Possiamo fare dei robot, possiamo creare la vita

Incontro (doppio) con Marcel.lì Antunez Roca

Pubblicato il 19/07/2005 / di / ateatro n. 086

Proponiamo suddiviso in brevi frammenti tematici il testo di alcune conversazioni e conferenze inedite di Marcel.lì Antunez Roca realizzate nell’’aprile 2005 in Italia (a Cascina, alla Città del teatro, e alla Spezia, all’auditorium Dialma Ruggiero) coordinati da Giacomo Verde e Anna Maria Monteverdi per le associazioni Zonegemma e Cut up.
Il titolo di questi appunti sul lavoro dell’artista catalano non è altro che la frase con cui Marce.lì ha congedato il pubblico spezzino e che ricorda, attualizzata all’epoca tecnologica, l’invito di Hobbes nel Leviatano a “fare un uomo nuovo”, a sessant’anni esatti dalla comparsa del primo computer.
Marcel.lì Antunez Roca in queste occasioni ha raccontato il suo lavoro a partire dagli anni Novanta mostrando contestualmente immagini proiettate dal suo computer; l’attenzione era focalizzata sui “temi topici” delle sue installazioni, bioscuture e performance tra cui il rapporto tra biologia e tecnologia, tra cultura e mitologia e l’uso di robot ed esoscheletri, soffermandosi sul nuovo spettacolo Transpermia, realizzato a seguito di un’esperienza molto particolare a gravità zero condotta nell’ex Unione Sovietica, al Centro Aereospaziale Yuri Gagarin Cosmonautic presso la Città delle Stelle a sessanta chilometri da Mosca per il progetto Dedalus (2003). L’esoscheletro gli permette in questo caso di agire sullo schermo animando gli straordinari disegni a cartoon che raccontano un futuro non lontano fatto di incredibili interfacce organiche che ci permetteranno di mutare a nostro piacimento non solo il sesso, ma anche il genere (da umano ad animale a vegetale) aumentando percezioni e sensazioni, tornando infine al luogo utopico d’origine: lo spazio..
Il programma consente inoltre al performer anche di modificare e modulare la propria voce e i suoni, dando dimostrazione concreta di una mutazione tecno-antropologica già in atto.

DOPO LA FURA
Ho lavorato negli anni Ottanta con il gruppo spagnolo Fura dels Baus come coordinatore, attore e musicista; questo ha rappresentato una parte importante del mio lavoro che era nato dal collettivo con una metodologia aperta e che si trasformava pian piano con la discussione, con la sperimentazione anche in rapporto col pubblico; la Fura oltrepassa la seconda avanguardia degli anni Settanta e Ottanta con una visione più spettacolare degli altri gruppi, mescolando la musica di quel momento, industriale e noise, con una reinterpretazione del teatro di strada ma dentro spazi chiusi, industriali, vecchie fabbriche riusate appositamente per uno scopo artistico. Sono uscito dalla Fura agli inizi degli anni Novanta e da allora ho fatto molte cose; è stato per me un periodo fertile ma a trent’anni ho dovuto ricominciare la mia carriera da zero. Le cose che ho fatto all’inizio di questo eprcorso senza la Fura, dal 1990 al 1994 sono sculture, facce ricostruite con carne di maiale; sviluppavo poi il tema della dipendenza, della macchina di piacere che sono stati alcuni dei temi delle mie opere successive.

JOAN UOMO DI CARNE
Nel 1992 ho sviluppato un robot Joan uomo di carne; è una figura a scala umana 1:1, un robot ricoperto di carne di maiale che ha la capacità di interagire con il pubblico e quando il pubblico gli parla lui si muove con un sistema di “cattura di suono” di tipo analogico, attraverso un microfono e poi il suono è convertito in segnale midi; è un lavoro molto interattivo e molto particolare nel mio percorso iniziale: senza l’informatica questo lavoro non ha alcun senso, il computer è imprescindibile; il computer donava la vita attraverso la voce dello spettatore e attraverso la macchina, e la macchina allo stesso tempo diventava un meccanismo di relazione.

Joan che è stato installato in spazi pubblici, al Mercato della Boqueria, vicino alla Ramblas a Barcellona, muove la testa e il braccio e un po’ anche il pene con il suono acuto delle donne che si avvicinano; e più le donne ridono più la situazione diventa molto divertente. Talvolta anzi, è più interessante il pubblico della scultura!
Da quel momento in poi il mio lavoro si è sempre basato sul computer, con il dressskeleton che è un sistema capace di leggere il movimento corporale e che ha diversi interruttori che servono per controllare una situazione ipermediale.

INTERFACCE CORPORALI: Epizoo, Requiem, Afasia.
Una delle forme che ho sviluppato e perfezionato dal 1998 a oggi è un’ interfaccia corporale di natura esoscheletrica, il “dresskeleton”, già sviluppato dalla robotica dagli anni Cinquanta e che io uso come fosse un dispositivo, uno strumento per raccontare storie. Il dressskeleton diventa il ponte che connette il corpo con la macchina Il performer oltrepassa la sua posizione classica di attore e diventa anche un po’ danzatore e collega il suo movimento con quello che fa la macchina.
Afasia (1998), è stato realizzato con il primo prototipo di dresskeleton per il controllo delle immagini dello schermo alle mie spalle.

All’estremo opposto c’è un esoscheletro “parassita” che non fa la stessa cosa del dresskeleton diciamo così amplificare la possibilità della gestualità- ipermedia- fino a quando diventa un robot che controlla il corpo. Epizoo e Requiem sono due macchine con una motivazione diversa. Epizoo è una macchina fatta inizialmente per muovere la parte sessuale del corpo, un’ortopedia basata sull’idea della sessualità, del rapporto tra sesso e potere. Il robot è diventato anche una performance più complessa, una macchina che sta tra il confine tra piacere e dolore.
Epizoo è questo esoskeleton robotico che muove il mio culo e il mio busto le mie orecchie ed è stato fatto per costruire una “macchina sessuale” per controllare corpo e sessualità.

Questa macchina e il sistema sono controllati da un mouse a sua volta controllato dallo spettatore che diventa protagonista come torturatore.

Requiem che è stato fatto per la mia esposizione Epifania, ha la forma di un’installazione; è una macchina basata sulla tema, sull’idea della morte ed è diventata una forma di scrittura scenica e coreografica perché con i suoi 19 gradi di movimento robotico poteva diventare un vero coreografo. Il corpo recupera la vita grazie a questa specie di sarcafago meccanico che ha la possibilità di muoversi fino a 19 gradi. Requiem è una macchina che mi ha fatto scoprire una via non immaginata prima: diventa una macchina per scrivere gesti, una macchina in qualche modo per coreografare, in quanto la gestualità, la coreografia sono state finora legate alla tradizione orale, c’è un coreografo che spiega come muoversi ma non c’era una maniera per scrivere come fare.

Questa macchina poteva essere usata per quello scopo. Lo scorso anno è stato in molti festival di danza per questo motivo.
Sono molto interessato ai robot che sono una parte, un’estensione del mio discorso performativo-artistico; ho lavorato con Sergi Jordà e Roland Olbeter, un ingegnere tedesco che abita a Barcellona da Joan fino oggi; lui si è occupato sempre di disegnare precisamente e interpretare la mia idea di forma di robot. In Afasia ho sviluppato il lavoro con il suono, sono collegato in forma interattiva al dresskeleton grazie al quale i movimenti del corpo sono convertiti in istruzioni per il computer e collego il suono di chitarra, cornamusa al dresskleeton; posso modificare in diretta immagini proiettate sullo schermo, suoni e robot. Per l’attore diventa un nuovo modello e un nuovo modo di stare in scena perché mescola sia l’idea del manipolatore di marionetta sia quella di attore che sta raccontando le storie e anche quella di danzatore. In Afasia attraverso il dressskeleton, il narratore usa tutti i media per raccontare un mito, l’Odissea.

SISTEMATURGIA
Parlo del mio lavoro come di sistematurgia, una drammaturgia che ha bisogno della informatica, una drammaturgia basata sul principio della gestione della complessità del computer. La sistematurgia è fondamentalmente un processo interattivo che indaga attraverso nuovi prototipi, un arco di mediazione che include l’interfaccia, il calcolo e i nuovi mezzi di rappresentazione. Non è un teatro-video in cui si vedono immagini che sono state fatte prima e che si sviluppano in maniera sequenziale. La sistematurgia sta al servizio di una narrazione, di un racconto, di un organismo teatrale ma lo fa in maniera interattiva usando uno strumento ipermediale.

BIOSCULTURE
La biologia è un sistema e mi sembrava una buona idea metterla nello stesso livello concettuale di un sistema informatico e della drammaturgia. Ho una storia biologica mi segue; lo scorso anno ho preparato un “esoscheletro” sopra cui era inscritto un poema catalano:
“Se quando sto dormendo ti vedo chiaro, sono matto di una dolce veleno”.
Allora lo scheletro, ricoperto di carne è messo dentro l’interno di una vetrina dove c’è un sistema biologico naturale di decomposizione, ci sono funghi e batteri che fanno decomporre la carne, e la telecamera filma tutte le “fasi storiche” di questa decomposizione, e la carne sparisce e si legge il poema. Ogni giorno questa bioscultura se ne va; è una bioinstallazione dove la carne diventa materia biologica in decomposizione. Ci vuole un mese di tempo per la decomposizione.

TECNOLOGIA E BIOLOGIA

Sono interessato all’idea della biologia. Non è un paradosso. La tecnologia e la biologia sono due percorsi paralleli; io sono convinto che la cultura è un processo biologico e la tecnologia è la conseguenza di questa forma culturale che alla fine diventa un mondo complesso con regole molte volte vicinissime a quelle della biologia.
Un mio lavoro fatto nel 1987 consisteva in pitture vive che mostrano decomposizioni: pollo, carota e pesce che si stanno decomponendo. Nel nuovo museo della scienza Barcellona c’è una replica di un mio lavoro del 1999 che non sono altro che sculture biologiche che col tempo si decompongono, una colonna di un metro e settanta piena di fango e acqua con un ecosistema che va cambiando sempre, che si alimenta con la luce e ogni mese ha un colore diverse rimanendo sempre vivo. Io ho una colonna dal 1999 nel mio studio, una colonna vivente come la chiamo io.

TEMI TOPICI
La vulnerabilità del corpo, la sessualità, il cibo, il desiderio, la maternità, il genere umano, il gioco, la salute, la metamorfosi, il simulacro, la chimera, la famiglia, il clan, l’utopia, la sincope, il folclore, l’idea di sacrifico, l’estasi, la protesi, l’istinto, il tatto e la fabula.

PROGETTO LA CITTA’ DELLE STELLE
Nel 2003 ho avuto la fortuna di essere invitato da Catalyst, un’organizzazione nata in Inghilterra per fare esperienze in gravità zero. Questa associazione è specializzata nel far progetti sull’arte e la scienza e dal 2000 al 2003 hanno fatto tre campagne in cui hanno portato artisti alla Città delle stelle in Russia e li hanno messi in un aeroplano per sperimentare la gravità zero e la doppia gravità. C’è una macchina preparata per fare un volo di parabola a gravità zero.
La parabola serve per istruire i cosmonauti, ed è stata disegnata e inventata per i sovietici e oggi è usata dalla Nasa e dall’Agenzia europea dell’ Aereonautica.
Là c’era la replica della Mir che serviva per le prove di fluttuabililtà, per le prove dell’attività extra veicolare. Ho portato il mio staff, esoscheletro, schermi; siamo stati due giorni.Siamo stati invitati a partecipare a questa storia incredibile. Ci siamo visti all’inizio di aprile del 2003. Io ho avuto la fortuna di fare due voli diversi, 6 parabole nel primo e 19 nel secondo e mettere dentro tutta la mia esperienza più recente, il dresskeleton sviluppato per Pol e Requiem; abbiamo avuto l’idea di usare il movimento involontario del corpo che rimaneva collegato con lo schermo che è dietro. Abbiamo fatto questa esperienza due volte. Il primo giorno abbiamo realizzato microperformance di 30” ognuno con esoscheletro e schermo con immagini. Mi muovevo ma non aveva senso il movimento perché quando il corpo va in gravità zero prende una nuova dimensione di movimento senza bisogno di muovere niente; così abbiamo seguito un’altra strategia il secondo giorno. Abbiamo deciso di usare gli strumenti in modo diverso. L’esperimento con dresskselton questa volta prevedeva la presenza di uno degli istruttori, Boris che mi faceva muovere. Il periodo della gravità zero comincia dall’aereoporto militare con un volo che dura un’ora e mezza; l’aereo va a 6000 metri di altezza, fa una parabola di trenta secondi fino a 8000 metri e si lascia cadere poi va di nuovo a 6000 metri, tutto in un minuto e mezzo
Nei trenta secondi di doppia gravità senti i polmoni e il fegato che si comprimono e dopo c’è la gravità zero che significa perdita della autopercezione con cambio della pressione sanguigna, una nuova realtà dimensionale per tornare alla microgravità. In questa città delle stelle hanno sviluppato l’idea assurda di portare la vita fuori della biosfera e dopo queste esperienza ho pensato alla costruzione di un progetto che parlasse del portare la vita all’esterno attraverso un mezzo artificiale.

TRANSPERMIA-PANSPERMIA INVERSA
Portare la vita nello spazio mi ha fatto ricordare un’idea che spiega l’’inizio, l’origine della vita nel nostro pianeta: la teoria della panspermia. Probabilmente comete e asteroidi sono venuti dalla stelle con materia biologiche batteri e spore hanno fatto crash sulla terra ed è uscita la vita 3600 milioni di anni fa e così ha inizio l’’evoluzione biologica. La cultura in questo processo biologico fabbrica gli astronauti che ritornano allo spazio, all’esterno una nuova volta. La panspermia che ha portato la vita ritorna allo spazio attraverso una nuova panspermia inversa che io chiamo transpermia. L’’utopia per me è di permettere a tutti, non solo ai cosmonauti e ai militari di andare nello spazio.
Il mio progetto Transpermia è dove abita questo prototipo dell’utopia.

Anna_Maria_Monteverdi

2005-07-19T00:00:00




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