La palestra filologica di Luca Ronconi

Il corso di perfezionamento del Centro Teatrale Santacristina

Pubblicato il 19/09/2011 / di / ateatro n. 135

La strada che porta verso Santa Cristina parte da Casa del Diavolo, un piccolo borgo nella Val Tiberina, e s’inerpica sulle colline dolci e selvatiche dell’Umbria. Una strada bianca segue una tranquilla valletta, finché non s’arriva al Centro Teatrale Santacristina. Sono quattro fabbricati, uno dietro l’altro: il primo blocco è la foresteria dove alloggiano i ragazzi, poi l’ampia sala da pranzo-soggiorno con la cucina e infine i due capannoni trasformati in sala prove. Lo stile è minimale, essenziale: un Giardino dell’Eden teatrale di pratica eleganza immerso nel verde e lontano qualche chilometro da ogni distrazione.


Foto di Luigi La Selva.

E’ lì che ogni estate, dal 2002, il regista e Roberta Carlotto, animatori del Centro, ospitano un’intensa sessione di studio con un gruppo di ragazzi, allievi dell’Accademia Nazinale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, partner del progetto dal 2010. Quest’anno Ronconi e gli allievi hanno lavorato su alcune scene tratte da Pilade di Pier Paolo Pasolini, da Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini e soprattutto dai Sei personaggi pirandelliani, che andrà in scena l’anno prossimo a Spoleto.
La vocazione pedagogica fa parte da sempre dell’arsenale ronconiano. La scintilla si dev’essere accesa quando arrivò lui stesso come giovane allievo di Orazio Costa all’Accademia. Si è accentuata in questi anni, con impegni all’Accademia, alla Scuola del Piccolo Teatro (che sta selezionando i candidati in queste settimane) e quella piccola utopia rappresentata di Santa Cristina. Un po’ convento e un po’ caserma, per l’impegno ascetico e totalizzante, oltre che per gli orari di lavoro e per una disciplina che non c’è nemmeno bisogno di imporre, Santacristina è un esempio di teatro 24/7, come si direbbe ora: ventiquattro ore al giorno per sette giorni alla settimana, per un mese di intenso lavoro tra agosto e settembre.


Foto di Luigi La Selva.

Ronconi, regista di grandi spettacoli oltre che di veri e propri kolossal, sembra trovare qui la sua dimensione più autentica, e una contagiosa felicità: “La cosa che mi diverte di più è lavorare con gli attori, soprattutto adesso”. Basta vederlo in prova, con gli attori o con i giovani allievi, concentrato e curioso, preciso e incalzante.
Il punto di partenza è il testo. Per certi aspetti, Ronconi insegna prima di tutto e soprattutto a leggere un testo.
Il primo passo è la scomposizione del testo nel sue unità significanti: parole, sintagmi, frasi… Ogni battuta viene sminuzzata e osservata con una sorta di lente d’ingrandimento, alla ricerca di tutti i possibili nuclei di senso, che dovranno riemergere attraverso la voce e il corpo dell’attore. E’ un lavoro minuzioso, “di fino”: una palestra filologica dove il significato diventa corpo. Se emerge uno scarto tra le intenzioni attribuite al testo e la restituzione da parte dell’attore, su questo scarto il regista insiste con pazienza. Da questo esercizio sul senso del testo, si precisa il ritmo della battuta, costruito proprio a partire dalla densità del significato, dall’agglutinarsi di nuclei di senso, dalle sorprese e dagli scarti del testo. Per paradosso, il significato emerge quasi più dalle pause – dai silenzi – che dal flusso delle parole.


Foto di Luigi La Selva.

La verifica del palcoscenico ha per oggetto anche il testo: solo grazie alla fatica dell’attore è infatti possibile misurarne la profondità e la tenuta. In una vicenda come quella italiana, dove non si è mai sedimentata una tradizione teatrale nazionale (e dove la lingua dei commediografi risulta spesso artificiale, artefatta), partire da un testo, e per la precisione da testi con una forte matrice e ambizione letteraria, rappresenta una presa di posizione forte. Implica la necessità di ripartire da zero, di reinventarsi una tradizione che non si è mai coagulata, per costruire un repertorio. La base sono proprio quegli autori che con la loro parola tengono la scena: non a caso nel canone ronconiano rientrano diversi testi che non avevano una destinazione originariamente teatrale, dall’Orlando furioso al Pasticciaccio. Anche gli autori scelti per questa sessione 2011 rientrano nel canone ronconiano: nelle loro differenze permettono ai giovani allievi di appropriarsi di una variegata tavolozza linguistica: lessicale, sintattica, metrica…


Foto di Luigi La Selva.

Quella tra l’attore e il testo non è l’unica tensione che dà energia alla ricerca. C’è anche quella tra l’attore e il personaggio, che emerge nei suoi tratti caratteristici proprio dal confronto serrato con il testo. Si delineano così, e vengono puntigliosamente valutate e fissate, le intenzioni dei singoli personaggi, e le loro motivazioni profonde. E’ in questa fase che iniziano a definirsi la gestualità e l’occupazione gli spazi da parte dell’attore.
C’è ancora, vivamente, la dialettica tra i vari personaggi, anch’essa esplorata nella carne viva del lavoro sul palcoscenico, generando una ulteriore dinamica. Dal rapporto tra i personaggi discende l’occupazione degli spazi: una occupazione anch’essa dinamica, fatta di posizioni e di spostamenti, che spesso si libera da preoccupazioni naturalistiche, per evidenziare rapporti e flussi di energia. Ronconi predilige precise geometrie: il palcoscenico è percorso da una griglia immaginaria, ma anche di diagonali e circonferenze.
Infine, è costante l’attenzione al rapporto con il pubblico: nelle intenzioni dell’autore e dell’attore, ma anche nelle reazioni dello spettatore, suggerendo ulteriori stratificazioni nel lavoro sullo spazio, valutando anche la composizione del quadro scenico.
Per certi aspetti, quella condotta da Ronconi è una “scuola elementare del teatro” (per riprendere un’invenzione di Tadeusz Kantor). Il teatro diventa uno strumento di conoscenza e di indagine.Nelle prove dei giovani allievi di Santacristina il lavoro di scomposizione e ricomposizione del testo emerge con immediatezza e grande evidenza, e in tutta la sua problematica ricchezza. L’attore – gli attori – esplorano le diverse possibili sfocature di significato di una parola, di una frase. E, così facendo, ne verificano la credibilità e l’efficacia, in sé e nel rapporto con gli altri elementi dello spettacolo. E’ un problema di coerenza interna e di credibilità, che il lavoro nello spazio scenico sottopone a serrata verifica: così molte soluzioni si rivelano impraticabili, o meno efficaci, e vengono dunque scartate; per altre, l’interprete non si rivela all’altezza, e dunque diventa necessario prendere una strada alternativa.


Foto di Luigi La Selva.

Quello seguito da Ronconi è un metodo “bottom-up”, che non parte cioè da un’Idea precostituita del testo, da un’unica chiave interpretativa a cui ricondurre l’intera lettura – e la messinscena – del testo, garantita dall’autorevolezza del regista, ovvero il metodo “top-down” che aveva caratterizzato la prima stagione della regia. Al contrario, l’approccio di Ronconi è programmaticamente anti-ideologico e privilegia piuttosto la funzione conoscitiva del lavoro di palcoscenico. E’ basato su un atteggiamento analitico e razionale, che scompone il testo in unità di significato per poi interpretarle con gli strumenti della logica, della storia, della filosofia, della psicologia, della politica….
La consapevolezza delle stratificazioni – e dunque la possibile compresenza di una molteplicità di significati e di chiavi di lettura – tende inevitabilmente a privilegiare la dimensione ironica, con un costante effetto di straniamento, che può essere esplicitato in diverse direzioni: per distanziarsi dal testo e/o dal suo autore, oppure dal personaggio, così come nelle relazioni tra le diverse figure.
Un atteggiamento di questo genere è certamente più in sintonia con una mentalità post-moderna, che usa gli attrezzi dell’età del sospetto, quella affinata dalle scoperte di Marx, Freud e dello strutturalismo linguistico e antropologico. Comporta tuttavia due nodi problematici. Il primo riguarda l’inevitabile freddezza che cala sul testo: la dimensione e la tensione emotiva dei personaggi rischia di passare in secondo piano, raffreddata da questa poderosa macchina interpretativa.
E qui emerge un altro aspetto problematico del “metodo Ronconi”, un problema che gli ermeneuti conoscono bene: quello dei limiti dell’interpretazione. Di fatto, quella condotta da Ronconi e dai suoi attori è una operazione critica nei confronti del testo. Tra le molte letture possibili di una battuta, o di un testo, quali sono quelle legittime? Sono tutte legittime? La pratica scenica offre però uno strumento di verifica: molte chiavi interpretative non reggono alla “prova palcoscenico”, per i motivi più disparati. La gamma delle interpretazioni possibili non è infinita, viene da dedurre.
Un altro nodo riguarda l’impianto complessivo dello spettacolo: come è possibile ricondurre una serie di rilevamenti puntuali all’interno del testo – o nella costruzione delle singole scene – a un disegno complessivo? Come ritrovare una unità a quelle che potrebbero rivelarsi schegge incoerenti? Ovviamente il postulato implicito è che l’unitarietà sia stata garantita “a priori” dal progetto dell’autore, che deve essere portato alla luce proprio da questa operazione di scavo nel testo – un’operazione “archeologica”, avrebbe potuto forse aggiungere Foucault. E tuttavia proprio la “cultura del sospetto” ci insegnano che spesso le opere trascendono le intenzioni dell’autore. Lapsus, incoerenze e scorciatoie ideologiche sono sempre in agguato, e Ronconi li bracca con evidente soddisfazione.
Per Ronconi, si tratta anche di liberare il testo dalle incrostazioni che si sono sedimentate nel corso della storia, attraverso letture critiche e soprattutto attraverso la successione degli allestimenti. Quando affronta un classico, Ronconi è attento e consapevole delle varie interpretazioni dei testi che allestisce, e spesso si diverte a contraddirle (ma può capitare anche con testi contemporanei: basti pensare al suo approccio alla Modestia di Rafael Spregelburd).
Nel caso dei Sei personaggi, per esempio, si sfoga: “Uffa, che barba questa storia del teatro nel teatro! E poi il testo è pieno di questa aneddotica insopportabile, effetti che Pirandello doveva utilizzare per compiacere il pubblico del suo tempo. Sono convinto che il testo, se lo si libera da tutte queste incrostazioni, diventi molto più interessante. “. Ecco dunque che il punto di partenza diventa un altro: “Nei Sei personaggi è come se Pirandello esplorasse le diverse possibilità della rappresentazione.” E’ uno slittamento sottile, ma radicale: si passa dalla dialettica quadro-cornice a una gradazione di diversi “livelli di realtà”, che nel lavoro con i giovani attori trova subito una concretezza: di fronte alla concretezza degli attori e del regista, i personaggi diventano quasi spettri, larve, a tratti addirittura caricature. Da queste scene, affidate ad attori ventenni che interpretano anche parti di vecchi e di bambini (un’ennesima maschera ronconiana) si coglie la promessa di una lettura per molti aspetti sorprendente del testo di Pirandello, palpitante e perturbante.
Si capisce anche quanto possa essere impegnativo questo Giardino dell’Eden teatrale. I giovani allievi imparano, nella loro carne, che la verità in scena (e non solo) non è un frutto che si coglie con facilità. Non basta allungare la mano verso il ramo, non serve “essere spontanei e liberi”. Perché la costruzione della verità è un processo lungo e faticoso. Richiede impegno, cultura e intelligenza. Regala anche, lungo il percorso di conoscenza del testo, di sé stessi e degli altri, grandi soddisfazioni, e un piacere profondo. E può restituire, alla fine, schegge di bellezza e di verità.

Vedi anche Lungo viaggio verso Santa Cristina (Al lavoro con Luca Ronconi) di Fabrizio Arcuri.

Luca Ronconi nella ate@tropedia.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2011-09-19T00:00:00




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