L’ospite Pasolini

Una conversazione con Daniela Niccolò su Pasolini, L'ospite & altro

Pubblicato il 19/07/2005 / di / ateatro n. 086

Quando Pier Paolo Pasolini decise di raccontare attraverso il corpo degli attori il lento disgregarsi delle certezze e delle ipocrisie dell’’interno borghese di Teorema, ingranaggio spietatamente cinico destinato a fagocitare l’’ego della “buona famiglia” italiana, pensò di girare un film: il suo teatro di parola sarebbe probabilmente risultato inadatto a esprimere il vuoto e i lunghi silenzi di un romanzo che progrediva sullo sbriciolamento della conversazione, su un dialogo che diventa vittima e specchio dell’aridità spirituale di quel microcosmo che il poeta friulano identificava con la borghesia. L’incontro tra il teatro e la complessità dell’opera pasoliniana sono avvenuti attraverso l’arte dei Motus, compagnia simbolo di una straordinaria stagione dello spettacolo italiano legata alla “Romagna felix” e all’esplosione creativa dei gruppi degli anni Novanta, e da più di un decennio autrice di lavori che sono costantemente ospitati dai festival più importanti del mondo: il loro ultimo spettacolo, L’Ospite, è il risultato di un percorso d’indagine della poetica e della multiforme espressività di Pasolini iniziato nel 2002, e che oggi vive di una compenetrazione affascinante tra la cifra stilistica della loro produzione e quella dello scrittore-regista-drammaturgo. In un teatro che mira alla resa di una rappresentazione filtrata attraverso il linguaggio del cinema, in un luogo scenico che abolisce definitivamente la sua natura di decoro per farsi autarchico mondo da vivere e percepire attraverso la commistione dei media, l’atmosfera di Teorema diventa il territorio ideale per mostrare al pubblico la creazione di una tipologia nuova d’attore, il cui potere comunicativo non è più delegato alla parola ma ad un flusso di pensiero e coscienza che si estrinseca attraverso le arti digitali, il video, il primo piano, il montaggio in scena: la tecnologia più avanzata diventa così tramite per la narrazione di un urlo originario, di un moto di rivolta che Pasolini incarnò nelle vesti di uno sconosciuto ed enigmatico ospite e nella violenza delle sue verità. Abbiamo chiesto a Daniela Nicolò (assieme ad Enrico Casagrande fondatrice e anima creativa della compagnia) di parlarci del suo rapporto con Pasolini, da sempre costante punto di riferimento per i Motus.

Pasolini cercò costantemente di sperimentare nuovi mezzi espressivi: questo desiderio di tentare vie sempre nuove – caratteristica che lo rende molto vicino ad un tipo di percorso come il vostro – lo ha talvolta circondato di incomprensione e dissenso, facendo apparire la sua opera contraddittoria, impenetrabile, sconcertante. Quale è, e quale è stato, il vostro rapporto con Pasolini autore, con le sue scelte artistiche?

Pasolini è stato a lungo un autore controverso anche per noi: ci sono stati degli aspetti del suo lavoro che per molto tempo non abbiamo amato, e che probabilmente solo oggi abbiamo imparato ad apprezzare e capire, durante questo lungo periodo di studio e di ricerca sulla sua opera. Il nostro avvicinamento al suo universo creativo è stato difficile, pieno di contraddizioni: abbiamo sempre avuto un grandissimo rispetto per la sua capacità di attraversare e utilizzare le varie forme dell’espressione – poesia, letteratura, cinema, pittura -, per il suo impegno politico. Trovare oggi un artista che riesce a lavorare così a tutto tondo è veramente difficile: oggi ognuno è troppo chiuso nel suo mondo espressivo. Una delle grandi lezioni di Pasolini è stata quella di dare dimostrazione di una possibilità straordinaria di spaziare da un campo all’altro, di attraversare gli ambiti artistici mantenendo inalterata la capacità di essere sempre originale. Ci ha veramente colpito il suo arrivare al cinema così tardi e arrivarci con questa carica di novità nel linguaggio. La nostra esigenza di superare i nostri stessi limiti e i nostri codici, il nostro desiderio di sorpassare il già acquisito sono sicuramente un punto di contatto con lui. Anche il nostro lavoro, come il suo, cerca da sempre numerose affinità con vari ambiti artistici come la letteratura, il cinema, le arti visive, la musica. Questa apertura di campo entra inevitabilmente nel nostro teatro. Credo che ci avvicini a lui anche un’urgenza forte di rivolgerci e di rivolgere lo sguardo sul contemporaneo, sulla quotidianità: anche se Pier Paolo Pasolini è stato sicuramente molto più efficace di noi, perché aveva una presenza continua sui mezzi di comunicazione di massa. I suoi erano anche anni diversi: c’era un impegno politico molto più evidente; da parte nostra c’è un’intenzione di raccontare il contemporaneo, ma ovviamente non con l’impegno politico che aveva lui.

Dei tanti aspetti che caratterizzano questo autore, quale è secondo te quello che oggi dimostra la sua maggior forza?

Credo che sia proprio quello che, qualche anno fa, sembrava pagare un eccesso di retorica: la critica ai mezzi di comunicazione di massa, e in particolare l’intervento che portò avanti direttamente contro il mezzo televisivo. Solo dieci – quindici anni fa io stessa giudicavo quella presa di posizione così dura un po’eccessiva, fin troppo retorica. Ma vedendo ciò che la tv è diventata, in Italia e non solo, osservando l’abbrutimento dei media e il livellamento dei programmi delle reti pubbliche e private, non si può che dire che aveva ragione lui, e che il suo sguardo era riuscito a percepire i segnali di ciò che sarebbe successo. E pensare che la tv che Pasolini criticava noi oggi ce la sognamo: era una tv che poteva spesso permettersi programmi anche molto interessanti. In questo è stato profetico. Negli ultimi anni la cultura del nostro Paese ha subito un tracollo generale un po’ su tutti i livelli. La nostra esigenza è stata proprio quella di recuperare questo Pasolini, il Pasolini degli ultimi anni, quello che si occupa soprattutto della borghesia.

E per scardinare le dinamiche borghesi Pasolini fa arrivare questo misterioso “ospite”…

Certo. Il nostro lavoro parte essenzialmente dal romanzo: tutti conoscono il film, ma per molti aspetti il romanzo è superiore, un’opera assolutamente straordinaria. Il film e il romanzo offrono angolazioni e punti di vista sul suo pensiero anche lontani: nello spettacolo abbiamo cercato di coniugare la parola scritta (un tipo di scrittura matematica, analitica) con ciò che Pasolini ha raccontato attraverso il grande schermo. Utilizzando dei mezzi espressivi che a quel tempo non esistevano: il teatro di Pasolini era un teatro molto legato alla parola. La nostra contaminazione e la nostra tecnologia hanno reso possibile la convivenza tra immagine, silenzio, parola scritta. Lo spettacolo crea un ambiente che riesce a far convivere questi due territori, universi lontani provenienti dal film e dal romanzo. Ti confesso che per me le cose migliori di Pasolini non vanno cercate nel teatro, anche se alcune cose che lui ha scritto per il palcoscenico sono molto belle. Io amo molto di più il Pasolini romanziere e narratore.

Il tema del deserto è un fil rouge che attraversa tutto il vostro spettacolo e che è presente anche nelle vostre passate produzioni – in “Rooms” apparivano le immagini dei deserti americani arricchite dalle suggestioni provenienti da De Lillo e dal “rumore bianco” -, e al contempo è un topos dell’opera e della poetica di Pasolini…

I deserti sono i luoghi a cui siamo più intimamente legati. Sono il posto più adatto per mettersi in gioco. In Teorema ci sono delle pagine bellissime dedicate all’attraversamento del deserto, e per il nostro spettacolo abbiamo girato molte immagini dedicate a questo luogo speciale che spesso è la meta preferita dei nostri viaggi. Anche Pasolini, appena aveva un po’ di tempo, si rifugiava nei deserti di Africa e India: per lui rappresentavano l’universo ideale per lanciare l’urlo definitivo, per incontrare la dimensione del sacro. In Pasolini il rapporto col sacro è molto forte, mentre in noi questa ricerca è più velata. Noi non siamo credenti, e non credente era anche Pasolini, ma in lui questa contraddizione tra il non credere e il bisogno di ricercare la dimensione del sacro era probabilmente più forte. E il deserto è il luogo del mondo in cui senti più forte il bisogno di porti questa domanda, di riflettere sul tuo rapporto con la religione.

Uno dei dati più evidenti dell’Ospite è un inequivocabile cambio di rotta rispetto alla vostra produzione precedente: la leggerezza e l’autoironia che caratterizzavano anche i momenti più intensi e aspri dei vostri spettacoli lasciano il posto ad una disperazione che sembra senza speranza, ad un atmosfera plumbea che vive della mancanza di qualsiasi possibile via di fuga…

Con L’ospite abbiamo toccato temi per noi molto forti, molto drammatici. E’ vero che c’è un’importante svolta, in questo spettacolo: direi che questo è il primo lavoro in cui l’ironia scompare del tutto. Quello che in questa occasione presentiamo al pubblico è uno sguardo disperato, e non poteva essere altrimenti, perché L’ospite è il frutto di una lunga sofferenza : per noi è stato molto difficile arrivare a trovare una strada per mettere in scena quelle parole, quell’esasperazione che Pasolini lascia trasparire dal suo testo. La svolta deriva da qui, la scomparsa di qualsiasi componente ironica parte da questo dato di fatto. Questa dimensione più cupa riflette anche il momento molto difficile che chi fa teatro si trova ad affrontare in questi anni: la situazione, in generale, è veramente preoccupante.

Anche lo stato attuale delle cose trova spazio nell’indagine che lo spettacolo propone: ci sono delle domande che, partendo da una riflessione sugli anni di piombo, finiscono inevitabilmente per centrare le problematiche del momento che stiamo vivendo. Il riflettere sui nostri giorni dà origine ad un’inquietudine eloquente…

La domanda politica dello spettacolo è molto forte, ed è diretta alla nostra quotidianità, pur partendo dai fatti politici degli anni Settanta. In quel periodo è iniziata una discesa che non si è più interrotta, e Pasolini aveva previsto ciò che oggi si sta realizzando. Nel romanzo queste domande politiche ci sono, ma noi nello spettacolo ci siamo spinti oltre: non ci siamo fermati a quegli anni, ma abbiamo diretto lo sguardo su quanto sta accadendo oggi. Per notare che se al tempo di Teorema sembrava esserci ancora un barlume di speranza, quella speranza sembra oggi scomparsa del tutto: nella nostra visione anche quei tenui bagliori tendono a spegnersi.

Quali sono le reazioni del pubblico a questo nuovo sguardo dei Motus?

Abbiamo verificato che il pubblico rimane molto toccato da questo nuovo punto di vista che lo spettacolo propone, il dolore di questa presa di coscienza arriva molto: la gente percepisce subito che L’ospite è una cosa molto diversa da quelle che abbiamo proposto in passato.

Pensi che si possa considerare attraversata una linea di non ritorno? Non penso che un’esperienza così sofferta e radicale si lascerà facilmente accantonare, in futuro…

Assolutamente. Le acquisizioni provenienti da questo nuovo percorso continueranno a far sentire la loro presenza: posso dirti che abbiamo già deciso di continuare a lavorare su Pasolini. Anche nel nostro nuovo progetto, Piccoli episodi di fascismo quotidiano, continuiamo ad osservare un passato molto recente per capire meglio l’oggi. Per noi però è anche importante recuperare una certa leggerezza che comunque è nostra: in Piccoli episodi l’ironia tornerà a farsi sentire, ma sarà cattiva, molto cattiva!.

L’ospite ha debuttato in Francia: qual è stata la reazione del pubblico?

In Francia la reazione è stata molto bella: abbiamo scoperto che lì Pasolini è amatissimo e, soprattutto, conosciutissimo. Tante persone ci hanno avvicinato per farci domande che dimostravano una preparazione sbalorditiva sulla sua opera…

Quali sono le prossime tappe dell’Ospite?

In autunno lo porteremo in Germania, e poi, speriamo, in Canada, paese con cui si è avviato un bellissimo discorso. In Canada abbiamo fatto Twin rooms, che è uno spettacolo sulla cultura americana: devo dire che Twin rooms è stato capito molto di più in Canada – paese molto antiamericano (eravamo in Québec) – che in Italia; là hanno avvertito molto di più le tematiche che abbiamo deciso di affrontare, le critiche a certi aspetti della società degli Stati Uniti che autori come De Lillo attaccano spesso nei loro libri.

C’è un pubblico che preferite in assoluto?

Direi quello dei paesi dell’Est europeo. Per quella gente andare a teatro è una cosa importantissima, che fa veramente parte della vita: i teatri sono sempre strapieni, è una cosa bellissima. E questo grande interesse è dimostrato anche dall’attenzione che i media dedicano al teatro, alle compagnie, agli autori.

Vogliamo parlare della situazione attuale del teatro italiano?

Devo dirti che sono molto pessimista, in questo momento. Attraversiamo una fase estremamente difficile: i gruppi vivi, quelli che continuano a proporre cose nuove e che in qualche modo “resistono”, hanno davanti a loro una strada che è sempre più in salita. Lavorare in Italia facendo un certo tipo di percorso – un percorso indipendente dai grandi stabili che con i loro scambi stanno monopolizzando tutto, un cammino che cerca una sua originalità e autonomia – è sempre più difficile. Credo si possa dire che questo sia il periodo peggiore che abbiamo mai attraversato: i circuiti sono sempre più chiusi, e sono pochissimi i teatri che trovano il coraggio di ospitare produzioni di un certo tipo. Noi abbiamo fatto lo spettacolo a Cascina (L’ospite è andato in scena a “LaCittàdelTeatro” di Cascina lo scorso 23 aprile, Ndr) proprio perché il direttore, Sandro Garzella, ha voluto fortemente questa cosa. Il problema non è quello del pubblico: al “Rossini” di Pesaro abbiamo fatto due repliche con L’ospite che hanno registrato il tutto esaurito, e sono state le date con il maggior numero di spettatori di tutta la stagione di prosa. Il problema riguarda la volontà di chi deve decidere, e questa volontà diventa politica nel momento in cui si decide di non far passare un certo tipo di spettacolo. In Italia L’ospite non riesce a girare: noi stiamo sopravvivendo grazie ai contatti che abbiamo con l’estero. Se fosse per i risultati che abbiamo in Italia, avremmo dovuto smettere da tempo, anche se poi non lo facciamo mai perché non riusciamo a rinunciare al nostro lavoro. Dovremo lavorare su progetti più piccoli, in futuro. In realtà è tutto molto triste. Da tempo stiamo valutando l’ipotesi di andarcene definitivamente dal nostro paese. La speranza è quella di trovare la forza di poter resistere facendo qualcosa insieme agli altri gruppi. I Motus hanno raggiunto un certo livello allargando la compagnia, dando lavoro a delle persone: la prospettiva di dover tornare indietro è sconfortante, e non è una questione di orgoglio. E’ la volontà di non voler accettare delle logiche che ti impediscono di fare quel tipo di lavoro che la tua passione e la tua volontà sanno di poter portare avanti.

Andrea_Lanini

2005-07-19T00:00:00




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