Oltre il coronavirus | Perché il teatro italiano sta fallendo, ovvero Quando il pesce puzza dalla testa
Il balletto del #totonomine ai vertici dei più importanti stabili pubblici
Per capire la crisi irreversibile in cui è sprofondato il teatro italiano, bisogna guardare alla situazione delle maggiori istituzioni pubbliche del settore, ovvero quelli che una volta venivano definiti “Teatri stabili pubblici”, prima che termini come “pubblico”, “servizio pubblico” e “funzione pubblica” venissero cancellati dai Decreti Ministeriali, nel 2014. Basta guardare alle nomine dei direttori, che ora fioccano perché siamo alla scadenza di molti trienni, e in molti casi del ciclo di due trienni, la durata massima di un sedere sulla poltrona direttoriale teatrale.
Le logiche che stanno portando alle nomine (che valgono a volte oltre 100.000 euro l’anno, e giustamente, vista la dimensione delle aziende) sono diverse, e spesso si intrecciano con effetti ancora più perversi.
L’interferenza politica. I Consigli di amministrazione degli enti pubblici sono di nomina politica e vi compaiono i rappresentati di enti (Regione e Comune) che a volte hanno anche maggioranze con colore diverso. Di fatto, i consiglieri sono i passaparola di candidature espresse a livello politico, comprensivi degli appetiti di correnti e sottocorrenti. I teatri diventano così ostaggio di beghe che nulla hanno a che vedere con la loro funzione e missione. Quando si crea uno stallo, a essere bruciati e umiliati sono i professionisti che hanno avuta la sfortuna di candidarsi, o peggio ancora di essere convocati come potenziali direttori.
E’ successo nell’estate 2020 al Piccolo Teatro di Milano, che si credeva immune da questo malcostume. Sta succedendo tra novembre e dicembre allo Stabile di Trieste, con una disputa tutta interna al centrodestra sui candidati De Fusco (invano sostenuto da Franco Cordelli alla direzione del Teatro di Roma) e Lazzareschi. E’ successo e succederà anche altrove, a destra e a sinistra.
Il manager. Per il politico italiano medio, il teatro (e in generale la cultura) è solo una scocciatura. Non capisce perché sia necessario spendere soldi in biblioteche, teatri, festival, musei, quando ci sono da costruire o aggiustare le strade, gli asili e gli ospedali. Tanto la cultura serve solo a pochi spocchiosi e dunque porta pochi voti. Oltretutto gli artisti – quelli bravi e necessari, aggiungiamo noi – fanno casino, creano guai e accendono polemiche, perché portano in luce le magagne e le contraddizioni della nostra società, mentre la politica lavora per il consenso immediato.
C’è anche la scusa perfetta adatta per escluderli dalle posizioni di vertice: lo sappiamo, gli artisti non sono imprenditori, e proprio non sanno gestire un’azienda con qualche milione di euro di fatturato. Serve un manager. Così i vertici dei teatri italiani si sono affollati di direttori-manager, che li gestiscono come centri commerciali: una certa varietà di prodotti, che accontentiamo i carnivori a cui piace il classico e i vegani che amano le performance di danza. Una stagione piena di nomi di richiamo, che così è più facile riempire le sale. Riduzione del margine di rischio culturale, così salgono i parametri dell’algoritmo.
Il vertice lo stiamo toccando nell’attesa del bando per la successione di Massimo Ongaro allo Stabile del Veneto, presieduto da Giampiero Beltotto, lo schiaffeggiatore di critici. Evidentemente qualcuno ritiene che anche i manager culturali possano essere infettati dal virus della cultura. Ecco allora il bando per un executive manager (qualunque cosa significhi, ma in ogni caso con uno stipendio da dirigente d’azienda), una figura che dovrebbe affiancare il direttore (o il Presidente-Direttore) e che dovrà essere un manager puro, come ha ben spiegato Anna Bandettini su repubblica.it:
E’ stato lanciato un bando pubblico per “executive manager” (sic!) dove non compare mai, ma proprio mai, la parola “cultura” o “spettacolo”, nemmeno nelle esperienze e nei requisiti richiesti al candidato. Potrebbe essere il bando per un’azienda tessile… Sono arrivate 21 domande e la commissione ne ha selezionate cinque per poi arrivare a una rosa di tre candidati tra cui si deciderà, presumibilmente, il direttore. I prescelti sono Claudia Marcolin, Amedeo Levorato, Andrea Rizzi, si può dire del tutto sconosciuti al mondo dell’organizzazione e del management culturale: potremmo sbagliarci, ma cercando su internet i loro curricula, nessuno sembra avere competenze e esperienze, anche lontane, nella gestione di un teatro; la favorita sarebbe Claudia Marcolin, la quale da quello che si legge in internet, sarebbe una manager comprovata, con una bella carriera nel settore delle infrastrutture e dei trasporti, già segretaria generale del porto d Venezia e, tra le ultime sue attività professionali, dal 2018 è stata ingaggiata da DBALab “società attiva nell’ICT con piattaforme e servizi per la gestione degli asset infrastrutturali e dei processi portuali”.
In cartellone, si presume, ci saranno Moby Dick, La tempesta, Titanic e il remake di Giovanna, la nonna del Corsaro Nero.
E’ vero che per dirigere un’istituzione culturale sono necessarie competenze gestionali e amministrative, ma le strutture più solide già hanno al loro interno queste competenze. L’illusione che la cultura si possa ridurre al dato economico, o gestionale ha fatto gravissimi danni in tutti i settori della cultura. Ma spiegarlo ai politici è inutile.
Il Presidente-Direttore. E’ ormai un classico: la figura di vertice del CdA (magari dopo una lottizzazione con i suoi colleghi consiglieri) opera le autentiche scelte artistiche. Il Direttore e i Consulenti abbozzano e si tengono lo stipendio. Il controllore e il controllato coincidono. Non sempre lo faranno l’attivo e il passivo nel bilancio.
Il nome di facciata. Per nascondere il vuoto del progetto culturale e artistico, inevitabile frutto delle ingerenze politiche, del mito della “corretta gestione”, della massimizzazione dell’algoritmo ministeriale (che incarna un chiaro progetto culturale), è sufficiente crearsi un alibi: chiamare come “consulente artistico” un nome di facciata e di richiamo, meglio se di fama cinetelevisiva. Riempie le pagine con le sue interviste e la sua gratitudine al CdA che lo ha nominato. Non rompe le scatole al Presidente e al Direttore (perché di teatro ne sa poco o niente e la carica e la prebenda lo gratificano, e in caso di necessità si fida del suo impresario-agente-manager, che gli consiglia gli spettacoli più adatti). Ciliegina sulla torta, piace agli abbonati e alle abbonate, le quali rappresentano la maggioranza della categoria.
Ecco Stefano Accorsi dal febbraio 2020 al Teatro della Toscana, oppure Giorgio Pasotti dal novembre 2020 allo Stabile dell’Aquila, dove nel precedente triennio era passato senza lasciare traccia Simone Cristicchi, che però è solo l’ultimo di una lunga serie.
La legge è uguale per tutti, ma alcuni sono più uguali degli altri. Le regole e le norme non scritte vanno sempre rispettate. Insomma, basta creare le regole e le procedure (e i bandi e le manifestazioni di interesse) giusti, e nominiamo chi vogliamo. Ma a volte non basta.
Basta guardare quello che è successo al Piccolo Teatro, dove il CdA è stato gonfiato per superare lo stallo creato dalla contrapposizione tra Comune di Milano e Regione Lombardia, ma creando un pessimo precedente; e al Teatro di Roma, con la contorta vicenda della nomina del direttore e dei consulenti artistici e una strampalata divisione delle responsabilità (anche penali) e delle scelte. Insomma, va bene le regole, ma servono per gli altri.
La donna. Da chiamare solo in casi disperati, quando i danni sono stati fatti e l’ente è fallito o in gravissima difficoltà. Apripista è stata Mimma Gallina, prima direttrice di uno Stabile pubblico a Trieste, che ha rimesso a posto e conti e poi… “Ciaone!”
Non è difficile trovare esempi meno lontani nel tempo.
La catena alimentare del teatro italiano. (spolier alert!) Queste logiche hanno portato, nel corso dei decenni, a un crescente degrado, al tradimento della funzione pubblica e della vocazione culturale degli Stabili. La degenerazione è iniziata negli anni Sessanta, quando venne concepito il “Manuale Cencelli” che governa la lottizzazione degli incarichi pubblici a spese dei cittadini contribuenti e delle autentiche competenze. Nessuno è stato in grado di invertire la tendenza.
Certo, ci sono alcune eccezioni, ma sono la minoranza e fanno fatica a incidere in questo scenario. Di certo le persone citate (ma anche tutti gli altri) stanno facendo il loro meglio, e anche di più.
Ma con queste logiche, con personalità manageriali e artistiche selezionate in questo modo e sempre ricattabili, il teatro italiano non potrà uscire dalla crisi economica (e culturale) più grave degli ultimi decenni.
I Teatri Nazionali e i TRIC sono il vertice della “catena alimentare” del sistema teatrale. Se non funzionano, se inghiottono risorse senza progetto, se la cultura deve solo creare prebende e consenso, l’intero sistema s’inceppa, s’imballa, gira a vuoto. Scusate lo spoiler, ma sappiamo come andrà a finire.
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