group statunitense si affacciano invece sulla dimensione futura di Eumenidi, usando il progresso della tecnologia come strumento di interpretazione e progettazione del nuovo. I linguaggi, ma perfino il colore e il suono di ogni episodio, saranno così molto diversi tra loro, ma proprio per questo potranno dare più suggestioni e possibilità di comprensione a quelli che restano i grandi e più rischiosi interrogativi della convivenza umana.

Orestea di Eschilo è stato il momento costitutivo di tutte le attività delle Orestiadi di Gibellina, la cui Fondazione ne ha preso, non a caso, il nome. E’ stata infatti la trilogia di Eschilo ad avviare, agli inizi degli anni ottanta, il teatro sui ruderi della città vecchia quindici anni dopo il terribile terremoto che nel 1968 l’aveva distrutta completamente. Il Cretto, il grande sudario bianco di cemento ideato da Alberto Burri, era allora solo un progetto che si avviava a espandersi, ma con la traduzione contemporanea e in siciliano di Emilio Isgrò, e con la regia di Filippo Crivelli e le spettacolose sculture sceniche di Arnaldo Pomodoro, nacquero Agamennuni, Cuefuri e Villa Eumenidi. L’antica trilogia che per la prima volta in occidente aveva mostrato e ratificato il potere dei cittadini di Atene chiamati a giudicare Oreste, amplificava ora la domanda di Gibellina e dei suoi abitanti di una fondazione nuova e di una nuova convivenza tra cittadini.
Poi a Gibellina (sui ruderi della vecchia e negli spazi di quella nuova ricostruita a venti chilometri in una sorta di concorso ideale e generoso tra i più diversi e prestigiosi artisti e architetti) il teatro si è fatto tradizione, quasi necessità. Negli anni sono passati da lì i più grandi artisti della scena italiana e internazionale. Peter Stein vi ha portato la sua Orestea preparata in russo a Mosca negli anni della Perestrojka gorbacioviana. E quella domanda di teatro continua ancora, riproponendo ancora i nostri quesiti alla trilogia più antica, l’Orestea di Eschilo.

16 settembre – Tese delle Vergini – ore 19.30
17 settembre – Tese delle Vergini – ore 21.00
Agamennone,
sono tornato dal supermercato e ho preso a legnate mio figlio
testo e regia Rodrigo García
con Rubén Amettlie, Nico Baixas, Gonzalo Cunill, Anne Maud Meyer, Juan Navarro
musiche dal vivo Standstill
coreografie Elena Córdoba
luci Carlos Marquerie
video Javier Marquerie
animazione computer graphic Ramón Diago
assistente alla regia Mireia Andreu
costumi Galiana
produzione Mercadante Teatro Stabile di Napoli,
Fondazione Orestiadi di Gibellina, La Carniceria Teatro

La tragedia Agamennone è per noi il punto di partenza per parlare di determinati temi di attualità; non intendiamo illustrare l’opera né raccontarne ancora una volta la vicenda.
Con questo Agamennone proseguiamo sulla nostra consueta linea di lavoro: un teatro che metta in guardia dalle conseguenze del consumismo, di un mondo globalizzato in mano a poche multinazionali e soprattutto dal progetto di un nuovo ordinamento mondiale in cui un paese, con la forza delle armi e del denaro, ha più potere del resto del mondo. Il nostro Agamennone parla di guerra e di cibo. Un banchetto di polli allo spiedo che offriremo al pubblico alla fine dello spettacolo, se vorrà dividerlo con noi.
Polli allo spiedo come turisti rosolati sulle spiagge del Terzo Mondo. Polli allo spiedo come alimento che non arriva al Terzo Mondo. Polli allo spiedo nelle loro casse da portare a casa, come cadaveri di soldati rimpatriati.
In questa opera, Hillary può essere Clitennestra. Bill Clinton può essere Agamennone. E Monica Lewinsky una stupenda Cassandra. E Bin Laden potrebbe essere Egisto. E i figli di Saddam potrebbero essere Ifigenia. E Agamennone potrebbe essere Berlusconi. E Canale 5 può essere Cassandra. E Dodi Al Fayed potrebbe essere Egisto. E Lady D potrebbe essere Clitennestra. Il Principe Carlo potrebbe essere Agamennone.
Il fatto è che la tragedia è nel e del mondo industrializzato. La tragedia, ora più che mai, è nel primo mondo. La tragedia siamo noi.
La tragedia si compone di otto atti: e ciascun atto porta il nome di uno dei paesi più ricchi del mondo. Se la tragedia, e solo la tragedia, è nel mondo civilizzato, dove bisogna cercare la speranza? La speranza può trovarsi in qualsiasi angolo della terra, ma non verrà mai scoperta. Perché per scoprire la speranza, ci vogliono soldi e volontà. E coloro che possiedono il denaro preferiscono che la speranza di una giustizia globale rimanga lì dov’è, sepolta in fondo da qualche parte.
Rodrigo García

Per chi ha già visto After Sun, Ronald pagliaccio del Mc Donald, Credo che non hai capito bene, la visone di Agamennone/Sono tornato dal supermercato e ho preso a legnate mio figlio sembrerà un punto conclusivo dell’indagine che Rodrigo percorre da tempo sulla scena. Ma anche chi non ha visto i precedenti, troverà una visione avanzata e molto concreta di cosa possa oggi essere il teatro, della sua capacità ancora inesausta di parlare del mondo senza sottomissione, dell’uso della ragione che sfida le abbuffate ideologiche e quelle gastrointestinali in cui ci troviamo a dimenarci.
L’Agamennone sembra a prima vista parlare d’altro rispetto al testo classico, anche se in modo così scoppiettante da risultare irresistibile.
L’Agamennone ci permette di scoprire insieme al García regista e creatore di contesti scenici, un complesso e solido scrittore di drammaturgia, e il visionario artista visivo fratello dei più avanzati innovatori.
Gianfranco Capitta

Nato a Buenos Aires nel 1964, Rodrigo García dal 1986 vive e lavora a Madrid, dove nel 1989 ha fondato la compagnia La Carniceria Teatro, che ha realizzato numerosi spettacoli seguendo la linea della sperimentazione e della ricerca di un linguaggio personale. Allontanandosi dal teatro tradizionale,
García è stato influenzato in un primo tempo da Beckett, Pinter, Bernhard e da romanzieri come Cèline e Peter Handke. Oggi, sia nei testi, sia negli spazi da lui creati, è possibile rilevare un’affinità con il lavoro di artisti plastici come Bruce Nauman, Bill Viola o Sol Lewitt. La sua scrittura si ispira al quotidiano, è un prolungamento della realtà reso più intenso dalla dimensione poetica che egli sa conferirle. Autore, scenografo e videasta, come regista ha diretto, tra gli altri, Vino Tinto, da Thomas Bernhard, 30 copas de vino, da Baudelaire, Los tres cerditos, di Bruce Nauman, El pare, da Heiner Müller, Hostal conchita, da Thomas Bernhard. I personaggi di García, lontani da ogni naturalismo o facile caricatura, si compiacciono di un decadentismo del pensiero, s’arrangiano come possono per vivere e sembrano credere che la loro banale esistenza sia tra le più originali.

17 settembre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 19.30
18 settembre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.00
Coefore
prima assoluta
traduzione di Pier Paolo Pasolini
regia Monica Conti
con Annamaria Guarnieri
produzione Teatro Stabile delle Marche, La Biennale di Venezia
in collaborazione con Festival di Gibellina – Sipario d’Estate della Provincia di Pesaro Urbino

Per Monica Conti il lavoro parte da lontano rispetto all’inizio delle prove: parte da un lungo e lento lavoro di avvicinamento al testo per arrivare, solo alla fine di questo percorso, alla sintesi personale. Sintesi personale che “passa”, poi, principalmente attraverso l’attore. Ed è proprio il lavoro con gli attori, densissimo, e la ricerca di un linguaggio poetico comune, che sta alla base delle sue regie e che caratterizzerà la messa in scena di Coefore.

Monica Conti si diploma in regia alla scuola “Paolo Grassi” di Milano e in pianoforte al Conservatorio di Brescia. Dirige il primo spettacolo nel 1989 per il Centro Teatrale Bresciano (Faust. Un travestimento di Edoardo Sanguineti, protagonisti Claudio Bisio e Roberto Trifirò), ma si dedica prevalentemente alla regia dal 1996 con Aprile a Parigi di John Godberg e Edmenegarda di Giovanni Prati. Nel 1997 è al Fabbricone di Prato con Stretta sorveglianza di Jean Genet e al Franco Parenti di Milano con La mite, personale elaborazione drammaturgica dalla novella di Dostoevskij. Successivamente firma la regia di: L’ultimo nastro di Krapp di Beckett, Else e il sottotenente Gustl di Schnitzler, Il killer Disney di Philip Ridley, Voltati parlami di Alberto Moravia Nel 2000, al Fabbricone, mette in scena La donna di pietra, di cui è anche autrice, ispirato alle lettere di Emily Dickinson. Nel 2001 dirige Gianrico Tedeschi nel Minetti di Thomas Bernhard e, nel giugno dello stesso anno, le viene conferito il Premio Hystrio alla regia. Nel 2002 firma la regia del Medico per forza di Molière sempre con Gianrico Tedeschi, produzione degli Artisti Associati di Gorizia. Per quanto riguarda la formazione dell’attore, all’Arena Plautina di Sarsina fonda e dirige per tre anni un laboratorio su Plauto (miglior progetto europeo). Fonda inoltre un laboratorio a Chiaravalle su Maria Montessori e mette in scena Maria Montessori. Atto di nascita, di cui firma anche la drammaturgia e Bambini di notte di Filippo Soldi, prodotto dal Teatro Stabile delle Marche. Tra i lavori del 2004: Dispetto d’amore di Molière per il Teatro Giacosa di Ivrea e Le onde del mare e dell’amore di Franz Grillparzer, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano. Entrambi i lavori in prima rappresentazione in Italia.

19/20 settembre – Teatro alle Tese – ore 20.00
Eumenidi
prima assoluta
da Eschilo
regia Caden Manson
produzione CTB Teatro Stabile Brescia, Fondazione Orestiadi di Gibellina, La Biennale di Venezia

Caden Manson è nato a Robstown, Texas, una piccola cittadina alla periferia di Corpus Christi, ma studierà all’università di Austin. Nel 1999 fonda il Big Art Group, con cui allarga i confini della performance attraverso una sperimentazione aggressiva che utilizza nuovi media, sovverte i procedimenti narrativi e la struttura complessiva dello spettacolo. Con la sua compagnia ha creato lavori controversi, provocatori e crudi, come Clearcut, catastrophe! (1999), The Balladeer (2000), Shelf Life (2001); and Flicker (2002).
Flicker è stato presentato con grande successo in Europa lo scorso anno. In Italia è stato ospite al Festival Inteatro di Polverigi e al Teatro India di Roma per Le vie dei Festival 2003. Subito dopo Eumenidi, Big Art Group presenterà a Roma e Parigi la nuova creazione per il Festival d’Automne 2004, The house of No More, che ha debuttato in anteprima a New York lo scorso gennaio.
Recentemente, Caden Manson ha ricevuto un riconoscimento dalla Foundation For Contemporary Performance Art per il suo lavoro con il Big Art Group.

22 settembre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 20.00
23 settembre – Teatro Piccolo Arsenale – ore 21.00
Bestia da Stile
prima assoluta
di Pier Paolo Pasolini
regia Antonio Latella
con Marco Cacciola, Marco Foschi, Giuseppe Lanino, Marco Martini, Giuseppe Massa, Giuseppe Papa, Annibale Pavone, Mauro Pescio, Giovanni Prisco, Enrico Roccaforte, Cinzia Spanò, Rosario Tedesco, Stefania Troise
luci Giorgio Cervesi Ripa
suono Franco Visioli
costumi Cristina Da Rold
regista assistente Tommaso Tuzzoli
produzione Nuovo Teatro Nuovo Teatro Stabile di Innovazione, Teatro Stabile dell’Umbria, La Biennale di Venezia

Un testo non testo. Un’opera teatrale che frantuma tutte le regole e le forme di scrittura teatrale. Una sorta di biografia, di testamento, dove lo stesso Pier Paolo Pasolini si schiera in prima linea, raccontando una storia e raccontandosi in questa non storia abitata da un universo di morti, che vide, nella primavera di Praga, la fine del comunismo. Non ci sono personaggi ma solo fantasmi, e la parola prende forma solo attraverso i ricordi e la morte. Tutto precipita nel caos e l’uomo si fa bestia; la parola urlo disperato, non c’è più controllo, e la mente non abita più nel cranio, ma tutto è un magma – di corpo, sangue, sperma, parola, pensieri, feci e amore. Questo non testo teatrale è stato scelto con i miei amici-attori per chiudere questo viaggio ideale su e con Pasolini iniziato da Pilade e passato attraverso Porcile. Un viaggio alla scoperta, o meglio verso un inizio di conoscenza dell’artista e dell’uomo Pasolini; alla scoperta di un universo che aborre ogni forma di consolazione, ogni compromesso.
Un teatro che parte dall’essenza (autore – parola – attore – pubblico) ma che ogni volta cerca una nuova forma. Assemblea culturale aperta a tutti (nel caso di Pilade). Oppure bisturi che incide il corpo malato di ciò che per lui è la morte del teatro, ossia la borghesia infettata dal cancro del potere (nel caso di Porcile). Per arrivare al non rappresentabile poiché è già nella sua non struttura “un’opera d’arte”. L’ultimo respiro prima della condanna a morte. Questa è la sfida che impone e pretende una totale libertà, quella libertà che spaventa e attrae. Antonio Latella

Attore e regista napoletano trentacinquenne (ha lavorato con M. Castri, L. Ronconi, V. Gassman, E. De Capitani, A. Syxty), Antonio Latella In questi ultimi anni ha alternato la sua attività di attore a quella di regista per arrivare nell’ultimo periodo ad impegnarsi esclusivamente nella regia. Nel 2001 ha vinto il premio speciale UBU per il progetto “Shakespeare ed oltre”, l’XI edizione del premio intitolato a Luca Coppola e a Giancarlo Prati e il premio Girulà per la drammaturgia. Ha realizzato come regista gli spettacoli Agatha di Marguerite Duras (1998), Otello di William Shakespeare, produzione Elsinor (1999); Macbeth di W. Shakespeare (2000), che ha messo in scena per il teatro Argot di Roma per Fontana Teatro; Romeo e Giulietta di Shakespeare, produzione Out – Off (2000); Amleto di Shakespeare, produzione Elsinor (2001); Stretta sorveglianza, produzione Out – Off di Jean Genet (2001); Pilade di Pier Paolo Pasolini, produzione Out Off (2002); I Negri di Jean Genet (2002), produzione Nuovo Teatro Nuovo (2002); uno studio sul Riccardo III di Shakespeare, produzione Elsinor (2002); Querelle da Jean Genet, produzione Nuovo Teatro Nuovo Teatro Garibaldi (2002); I trionfi di G. Testori, produzione Elsinor (2003); La dodicesima notte di W. Shakespeare, produzione Teatro Stabile dell’Umbria (2003); Porcile di Pier Paolo Pasolini, produzione Nuovo Teatro Nuovo in collaborazione con Festival di Salisburgo/Young Directors Project; La tempesta di Shakespeare, produzione Teatro Stabile dell’Umbria (2003); La bisbetica domata di Shakespeare, produzione Elsinor (2003).

23 settembre – Teatro alle Tese – ore 19.30
24 settembre – Teatro alle Tese – ore 21.00
Purificati
prima assoluta
di Sarah Kane
regia Marco Plini
con Silvia Ajelli, Michelangelo Dalisi, Milutin Dapcevic, Roberto Salemi (cast in via di definizione)
scene e costumi Claudia Calvaresi
suono Franco Visioli
luci Fabio Bozzetta
assistente alla regia Barbara Benedetti
direttore di scena Roberto Melchiorri
produzione Nuovo Teatro Nuovo Stabile di
Innovazione
, La Biennale di Venezia

E’ singolare il fatto che Purificati sia l’unico testo di Sarah Kane ancora non rappresentato in Italia, in quanto appare il momento più alto di una ricerca stilistica e di senso, che partendo dal naturalismo trasfigurato di Blasted (Dannati) arriva, attraverso una serie di esperimenti, al monologo testamento di 4. 48 psicosi.
In questo percorso tanto complesso quanto breve, consumato nell’arco di quattro anni, Sarah Kane mostra un mondo in cui l’alfa e l’omega continuamente si inseguono e si confondono, integrandosi e contraddicendosi; un mondo di vittime-carnefici e di carnefici-vittime, di incapacità di parole, di ricerca e negazione d’amore e di incredibili taumaturgie chimiche.
Difficilmente apprezzata al di fuori della sua generazione, Sarah Kane rappresenta il suo dolore di vivere in un mondo in cui la barbarie ha occupato ogni spazio pubblico e privato, ma al contrario dei suoi predecessori, che hanno rappresentato oggettivamente questo disagio, tenta disperatamente attraverso la sua opera di intuire una via di salvezza.
In questo contesto si inserisce Purificati, il cui titolo allude ad una bruciatura e contemporaneamente alla pulizia etnica, una sorta di summa associativa delle aberrazioni del XX secolo. In questo testo un campus universitario diviene, letteralmente, un campo di concentramento governato da un contradditorio “Mad-doctor”, che punisce sistematicamente ogni cenno d’amore o di tenerezza, attraverso plurime amputazioni che tendono ad impedire ogni tentativo di comunicazione. Nonostante tanta violenza, però, l’immagine finale del dramma ci mostra ancora intatta la possibilità di esprimere tenerezza, di manifestare amore, in questo sanguinante paesaggio di rovine. Tutto ciò viene raccontato attraverso un linguaggio incredibilmemnte moderno che ha le sua radici nello Shakespeare de

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