Storia, teoria e pratica della critica teatrale

Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale di Massimo Marino, Carocci

Pubblicato il 17/12/2004 / di / ateatro n. 078

Peter Brook, ne Il teatro e il suo spazio a proposito del mestiere del critico (non quello «mortale» bensì quello «vitale»..), prendeva atto che questi «rende sempre un importante servizio al teatro quando va a snidare l’incompetenza» ed è un «vero alleato per scoprire chi attraversa il teatro irresponsabilmente».
E aggiungeva: «I nostri rapporti con i critici possono apparire tesi, ma in profondità si tratta di rapporti assolutamente indispensabili». Presenza necessaria quindi, che si tratti di un acuto analista del lavoro teatrale o di una rassicurante presenza «familiare»: «Non vedo che del bene nel lavoro del critico che scava nella nostra vita privata che cerca di incontrare gli attori chiacchierando, discutendo, osservando, intervenendo. Non mi dispiacerebbe persino che mettesse mano al medium, tentando di lavorarci in proprio».
Mi sono venute in mente queste frasi mentre terminavo di leggere Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale (Carocci, Roma, 2004, 200 pp., 16,10 euro), il bel libro di Massimo Marino, giornalista e critico dell’«Unità», che prende in esame proprio il tema della critica teatrale, a partire anche dalla sua personale esperienza di insegnamento universitario al CIMES di Bologna in collaborazione con il DAMS. Marino si pone l’obiettivo di disegnare i contorni della critica moderna dall’inizio del secolo a oggi – con un’attenzione però anche alla proposta pratica di esercizi di analisi e di descrizione – partendo dalla sua «storia», dai modelli di scrittura e fa il punto sui dibattiti passati e presenti, sullo svecchiamento apportato al mestiere del critico da sperimentazioni, ideologie, politica, tecnologie (dal critico militante al critico «navigante» al critico impuro), sulle trasformazioni e sulle reciproche influenze di scrittura critica e poetica teatrale, infine sulla stessa messa in crisi della critica. Qual è la funzione del critico in un’epoca dove la fanno da padrone i rumours e l’informazione veloce (misurabile in kbite)? E inoltre, il critico influenza ancora il pubblico? Infine, qual è il suo ruolo di fronte all’incombere di vari media che assorbono sempre più il «tempo» a disposizione di possibili «utenti teatrali»?
Ma dietro queste domande si intravedono anche le trasformazioni del teatro a partire dalla rivoluzione delle avanguardie degli anni Sessanta. Da format sostanzialmente rigido, ospitato in luoghi deputati (i teatri all’italiana) e presentato all’interno di un complesso e rigido rituale sociale, il teatro ha assunto in questi anni forme diversissime, invaso tutti i possibili spazi extrateatrali, reinventato forme di interazione e comunicazione sottilmente articolate. Insomma, in questi decenni il teatro è spesso uscito dai teatri, per ritrovare la propria necessità e identità; allo stesso modo la critica teatrale ha dovuto reinventarsi e ritrovare il proprio senso.
Il convegno di Ivrea (1967), come ricorda Marino, segna un momento chiave per la nascita non solo del nuovo teatro, ma di una nuova critica orientata altrimenti dalla letteratura e dal giudizio estetico: assorbita più dalla ricca e variegata temperie artistica che non dal testo, trova una nuova investitura e un nuovo ruolo non più solo nel tracciare le linee descrittive dello spettacolo, ma nel condividerne (e talvolta vivere) il processo collocandosi consapevolmente dentro il cerchio della creazione. Ferdinando Taviani, probabilmente mutuando il termine dalla scuola britannica dell’antropologia, definiva questo approccio questo metodo osservazione partecipe, in un testo più volte citato e tratto dallo storico numero speciale di «Quaderni di teatro» dedicato proprio alla critica teatrale.
La risposta data da Ugo Volli negli anni Ottanta sulla funzione della critica non era davvero ottimistica: orientamento dello spettatore pressoché nullo, stimolo del teatranti scarso, promozione di tendenze nuove in calo, informazione dall’estero inesistente. Ma allora a cosa servono gli articoli sui giornali? Il caustico Volli affondava la lama: pezze d’appoggio per politiche di finanziamento del Ministero e degli enti locali. Non c’è via di uscita? Sono in molti a teorizzare la figura del critico che si accosta umilmente e intimamente all’arte scenica prendendosi tutto il tempo e lo spazio necessario a comprendere, a conoscere, a esplorare il mondo del teatro e i suoi artefici. Marino ricorda che «il critico deve cercare di comprendere la complessità del campo, orientandosi e orientando dentro posizioni compresenti, dentro diverse modalità concomitanti…Risalire la catena creativa e produttiva».
Per orientare il giovane cronista e offrire modelli di «visione», Marino mette anche a confronto descrizioni di spettacoli apparsi su riviste diverse (sulla Socìetas Raffaello Sanzio a firma di Ponte di Pino, Manzella, Quadri e Cordelli). Ma come si legge davvero uno spettacolo o come lo si racconta? Bisogna contestualizzare l’opera o limitarsi all’esperienza visiva? E per chi lo si racconta? In cosa il lavoro del critico è diverso e in cosa contiguo a quello del saggista, dello storico, dello scrittore? Quali i suoi strumenti di indagine? Quale lo spazio adeguato per raccontarlo? Un libro, la pagina di un giornale, un programma radiofonico o le 3500 battute di una schermata web? Questi alcuni degli interrogativi a cui il libro cerca di rispondere, salvo constatare amaramente che i «luoghi» dove riversare questi contenuti sono in realtà rari se non rarissimi, collocati in un limbo di sopravvivenza e precarietà in qualche modo non curante del mercato editoriale ben più ricco dei rotocalchi: esclusi i quotidiani, alcune riviste teatrali specializzate di scarsa distribuzione, qualche rubrica sporadica in riviste di musica rock o d’arte.
Internet sembrava avesse superato il problema della visibilità della piccola editoria. www.ateatro.it è un buon esempio – molto citato nel libro, peraltro – di come un serio lavoro di indagine teatrale associato a una semplice interfaccia grafica possa penetrare nelle maglie di una comunità molto numerosa e attiva; sin dalla nascita la webzine si è proposta proprio come luogo reale di approfondimento, di confronto e di dialogo (o di scontro) e non solo come contenitore monodirezionale (televisivamente parlando). Ma il notevole dilagare di siti collegati a teatri stabili, a Scuole di Formazione, ad Accademie, a Enti regionali, a reti di teatri e Scuole d’Attore, spesso a loro volta impegnati a dare «informazioni» su spettacoli e festival, attivando magari «diari di bordo», ha moltiplicato in maniera esponenziale l’informazione teatrale che è diventata incontrollata e incontrollabile. Questo quindi è anche il momento in cui la differenza la fanno davvero la qualità e il rigore dei testi, l’impostazione editoriale e le scelte contenutistiche – e non più solo la «presenza» sul web.

Anna_Maria_Monteverdi

2004-12-17T00:00:00




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