Una poltrona pirandelliana

Una conversazione con Cacà Carvalho

Pubblicato il 29/01/2005 / di / ateatro n. 080

Poco più di un anno fa, in occasione della rappresentazione de La poltrona scura tra le mura dello Studio romano di Pirandello di via Bosio, il 6 febbraio 2004, Sandro D’Amico (direttore dell’Istituto di Studi Pirandelliani) disse che “finalmente era avvenuto l’incontro tra la narrativa del grande autore siciliano e il nuovo modo di fare teatro nato dall’avanguardia in poi”. Questo incontro, infatti, non c’era mai stato: a differenza delle maschere nude del teatro pirandelliano, mai i personaggi delle novelle erano stati fatti vivere da attori che sapessero conferire loro una seconda esistenza al di fuori della pagina scritta, della dimensione letteraria creata dal loro autore: fino alla Poltrona scura, l’unico approccio attoriale alle novelle di Luigi Pirandello era stato praticamente quello di una lettura drammatizzata. A dare voce e fisicità alla straordinaria ricchezza umana che anima i personaggi delle tre novelle pirandelliane – un universo in cui elemento comico ed elemento tragico si intrecciano costantemente, fino a diventare l’uno l’essenza più vera dell’altro, come in un gioco di specchi capace di trasformare un opposto in un inquietante “doppio” – è Carlos Augusto Carvalho, attore brasiliano che per il terzo anno consecutivo porta in scena I piedi sull’erba, La carriola e Il soffio, i testi delle tre novelle che Roberto Bacci e Stefano Geraci (rispettivamente regista e consulente drammaturgico) hanno riunito nello spettacolo. Le maschere pirandelliane protagoniste di questi tre racconti “noir” hanno trovato in Cacà (con questo affettuoso diminutivo i brasiliani – ma anche i colleghi della Fondazione Pontedera Teatro – chiamano Carlos Augusto) una veste nuova, un’inedita possibilità espressiva capace di conferire loro sensazioni ed emozioni finalmente percepibili a livello fisico, un corpo di attore sul quale dipingere gli stati d’animo che l’acuto sguardo pirandelliano seppe loro attribuire con la parola scritta. Le tre novelle, attraverso le sfumature della voce di Cacà e grazie alla sua capacità di far comparire davanti agli occhi dello spettatore le presenze fantastiche e impalpabili che si muovono tra le righe del testo, diventano il nucleo di una messa in scena capace di coinvolgere il pubblico in un intimo, privatissimo rito: ad ogni rappresentazione Carvalho evoca i fantasmi delle pagine di Pirandello per poi esorcizzarli alla fine, dando vita ad una funzione purificatoria capace di conferire alla sua performance una valenza artaudiana. Quello di Cacà è un dialogo privato con lo spettatore, una narrazione la cui potenza espressiva partecipa della straordinaria ricchezza che Pirandello seppe regalare ai suoi personaggi e alle loro maschere: spesso inquietanti e contraddittorie, sempre testimoni di una parabola esistenziale in cui vive qualcosa di eterno e universale. A questa ricchezza il pubblico è costretto a partecipare: lo spettatore non può che diventare complice dell’attore, accostando le proprie percezioni a quelle che Carvalho attribuisce ai suoi personaggi. Abbiamo incontrato Cacà per farci raccontare qualcosa di più di uno spettacolo che a lui ha portato tanta fortuna. La poltrona scura ha infatti vinto il premio APCA della critica paulista come migliore spettacolo del 2003, e Carvalho, nello stesso anno, ha vinto il premio Shell come migliore attore: in Brasile lo spettacolo è stato replicato 132 volte ed ha avuto in totale 15.215 spettatori; in Italia, nel 2004, ha avuto 33 repliche, mentre per il 2005 ne sono previste 28), e che rappresenta una tappa importante della sua carriera di attore. L’occasione era quella giusta per conoscere meglio la storia di un artista che nel suo Paese è famoso come una star del cinema, e che l’Italia sta imparando a conoscere grazie ad un nuovo modo di recitare Pirandello.

Torniamo al febbraio del 2004, alla messa in scena della Poltrona scura nella Casa-Museo di via Bosio: era la prima volta che un attore faceva vivere i personaggi delle novelle di Pirandello nel luogo dove egli li ha creati. Che cosa ha significato per te quell’esperienza, e quali sono le tracce che ha lasciato nel tuo lavoro?

Ha lasciato in me un’impronta profonda, che non accenna a scomparire… per fortuna! Quell’esperienza continua ad avere un’influenza diretta, perché lì più che in qualsiasi altro luogo ho trovato una cosa che amo, all’interno di uno spettacolo: la qualità dell’intimità che si crea col pubblico. Dopo quell’esperienza romana sono tornato in Brasile: nel mio paese lo spettacolo ha un sapore molto diverso rispetto a quello che ha in Italia. Ho l’impressione che per gli italiani questo Pirandello sia come il rivedere qualcuno di conosciuto: è come se riconoscessero una persona cara che però, questa volta, si presenta loro indossando un costume diverso. E loro sembrano dire: “Ma guarda come sta bene anche così!”. In Brasile Pirandello è conosciuto, certo, ma ovviamente non come da voi: non fa parte degli autori che i ragazzi studiano a scuola, ad esempio. Allora, in Brasile, il pubblico vive la sensazione di conoscere una persona mai vista prima, quando vede il mio spettacolo; una volta davanti a questo sconosciuto, sembrano dire: “Ma guarda come si veste bene, come parla bene…”. E non puoi che incantarti di fronte alla loro reazione. Sì, sono sicuramente due cose molto diverse…

In che modo questo cambiamento di prospettiva influisce sul tuo modo di rendere i personaggi che interpreti? Anche in Brasile riesci a mantenere quella dimensione di intimità di cui parlavi prima?

In Brasile, per il fatto che sono una persona molto conosciuta e che La poltrona scura ha vinto dei premi importanti, dobbiamo fare spettacoli in luoghi adatti ad accogliere molto pubblico: in Italia il numero di spettatori è molto inferiore (dai 70 ai 100 posti, in genere). In Brasile ho fatto spettacoli anche per 500 persone. Questa differenza di pubblico richiede di fare un’operazione molto delicata: mantenere anche nel mio paese le caratteristiche che in Italia i miei personaggi riescono a trovare, i colori particolari che arrivano loro dal fatto di trovarsi a recitare quasi “in punta di piedi” per un pubblico ristretto, un pubblico che ti consente di appoggiarti su equilibri delicatissimi; ma al contempo “ingrandire” queste caratteristiche, per adattarle ad un tipo di platea diversa, che ha aspettative diverse. E’come dover “aprire” lo spettacolo ad un tipo di esigenza nuova, sapendo però di non dover aprirlo troppo per non perdere la sua vera natura… allora tutti gli equilibri cambiano: e questa è una gestione che mi obbliga ad un tipo di attenzione molto interessante per un attore. Ieri (il 20 gennaio, la prima data a Pontedera del 2005 Ndr) ho fatto lo spettacolo per 30 persone, e per me la cosa ha avuto un effetto altamente positivo: all’improvviso ho potuto ritrovare quell’atmosfera sottile, intima, che non sentivo da tempo. La cosa veramente fondamentale, per me, in qualsiasi posto mi trovi, è mettere in scena cose vive: quando faccio parlare quei personaggi non sto facendo teatro…quella è vita, vita vera. Se non sentissi vive le cose che racconto a chi mi ascolta, non potrei mai fare uno stesso spettacolo così tante volte.

Parlaci del rapporto che ti lega a Luigi Pirandello…

Un attore ha bisogno sempre di un maestro: lo può trovare in tante situazioni diverse, non deve essere per forza un maestro di teatro. Può essere suo padre, o il suo regista, o l’autore dei testi su cui lavora. Il maestro ideale è colui che sa indicarti vie per cercare la tua crescita. Io, finora, ho avuto la fortuna di lavorare con testi di autori che per me sono stati fondamentali. Da quando, assieme a Roberto Bacci, ho messo in scena L’uomo dal fiore in bocca (nel 1994, ndr), ho scoperto veramente Pirandello: scoperto nel senso che mi sono messo come “pelle” il suo sguardo sul mondo. E’ uno sguardo che sa farti riflettere e crescere come persona. Rappresentare questo autore significa per me esprimere frammenti di vita, di intensità: a ogni secondo di spettacolo nasce e muore qualcosa di me. Lui per me è un maestro per che mi aiuta a capire la vita: sono sicuro che quello che ha scritto è frutto non solo di una riflessione profonda sull’essere umano, ma anche di un’esperienza esistenziale che ha le sue radici in una profonda e intima sofferenza. Non si tratta solo di pagine ben scritte e di costruzioni drammaturgiche perfette: questo faceva parte del mestiere, e lui, naturalmente, lo aveva. C’è molto di più: la materia che lui plasma è così piena di riso e lacrime perché è vera: è comica e tragica, tragicamente comica e comicamente tragica, sempre. La sua scrittura è una cortina che quando viene aperta ti fa pensare: “Guarda che cosa è l’uomo, guarda come siamo… come sono”. Le sue parole sono come una fotografia nella quale ognuno può riconoscere se stesso.

Vorrei che tu ricostruissi per noi la tua vicenda artistica, per far conoscere meglio al pubblico italiano come nasce e come si snoda il tuo percorso di attore…

Sono nato in Brasile, a Belém, in Amazônia, 51 anni fa. Ho scoperto la passione per il teatro a 16 anni: a quell’età ho capito che il teatro sarebbe stata la mia strada. Ci si può facilmente immaginare cosa potesse significare fare teatro in Amazônia 35 anni fa. La città di Belém è diventata piccola molto presto. A 19 anni sono partito da lì e dopo 3 giorni di pullman sono arrivato a São Paulo. Ho fatto l’esame per essere ammesso alla scuola di recitazione di São Paulo ma non sono stato preso. C’era anche una scuola a pagamento, e ho deciso di rivolgermi a quella: per pagare la retta e le spese di affitto cucinavo hamburger per un locale. Quella scuola è stato il mio vero inizio. Il primo momento di svolta, per me, è arrivato con uno spettacolo che ha cambiato il corso del teatro brasiliano: Macunaima, l’adattamento teatrale di un classico della letteratura brasiliana, un romanzo di Mário de Andrade. Lo spettacolo fece il giro di tutto il mondo (Cacà era il protagonista di Macunaima, 1978 Ndr): 400 repliche e 4 ore sul palcoscenico. Quel periodo, per il Brasile, è stato molto importante: ci fu l’apertura del paese verso l’esterno, la fine della dittatura. Lasciai lo spettacolo dopo 4 anni. Un altro momento importante per la mia carriera è stato segnato da un altro grande autore brasiliano, João Guimarães Rosa: misi in scena un suo racconto, Meu tio o iavarete. Celina Sodré, che aveva già lavorato a Pontedera con Roberto Bacci, vide lo spettacolo a Rio de Janeiro: è stata lei a far incontrare Roberto e me. Nel 1988 sono arrivato a Pontedera: l’incontro con il Centro per la Ricerca Teatrale di questa città ha segnato il mio passaggio a una logica di lavoro teatrale completamente nuova per me; questa volta non mi trovavo più all’interno di un gruppo che si riuniva per realizzare una cosa, ero parte di una realtà fatta di compagni di percorso. Ora sono passati già 16 anni, e il legame che mi unisce alla Fondazione Pontedera Teatro e alla città che la ospita è molto profondo, e per me vitale. Dall’anno scorso, oltre a lavorare per gli spettacoli che la Fondazione ha prodotto per me, seguo anche i corsi di formazione di Pontedera (nel 2004, grazie agli sforzi congiunti di enti pubblici e privati di Pontedera e São Paulo, la Fondazione Pontedera Teatro ha potuto attivare la “Casa Laboratorio per le Arti del Teatro”, progetto mirato alla creazione di un gruppo stabile di lavoro di professionisti che possa in futuro diventare il protagonista delle produzioni del laboratorio. Roberto Bacci e Cacà Carvalho sono i responsabili artistici del progetto Ndr): è questa la tappa più recente del mio percorso.

La poltrona scura sarà al Teatro Rossini di Gioia del Colle (Ba) il 10 e l’11 febbraio, al CRT di Milano dal 15 al 20 febbraio, al Teatro di Via Manzoni di Pontedera (Pi) dal 22 al 24 febbraio, il 26 febbraio a Dozza (Bo).

Andrea_Lanini

2005-01-29T00:00:00




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