La felicità del teatro

Sandro Lombardi, Gli anni felici. Realtà e memoria nel lavoro dell’'attore, Garzanti

Pubblicato il 07/12/2004 / di / ateatro n. 077

Gli anni felici di Sandro Lombardi è un appassionato e appassionante viaggio autobiografico nella geografia reale, artistica e interiore di uno dei maggiori attori italiani contemporanei. Una figura per certi aspetti unica nel nostro panorama teatrale, per rigore di percorso nell’ambito del teatro di ricerca dagli anni Settanta a oggi, per la straordinaria intensità e modulazione delle sue interpretazioni (memorabili in particolare i suoi cimenti testoriani), per la densità della sua formazione culturale e per la sua maschera naturale, quasi un archetipo del volto dell’attore (così emblematicamente ritratto dalla fotografia di copertina di Marcello Norberth). Dai primi anni Settanta Lombardi crea con Federico Tiezzi e Marion D’Amburgo (nome d’arte di Loriana Nappini) un sodalizio artistico tra i più fecondi e duraturi della nuova scena italiana: la compagnia Il Carrozzone, che poi diventa negli anni Ottanta i Magazzini Criminali e che prosegue tuttora come compagnia Lombardi-Tiezzi (dal 2000). Questo nucleo storico, che vedrà la collaborazione di molti attori, autori e musicisti di primo livello, sarà tra gli artefici della stagione più radicalmente innovativa del teatro italiano, avviata dalla precedente generazione dei Barba, Bene, De Berardinis, Quartucci e Ronconi e culminata appunto negli anni Ottanta con un riconoscimento internazionale.
Nel volume, Lombardi ripercorre la formazione artistica personale e di gruppo, rivelandone gli aspetti meno noti dei procedimenti creativi, delle metodologie attoriali e drammaturgiche e rievoca quella costellazione intima di luoghi, di riferimenti, di relazioni che costituiscono poi il nutrimento esistenziale di una poetica. Così, gli affreschi aretini di Piero della Francesca, le visioni di Simone Martini o la forza drammatica di Caravaggio, visti attraverso il filtro interpretativo di Roberto Longhi, maestro di Lombardi (ma anche di Pasolini), o la metafora poetica di Mario Luzi, si mescolano con i paesaggi metafisici e dechirichiani di Roma, la pittura di paesaggio o il paesaggio pittorico delle colline toscane, le suggestioni musicali mitteleuropee della scuola viennese, le terre solari nordafricane poeticamente rivissute mediante Rimbaud, Genet o le suggestioni «magiche» di un amico eccentrico e geniale come Juan Román. Questo fitto intreccio di riferimenti non è solo un destino esistenziale, rivela anche una consapevole attitudine alle «contaminazioni» che hanno caratterizzato un tratto importante della pratica teatrale degli anni Settanta e Ottanta, dove l’incrocio libero – autentico, non modaiolo – dei linguaggi ha prodotto inediti coaguli creativi. Lombardi, oltrepassando senza soluzione di continuità le soglie dei generi e delle cronologie artistiche, ci comunica nuove visioni per sentimenti che sono antichi, atemporali, e che perciò rifuggono dall’ottusa contrapposizione fra tradizione e innovazione, fra cultura e ispirazione, fra nostalgia e ricerca… L’apertura mentale e un’instancabile curiosità intellettuale sono i presupposti della sensibilità evolutiva dell’arte, capace nel caso di Lombardi – elemento raro nelle autobiografie degli attori – di «cogliere gli aspetti di verità umane, professionali, esistenziali, aldilà degli schieramenti» (p. 292). Per quanto oggi ci siano ormai distanze storiche dalle correnti della nuova scena di fine Novecento (teatro-immagine, post-avanguardia, terzo teatro, etc.) che aiutano a coglierne virtù e limiti con maggiore obbiettività, è bello ritrovare protagonisti tanto diversi come il Living, Grotowski, Barba, Bene, Ronconi, Wilson accomunati in una stima che non li confonde e non li celebra formalmente ma che ne riconosce le personalità decisive e i contributi fondamentali.
La scrittura di Lombardi ha la capacità di mettere sulla pagina personaggi, situazioni ed eventi, come li mettesse in scena. Riesce a testimoniare una stagione e un mondo attraverso piccoli frammenti emblematici, illuminati da uno sguardo che è insieme preciso ed evocativo, ironico e affettuoso, penetrante e delicato, in certi casi commovente (come nel ricordo di Marisa Fabbri), dove l’elemento professionale si mescola in modo inestricabile all’esperienza vissuta, perché, come volevano i progenitori romantici e il gran maestro Antonin Artaud (a cui i Magazzini dedicano uno dei loro spettacoli più importanti, nel 1987), non c’è separazione possibile tra arte e vita, essendo entrambe un unico crogiolo di «sangue, carne e spirito, soffio e grido». Citando Macchia, Lombardi ricorda che per Artaud la recitazione è «una forma di interiorizzazione dell’anima, una sorta di preghiera, un modo per espellere il male da sé» (p. 73).
Il libro di Lombardi non ha, e non cerca, il carattere esplicito di quella preziosa tradizione del «manuale dell’attore» che va da Diderot a Dario Fo, ma, quasi in punta di piedi, riflette profondamente sul lavoro dell’attore, rivelando le difficoltà, le pratiche e i mutamenti nell’affrontare le diverse sfide che diversi autori e diversi contesti impongono, soprattutto nell’ambito sperimentale della «scrittura scenica» (termine coniato e promosso in Italia da Bartolucci e Bene), dove si richiede un’autoformazione dell’attore a tutto campo, una vocazione a divenire regista di un proprio metodo, esploratore di nuove modalità interpretative ed espressive. Elaborando una rigorosa auto-analisi del processo interpretativo, l’attore toscano ci dà l’opportunità di scoprire dall’interno il maturare di una sintesi originale tra rigore e abbandono:

«L’interpretazione è il risultato di una quantità di piccole soluzioni parziali che si accumulano. Il fine cui tendere è naturalmente l’identificazione con un certo testo (che non è l’immedesimazione con un personaggio ma la relazione personale con una struttura di parole), l’equilibrio tra l’annullamento di sé in quello e la sua trasformazione in una forma da riempire con il proprio io. Ci vuole l’amore, naturalmente, con cui si cercherà di aderire a un ritmo, a una realtà scenica, a una sostanza verbale… in un processo di identificazione in cui l’attore troverà tanta più libertà quanto più strette e rigide saranno le maglie che si imporrà. In questo consiste il lavoro di drammaturgia degli attori: nel processo con cui fanno coincidere, dissimulandoli l’un l’altro, il piano della loro drammaturgia personale con quello dell’interpretazione del testo.» (pp. 200-201)

Sulla base di questi principi generali, frutto appunto di una riflessione innestata sull’esperienza e non di una precettistica, Lombardi focalizza i diversi passaggi della sua metodologia interpretativa: l’addestramento della memoria; l’analisi della struttura logica del testo; l’analisi metrica per rendere percepibili gli accenti, esplicitandone la dimensione «musicale», fino a individuare zone di variazione ritmica, in base alla prevalenza di gruppi di vocali o consonanti; l’esercizio di ricollegare le immagini astratte del testo alla memoria personale, quindi a esperienze reali e conoscenze dirette; infine l’affrontare le difficoltà facendole emergere e lasciando lavorare la sfera inconscia. La memoria stessa è sostanza vivente in costante metamorfosi, a cui attingere come nutrimento creativo (come suggeriva la «reviviscenza» di Stanislavskij). Questa dimensione di «abbandono» necessario dell’attore, dopo un rigoroso studio analitico e metrico, per cogliere la chiave più intima del testo, è raggiungibile anche operando consapevolmente nello stato intermedio tra la veglia e il sonno, nelle forme della meditazione, del training vocale o di pratiche psico-coreografiche come la danza euritmica steineriana. In questa prospettiva, il lavoro dell’attore tende «non solo alla mèta di un buon risultato ma alla conquista della comprensione di sé» (p. 205). In ogni caso, avverte Lombardi, si tratta di «un percorso senza fine» e l’apprendimento delle tecniche è condizione necessaria, ma non sufficiente: «Non credo che si possa costruire un metodo a partire da un insieme di tecniche» (p. 294), una volta interiorizzata e dominata una tecnica ci sono due strade, o quella di fossilizzarsi, trasformando la forma artistica (che è per sua natura trasformazione) in una formula, in maniera, oppure quella di sentirsi liberi di cercare nuove strade. E qui l’incertezza e la precarietà sono condizioni positive di apertura percettiva e di libertà creativa: «L’attore non può non conoscere il valore della passività e della distrazione, del rapimento, di quella sospensione della volontà che permette l’ascolto delle voci interiori e dei fantasmi». Il viaggio dell’attore toscano introduce e conduce il lettore nella genealogia artistica del sodalizio Lombardi-Tiezzi (facendo quindi anche luce sulla sofisticata e poliedrica identità registica di Federico Tiezzi), per poi immergersi nella cronaca di quella grande sfida interpretativa che è stata la messinscena delle opere di Testori: Edipus, i Tre Lai: Erodiàs, Cleopatràs, Mater Strangosciàs (a Lombardi e Tiezzi va anche il merito di aver scoperto e portato al pubblico quest’ultimo inedito capolavoro dello scrittore lombardo), e il più recente Ambleto (dove duetta con un bravissimo Massimo Verdastro). Una sfida vinta, a partire dall’Edipus, con una scelta drammaturgica di riduzione del testo che privilegia la mescolanza degli opposti: l’elemento tragico e lo sberleffo grottesco, il metateatro e il racconto mitico, l’intreccio di accenti plebei e sublimi; con una ricerca sulla musicalità del dialetto lombardo reinventato da Testori (nel quale l’attore riconosce «una lingua vera» per il teatro) e sull’intreccio dinamico tra recitazione e canto (uno studio coadiuvato dal metodo di Francesca Della Monica); con una messinscena dell’attore nella maschera del «guitto lunare», protagonista di un solitario avanspettacolo, metateatrale e metafisico. Con Testori, Lombardi raggiunge una straordinaria simbiosi artistica tra ricchezza della parola e della recitazione, realizzando un capolavoro dell’interpretazione contemporanea. E proprio in questo sdoppiamento di un attore che indossa la maschera di un attore noi riconosciamo la rarissima arte dell’Attore Metafisico. Colui che «concentrato nella distrazione e attivo nella passività» recita per i vivi, ma anche per i morti e gli invisibili, accompagnato da Hermes, dio messaggero tra dei e uomini, guida nell’aldilà, protettore dei maghi, degli artisti, dei viaggiatori e dei ladri, e tutte queste categorie insieme fanno l’artista vero, che è anche «ladro», in virtù della sua capacità di ascoltare e di osservare, quindi di rubare alla realtà e all’immaginazione le loro verità. E poi ricordare… raccontando il consumarsi del tempo della realtà nell’atemporalità della scena, che è luogo mitico, confine tra mondi:

«Sempre più spesso mi capita di provare la sensazione di espormi, quando sono in scena, non solo al pubblico che mi è di fronte ma anche agli assenti, ai morti, ai fantasmi con i quali è così difficile mettersi in comunione nel tempo quotidiano… – e con cui sembra invece di stabilire un contatto diretto e fecondo dalla dimensione sospesa dell’atto teatrale.» (p. 16)

Andrea_Balzola

2004-12-07T00:00:00




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