Un kolossal fatto in casa
I demoni secondo Peter Stein
Con le ultime repliche a Pordenone e a Torino, è terminata la tournée dei Demòni di Peter Stein. I numeri sono quelli di un kolossal dallannunciato destino di monumentalità: 12 ore di spettacolo, 26 attori in scena, 25 mila chilometri per raggiungere 8 città italiane e 5 internazionali, complessivamente 350 ore di rappresentazione.
Niente male, in effetti, per un lavoro nato in casa: la casa di Stein, comè noto, nella campagna umbra, dove lo spettacolo è stato concepito e dove ha debuttato dopo la cancellazione, per voto unanime del consiglio damministrazione dello Stabile di Torino, dal cartellone dellAstra (che pure ha finito per ospitare la tappa conclusiva della maratona teatrale). Le polemiche sul caso ben rappresentano la situazione teatrale italiana, tra accuse incrociate di inaffidabilità e di sprechi, di incapacità manageriale e di provincialismo.
Per evitare un aumento dei costi, che sarebbero lievitati a un milione di euro, lo Stabile sabaudo tagliò lo spettacolo dal cartellone ma dovette rispettare il contratto e continuare a pagare gli attori finendo per coprire buona parte della spesa (400 mila euro su circa 500) che portò, su proposta dello stesso direttore Mario Martone, alla messinscena nella residenza del regista. Il tutto in tempi di crisi nera per il settore, sindignò qualcuno; unoccasione persa per forzare i limiti di un sistema stantio, rispondevano altri. NellItalia dei premi, le polemiche si sono ricomposte tra un riconoscimento allallestimento (Premio Ubu come migliore spettacolo del 2009) e uno alla committenza (Martone ha difeso il suo operato ricevendo il Premio Aldo Trionfo per la precedente direzione del Teatro di Roma). Lo spettacolo che alla fine sembra essere costato 750 mila euro, con lintervento produttivo dello stesso Stein e del milanese Tieffeteatro è stato dunque consegnato al pubblico già con laura del capolavoro: uno spettacolo storico, levento dellanno come si legge nel libretto di sala e in ogni articolo giornalistico dedicato allevento.
Mostrare la noia
In effetti, la presenza di alcuni grandi interpreti del teatro italiano, lattento adattamento a cura dello stesso Stein, le coerenti scelte registiche fanno dei Demoni unimpresa straordinaria. Quanto al capolavoro, bisognerebbe intendersi. Per ambientare il complesso intreccio del romanzo di Dostoevskij, Stein ha scelto di intervenire con semplici elementi scenografici di carattere sineddotico (un tappeto per una sala, foglie secche sparse a terra per un esterno, un letto per una camera, eccetera), lasciando agli attori il compito di riempire lo spazio scenico semivuoto, come un foglio di carta bianco su cui la parola degli attori si incide con forza: difficile dire se le parole degli attori si incidano, certo però riempiono lo spazio, dato che non vi è mai un momento di silenzio, mai unoccasione di andare oltre il testo.
Le scene di Ferdinand Woegerbauer prevedono cambi a vista, veloci, essenziali, tecnici che spostano mobili, oggetti e praticabili. Gli stessi attori fanno ruotare una parete double face che introduce di volta in volta nella camera di Satov, dove la moglie tornerà per partorire il figlio di Stavogrin; nella casa della zoppa Marja Timoféevna e del fratello ubriacone che la batte con la cinghia; nello studio in cui Kirillov si prepara al suicidio in lunghe notti insonni accanto al samovar. Per gran parte dello spettacolo le luci rimangono fisse, bianche. I costumi di Anna Maria Heinreich caratterizzano i personaggi principali con misurato realismo storico. Dal pianoforte a lato della scena giungono le note dal vivo di Arturo Annecchino, discreto contrappunto, talvolta didascalico, a una recitazione che a Stein piace definire cinematografica, internazionale, alla russa, contrapponendola a «quella italiana che è melodica e non trasmette del tutto il senso delle parole».
Di qui leffetto monodico di alcune scene, che diventa monotono in altre, e che comunque non conosce slanci lirici né stridori grotteschi. Una medietà forse ispirata allo stile impostosi dallo stesso Dostoevskij, che nel taccuino dei Demoni scriveva: «Indispensabile mostrare che la noia è sempre presente». Noia in senso puramente leopardiano, che però nello spettacolo cova e fatica a venire alla luce.
Oltre il bene e il male
Attorno alla casa della generalessa Varvara Petrovna vedova Stavrogin (Maddalena Crippa) dove Stepàn Verchovenskij (Elia Schilton) ex precettore del giovane Stavrogin (Ivan Alovisio) è rimasto ospite parassita, succube della donna e vanesio cultore dellIdea socialista ruota una serie di altri spazi animati da frammenti di storie e personaggi sempre inquieti, attraversati da differenti aneliti a unimpossibile libertà che si traducono in progetti di sovvertimento dellordine sociale e perfino naturale. Ma è lenigmatica figura di Stavrogin a tirare i fili dei destini che sincrociano solo per distruggersi. Ricomparso nella cittadina materna dopo avventure e scandali a San Pietroburgo e allestero, il giovane è il motore immobile di aspirazioni ideali che degenerano in cieco fanatismo, di nefandezze e violenze gratuite, di spinte nichiliste e disperazioni esistenziali che sfociano in omicidi e suicidi. Getta il sasso e poi ritira il braccio per stare a guardare, perché non ha nessuno scopo, è oltre il bene e il male, e scatena negli altri con indifferenza la forza negativa di cui non sa che farsene.
È il più coerente sviluppo del Raskolnikov di Delitto e castigo, come scrisse Luigi Pareyson. È incapace di vivere, prova piacere a umiliarsi, ma con orgoglio, eppure la sua perversità diabolica esercita unattrazione che sembra emanare dallo sguardo. E infatti Alovisio plasma un personaggio agile, elegante, sempre a testa alta, con gli occhi scuri e penetranti. Tutti gli ripetono: «Voi avete avuto una parte così importante nella mia vita» e si lasciano plagiare. Porta al suicidio una ragazzina per la vergogna di esserglisi concessa; sposa quasi per ripicca nei confronti del mondo («mi venne lidea di storpiare la mia vita nel modo più ripugnante possibile») Marja, la sciancata che non ci sta più con la testa; lascia credere a Pëtr Verchovenskij di poter essere il leader di quella rivoluzione che il giovane vagheggia e che intanto porta allassassinio di Satov, di cui però si assumerà la responsabilità lingegnere nichilista Kirillov, da tempo deciso al suicidio per dimostrare linesistenza di Dio e dunque la propria libertà.
Derive del moderno
Tra gli attori spicca la coppia Crippa-Schilton, dai dialoghi efficaci, pieni di vezzi francesi e sottili ironie, che vedono lei sostenere con piglio rigido i di lui svolazzanti ragionamenti e capricci. Quanto lei è severa e responsabile, tanto lui è puerile e labile. Con i suoi capelli lunghi e la barbetta bianca, le sue cravatte eleganti, le sue citazioni letterarie, Stepàn è levanescente profeta locale della Grande Idea, un sognatore con laria del sessantottino invecchiato, che spesso parla per non dire niente. «Voi parlavate, noi passeremo allazione, vecchio», gli urla in faccia il figlio Pëtr, allungando così la visione premonitrice dello scrittore russo fino al nostro recente passato di utopie finite nel sangue, di disperate ribellioni generazionali, di demoni che hanno invasato il corpo sociale. Estrema conseguenza di una modernità materialista e nichilista che Dostoevskij aveva stigmatizzato anticipando di mezzo secolo la deriva stalinista della rivoluzione dottobre.
Il nervoso Pëtr Verchovenskij di Alessandro Averone, dalla voce sempre strozzata, lo Stavrogin di Alovisio e il Satov di Rosario Lisma sono personaggi costruiti con una intensità psicologica che qualche volta riesce a incarnarsi in modo non convenzionale. Forse il più riuscito, in questo senso, è il Kirillov di Fausto Russo Alesi, che nel suo febbricitante raccoglimento misura la stanza a passi lenti, quasi involontari, prima del suicidio logico cui lo conduce la sua mistica atea. Pia Lanciotti è una Marja Timoféevna espressionista e claudicante, Franco Ravera un caricaturale capitano Lebjadkin. La bravura di Maria Grazia Mandruzzato è sacrificata nel ruolo secondario di Praskovia Ivànovna. Oltre che per la scenografia, pars pro toto poteva essere un buon criterio anche per sfoltire il resto degli attori, tanto più che le scene corali sono le meno riuscite (il comizio, lassemblea, la festa) e di alcune dallimbarazzante convenzionalità (tutte quelle con il governatore) non si sarebbe sentita la mancanza drammaturgica. In che cosa consista, infine, la dichiara revisione del rapporto con gli spettatori, non è chiaro. O bastano le pause brevi per andare al bagno e quelle più lunghe per pranzo e cena per rendere il pubblico partecipe e non solo osservatore? Perché per le rimanenti nove ore si resta seduti al proprio posto: davanti a una parete che nessun cambio di scena infrange. Ma forse ha ragione Peter Stein, forse proprio così «si fanno anche più familiari, più facili da riconoscere dentro di noi, quei demoni con cui Dostoevskij indicava le malattie di una generazione di cui siamo figli». Anche in senso teatrale.
Foto di Luca D’Agostino.
Fernando_Marchiori
2010-11-14T00:00:00
Tag: #Romanziteatrali (19), SteinPeter (5)
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