Egregio Nastasi, ha fatto autogol!

L'editoriale di ateatro 77

Pubblicato il 07/12/2004 / di / ateatro n. 077

In questo ateatro 77 si parla – a cominciare da questo denso editoriale – delle assegnazioni del FUS e di economia dello spettacolo (e dei postumi delle Buone Pratiche).
Ma per fortuna di parla anche (molto) di teatro-teatro. Tanto per cominciare c’è un curioso e godibile portfolio di immagini, un piccolo assaggio della collezione di cartoline teatrali di Fabio Biondi, dove convivono memoria personale e storia. E poi, al confine tra teatro di guerra e performance (un filone di cui avevamo dato un assaggio in >ateatro 67 con l’installazione di Catherine Sullivan sull’attacco ceceno al Teatro Na Dubrovka di Mosca), Silvana Vassallo ci racconta quello che fanno oggi Frédéric Moser e Philippe Schwinger con il video di un vecchio spettacolo del Performance Group sulla guerra del Vietnam.
Ma in ateatro 77 si parla anche dello Stuper Mundi di Michele Sambin a Catania, di Bebo Storti e Renato Sarti a bordo della Nave fantasma, del bel libro di Sandro Lombardi Gli anni felici e altro ancora…

Come anticipato, l’editoriale di questo ricchissimo e polemico ateatro 77 è in gran parte dedicato a commentare l’intervista che il dottor Nastasi ha rilasciato di recente al «Giornale dello Spettacolo» a proposito dei criteri di assegnazione del FUS (ripresa in parte nel forum «Nuovo teatro vecchie istituzioni»). Va ricordato che al Direttore Generale dello Spettacolo dal vivo era stata inviata, in occasione dell’incontro milanese sulle Buone Pratiche del 6 novembre scorso, una lettera aperta (rimasta senza risposta) in cui si chiedeva di rivedere le recenti decisioni della Commissione Prosa (sulla faccenda ci sono state anche alcune interrogazioni parlamentari, di cui trovate notizia nelle news e nel solito forum).
Una premessa. E’ scandaloso che i dati delle assegnazioni del FUS non siano stati immediatamente resi pubblici, impedendo una valutazione e una discussione aperte sull’argomento. E’ un minimo criterio di trasparenza e di corretta gestione dei denari dei contribuenti. Ma l’intervista rilasciata dal dottor Nastasi, insieme alle indiscrezioni filtrare attraverso l’AGIS, permette di tracciare un primo severo giudizio sulle scelte della Commissione e del Direttore Generale, sui criteri che le hanno ispirate e sulle conseguenze di queste decisioni.
In primo luogo va notato che nell’intervista non si spende una parola sull’aspetto più scandaloso dei tagli, ovvero che siano stati decisi e comunicati a fine ottobre, quando gran parte dell’attività di teatri e compagnie era già stata effettuata. Basterebbe questo a rendere le decisioni della Commissione inaccettabili.
In secondo luogo, va fatta chiarezza sul problema dell’area dell’innovazione, che secondo Nastasi sarebbe cresciuta a dismisura. Che l’area dell’innovazione sia da anni quella più viva del nostro teatro, è sotto gli occhi di tutti – e non da oggi. Che per tutte le compagnie senza un santo (politico) in paradiso, questa sia l’unica via per accedere a un riconoscimento ufficiale, necessario per crescere e sviluppare il proprio lavoro, è un altro incontrovertibile dato di fatto. Infatti con il tempo «compagnia di innovazione» è diventato sinonimo di realtà «piccola» o «giovane». Gli altri comparti del nostro teatro di prosa sono da sempre auto-governati da nomenklature di fatto inamovibili e chiuse a difesa dei propri privilegi. Sono rendite di posizione tanto blindate che di fatto nessuno, in pratica, in questi decenni è riuscito a compiere il salto dall’innovazione ad altre categorie. Anche i tentativi più ambiziosi finora effettuati in questa direzione si sono chiusi catastroficamente: basti ricordare di recente l’acquisto (e il sostanziale azzeramento) del Teatro Settimo da parte dello Stabile di Torino, in vista della nomina a direttore artistico di Gabriele Vacis, ingloriosamente abortita; o la breve stagione di Mario Martone alla direzione del Teatro di Roma, poi conclusa con la restaurazione di Forlenza-Albertazzi.
Insomma, nell’innovazione si nasce (a fatica, e magari perché non si può far altro), si invecchia (miseramente) e si muore (nel silenzio generale).
Così è inevitabile che il settore innovazione (o come lo si è via via chiamato nel corso di questi anni) si allarghi, perché per decenni ha offerto l’unica valvola di sfogo per le realtà emergenti. Dopo di che, se invece di valorizzare all’interno del settore le compagnie più innovative, individuando le realtà più vitali nel quadro di un panorama articolato (ma che non sarebbe cosi difficile analizzare, con i tempi e gli strumenti giusti), si ritiene di dover rafforzare i cosiddetti stabili di innovazione (che da punti di riferimento e motore del sistema sono spesso diventati con gli anni organismi burocratico-politici di controllo e gestione del denaro), questo indirizzo andrebbe come minimo manifestato con trasparenza, come una possibile linea di evoluzione di questa area: non basta certo incrementare di 10% qui o il 30% là (con motivazioni più o meno condivisibili), ma è necessario di ridisegnare una funzione strategica per questi strumenti nati male e cresciuti peggio. In secondo luogo, il dottor Nastasi accenna a una ridistribuzione del FUS con un metro di giudizio «regionalistico». E’ curiosa questa adesione ai principi della politica «concorrente» fra stato e regioni solo per addomesticarli e pervertirli. Secondo questa linea ogni regione dovrebbe diventare un «micro-Stato», con un po’ di tutto, così come sancito dagli equilibri romani. Ma dove è stata decisa questa impostazione? Da chi e quando è stato enunciato un principio di questo genere? E perché mai l’attività a livello regionale dovrebbe essere considerata equilibrata solo quando riflette rapporti di forza decisi e consolidati a livello nazionale? Più precisamente, perché mai la situazione regionale deve essere una fotocopia degli assetti nazionali, vedi l’equilibrio tra «tradizione» e «innovazione» che Nastasi vuole imporre all’Emilia-Romagna? Con quale criterio in questa fase si può decidere di togliere alle regioni «ricche» per dare a quelle «povere»? O preferibilmente – nei fatti – ad alcuni ricchi delle regioni «povere»?
Questa modalità di ridistribuzione del FUS su base regionale – che non era stata anticipata da alcuna circolare o regolamento – andrebbe come minimo discussa con le Regioni stesse. Che venga adottata come fondamentale criterio di valutazione e poi resa esplicita in una intervista, è puro arbitrio. E’ vero che il regolamento concede totale discrezionalità alla Commissione sulle valutazioni qualitative (più o meno 100% rispetto al risultato dei parametri «quantitativi», consentendo dunque il raddoppio o l’azzeramento del contributo ministeriale). Ma questo arbitrio «dichiarato» dovrebbe essere sempre esercitato con riferimento ai parametri e ai criteri enunciati, senza addurne di nuovi per giustificare a posteriori le decisioni prese: altrimenti si esce dallo Stato di diritto e dalla certezza delle regole, si annebbia ogni trasparenza per entrare nella discrezionalità più capricciosa e vessatoria.
Ma il passo più arrogante nell’intervista al dottor Nastasi è quando dichiara – con il tono di chi sa misurare l’efficienza – che l’affluenza di pubblico è il principale metro di valutazione dell’innovazione, rispetto alla dozzina di altri e prioritari elementi che enuncia lo stesso regolamento. E’ un passaggio che tradisce una profonda ignoranza della storia del teatro degli ultimi trent’anni e del pensiero – seppur debole – che ispirava le normative tuttora in vigore. Ed è umiliante trovarsi a ribadire un concetto elementare, che era ormai acquisito da decenni e condiviso da tutti. Nessuna recente gestione ministeriale era mai arrivata a metterlo in discussione: neppure un predecessore «decisionista» di Nastasi come Carmelo Rocca, quando dichiarava esplicitamente di voler selezionare (e lo fece, come ricordiamo tutti), ignorava che la qualità della ricerca non si misura con il numero di spettatori.
Peraltro anche questo grande amore per il pubblico, condiviso da tutti, si rivela una scusa per tagliare qualche soggetto (più o meno a caso), senza accorgersi che tra le compagnie punite per non aver avuto abbastanza spettatori (Nastasi dixit) ce ne solo alcune che hanno avuto solo nell’ultima stagione un vero e proprio boom di pubblico, soprattutto nel settore ragazzi: vedi in proposito l’articolo e la polemica sul Premio Stregagatto. Ma vedi anche il caso particolarmente indicativo del Teatro Libero di Milano, che non aderisce all’AGIS, che non è riconducibile né alla «sinistra» né evidentemente alla «destra» (e neppure alla commissaria «lumbarda» Sabina Negri in Calderoli…), e che quindi si tende a «dimenticare». Nell’ultima stagione il Teatro Libero ha registrato addirittura il 106% di occupancy del proprio piccolo ma frequentatissimo spazio ed è un vero «caso» dal punto di vista economico-organizzativo: dunque un teatro inserito (magari forzosamente, per quanto detto prima) nella categoria dell’innovazione aumenta il suo pubblico, ma ciò nonostante viene ugualmente azzerato. Insomma, Nastasi e la sua Commissione consultiva, se avessero voluto davvero obbedire ai criteri (indifendibili) poi enunciati, avrebbero dovuto almeno guardare le carte e i numeri, per decidere con un minimo di coerenza.
A questo punto viene da chiedersi a che cosa serve la Commissione. Almeno un commissario ha visto qualche spettacolo delle compagnie punite, visto che si parla di criteri qualitativi? Anche se è evidente che l’intera Commissione deve essere stata folgorata da alcune compagnie «superpremiate» dalle loro valutazioni. Perché sarebbe bastato qualche «superpremiato» in meno per evitare tutto questo sconquasso: perché, come sappiamo, il FUS è bloccato e la commissione può solo travasare risorse da una compagnia all’altra, da un teatro all’altro.
Tornando alla questione regionale, va anche aggiunto, al di là della legittimità del criterio, che questa valutazione va contro ogni logica – anche industriale – soprattutto perché si sta parlando di ricerca e innovazione. Il primo bersaglio del post-neofascista Nastasi è con ogni evidenza una regione «rossa» come l’Emilia-Romagna, che da tempo è per l’Italia teatrale il laboratorio del nuovo. Ebbene, l’Emilia-Romagna è la patria di Socìetas Raffaello Sanzio, Teatro della Valdoca, Ravenna Teatro, Fanny & Alexander, Motus, Clandestino, eccetera, oltre che dell’ERT che produce Pippo Delbono e Danio Manfredini. Insomma, nel campo dell’innovazione teatrale è quello che in campo industriale viene descritto come «distretto produttivo», ovvero una regione geografica ed economica in cui un tessuto di piccole e medie imprese in agguerrita competizione tra loro conduce a punte avanzate di innovazione e a una eccellenza qualitativa che permette di competere sui mercati internazionali (per chi ama invece la critica letteraria, potremmo parlare con Harold Bloom di «angoscia dell’influenza»). Che questo meccanismo di emulazione competitiva abbia funzionato anche nel nostro teatro, lo dimostrano le prestigiose coproduzioni internazionali di molte delle compagnie citate, che in Italia ancora faticano scandalosamente a trovare le loro piazze: sono proprio queste compagnie a contribuire, molto più di altre (e molto più dei baracconi parigini sponsorizzati dall’ETI), ad accrescere la stima e l’interesse per il nostro teatro e la sua cultura all’estero. Ma sono anche le realtà che il Ministero ama punire, non da oggi: è capitato in diverse occasioni, pure di recente, a un gruppo leader come la Socìetas Raffaello Sanzio, protagonista del più interessante progetto di coproduzione a livello europeo di questi anni.
Va anche precisato queste sono solo chiacchiere lamentose su pochi spiccioli (anche se determinanti per la sopravvivenza di molte realtà). Perché l’agonia del nostro sistema teatrale è solo all’inizio. Infatti la quota di denaro pubblico che lo Stato italiano può destinare alla cultura (e nel suo ambito al teatro di prosa) è destinata a ridursi ancora, nei prossimi anni, in maniera drastica. Quelle a cui abbiamo assistito finora sono solo le manovre di una nomenklatura teatrale stracciona (con la complicità dell’AGIS) per accaparrarsi le ultime briciole di una torta destinata a diventare sempre più piccola: tutto quello che possono fare, è spartirsi i cadaveri dei loro compagni di cordata (e di sventura).
La vera battaglia nei prossimi anni non si giocherà sui rimasugli del FUS, ma su altri terreni. In primo luogo la qualità degli spettacoli, la loro capacità di riflettere e interpretare, con la massima radicalità possibile, le contraddizioni del presente. In secondo luogo, la regionalizzazione delle funzioni del Ministero dei Beni Culturali (e magari la gestione dei fondi ARCUS e dell’8 per mille), con tutte le sue conseguenze economiche e legislative: insomma, la capacità di ripensare un sistema teatrale di fatto bloccato da almeno vent’anni. Infine, la capacità di inventare nuove forme organizzative e di rapporto con il pubblico: questo era il grande tema delle Buone Pratiche, una iniziativa che con la Banca delle Idee cerchiamo di mantenere viva e attiva con nuovi contributi. In particolare in questo ateatro 77 segnaliamo gli interventi di Marco Martinelli e Fabio Biondi, e contiamo di presentare in uno dei prossimi numeri le valutazioni dell’équipe del professor Trimarchi sulle Buone Pratiche presentate nel corso della ormai memorabile giornata del 6 novembre.
A proposito, ci sono giunte richieste di organizzare altri incontri come quello milanese per analizzare le Buone Pratiche su scala regionale: ovviamente ateatro è a disposizione per fornire tutte le indicazioni e i supporti informativi possibili, ma l’intenzione degli organizzatori della Buone Pratiche è quella di rilanciare con un altro incontro su scala nazionale nella prossima primavera, cercando di ampliare l’orizzonte e le ambizioni
Come? Un po’ di pazienza e lo scoprirete… Dove? Aspettiamo suggerimenti. Insomma, se avete qualche idea, ci piacerebbe discuterne.

Redazione_ateatro

2004-12-07T00:00:00




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