Lingue teatrali

Saggio di linguistica ipotetica e applicata con una Breve antologia della fantalingua

Pubblicato il 16/12/2005 / di / ateatro n. 000

Questo testo è stato originariamente pubblicato sul Patalogo otto, Annuario 1985 dello spettacolo, Ubulibri, Milano, 1985.

Mentre lo scrivevo non avevo letto After Babel di George Steiner (pubblicato originariamente nel 1975, tr. it. Dopo Babele, Sansoni, Firenze, 1984, nuova edizione Garzanti, Milano, 1994). E non potevo ovviamente aver letto Maurice Olender, Les Langues du Paradis (1989, tr. it. Le lingue del paradiso,
Il Mulino, Bologna, 1990) e Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta, Bompiani, Milano, 1993 – che peraltro non fa cenno di molte di queste lingue  teatrali.

Friedrich Hölderlin, 
Voce del popolo, 
VV. 1-2 
Voce di Dio, io ti credetti un
tempo
 
In sacra giovinezza, e io dico
ancora!
 
Infinite sono le ragioni per inventare una lingua:
si va dalla terribile punizione dell’orgoglio umano adottata dal dio degli
eserciti al tempo di Babele, ai gerghi chiusi e incomprensibili agli estranei
costruiti dalle società segrete e criminali; dai linguaggi perfetti
e autosufficienti sognati dagli scienziati per spurgare le loro discipline
da ogni equivoco e per parlare con le macchine, alle lingue franche nate
– spesso con la muta complicità del mare – dall’incontro di diverse
comunità, di schiavi e di uomini liberi.
Se restringiamo però
l’ambito dell’indagine al campo artistico e scientifico (l’accostamento
non deve sorprendere: sono due domini nei quali la lingua è il mezzo
e la precisione coincide con la perfezione) sembrano essere sostanzialmente
tre gli ordini di motivi che possono spingere a questa folle impresa. Si
tratta, nei tre casi, di costruire un ponte sopra un baratro: una voragine
che sembra isolare inevitabilmente il linguaggio, che lo rende inutile
e approssimativo.
Questo abisso (potrebbe essere una quasi impercettibile
scollatura, l’effetto non cambia) può distaccare il linguaggio dal
pensiero. Oppure può allontanarlo dalle cose. O infine, e a questo
fa riferimento il terzo ordine di motivi, può rendere impossibile
la comunicazionecon altri individui (che parlano eventualmente
lo stesso linguaggio).
In queste tre situazioni
così presentate, il linguaggio tende ad apparire come elemento passivo;
uno specchio la cui immagine non combacia più con un suo “doppio”
– pensiero, mondo, Altro. Ma pure considerando il linguaggio come elemento
attivo, causa di possibili mutazioni – come spesso avviene sulla scena
– si troverà la sua antitesi in uno di questi elementi.
Restringendo ulteriormente l’analisi al teatro,
l’ultimo aspetto, quello relativo al perfezionamento della comunicazione,
potrebbe apparire prioritario. Eppure è proprio questo il versante
che l’invenzione delle lingue teatrali sembra trascurare. Sulla scena Sono
infatti numerosi gli esempi di rinuncia a una comunicazione trasparente
e prefabbricata, a favore di un mezzo dichiaratamente oscuro, incomprensibile
allo spettatore.

Uno dei casi più noti è quello
del greco antico resuscitato da Andrei Serban.

Ugualmente conosciuta
è l’esperienza di Peter Brook che in
collaborazione con Ted Hughes ha addirittura inventato una lingua, l’Orghast,
idioma ufficiale dello spettacolo omonimo (che raccoglieva peraltro anche
frammenti greco antico, del latino di Seneca e di avestico – l’antica lingua
sapienzale dello zoroastrismo) presentato a Shiraz nel 1970, le cui radici
erano peraltro già abbozzate nel Teatro e il suo spazio:
Peter
Brook, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli, Milano, 1968, p.
61.
C’è
un altro linguaggio tanto impegnativo per l’autore quanto un linguaggio
di parole? C’è un linguaggio di azioni, un linguaggio di suoni,
un linguaggio di parole come parte del movimento, di parole conte menzogna,
di parole come parodia, di parole come rottami, di parole come tradizione,
di parole-shock, di parole-grido?
Si trattava, forse,
di cercare il “plusvalore” di cui la scena incrementa la semplice parola
scritta: proprio da questa esigenza, ampliata dalla necessità pratica
di gestire un gruppo internazionale, sarebbe nato l’Orghast.

 

I dati comuni a tutti gli esperimenti di questo
genere sono lo slittamento del significato in un regno inesplorato e inesplorabile
e la frustrazione dell’ansia di senso che anima lo spettatore: ma di fronte
a un linguaggio che si offre come uno specchio vuoto, come superficie indecifrabile
e variegata, ecco l’immagine riempirsi dei possibili significati rimossi
evocati dall’accavallarsi di suoni di articolati ma incomprensibili.
Paradossalmente, il
rifiuto di una coincidenza razionalmente intelligibile può essere
il frutto della stessa necessità di razionalizzare la comunicazione.
La lingua perfetta, da questo punto di vista, è infatti quella che
tutti, indistintamente, capiscono. Se a questo requisito astratto e inverificabile
se ne sostituisce un altro, più “democratico”, quello delle equicomprensibilità,
è immediato trovare una soluzione minima. Basta concepire una lingua
assolutamente inintelligibile, fatti di puri suoni, significante refrattario
per chiunque a ogni senso.
La storia del teatro è ricca di soluzioni
di questo tipo, spesso curiose e imprevedibili (vedi gli aneddoti raccolti
da Alexander Tairov).
La pratica di queste
“lingue impossibili” può d’altro canto apportare una correzione
alla filosofia della Biblioteca di Babele. Nell’incubo borgesiano,
in base al calcolo combinatorio, i libri che possono popolare la Biblioteca
– salvo improbabili e inutili doppioni – sono numerosissimi, ma sempre
in numero finito, dato che finiti sono l’insieme di lettere e il numero
di caratteri di cui sono composti.
Tuttavia non è detto che le lingue
che organizzano e interpretano queste serie finite di segni siano a loro
volta finite. Anzi, a rigore, di uno stesso e unico libro, di una stessa
pagina, di una stessa riga, si potranno avere infiniti sensi, a seconda
della lingua utilizzata per decifrarli.
La stessa cosa avviene,
con le debite proporzioni, quando una “lingua impossibile” obbliga lo spettatore
a decifrarla: quanto minori saranno gli appigli che offrirà a una
lettura cosciente, tanto più diverse saranno le interpretazioni,
a seconda dei diversi vissuti di ogni spettatore. 
A questo punto si rivela la paradossale affinità
di queste lingue impossibili con la lingua della comunicazione totale,
comprensibile a tutti, in cui ciascuno trova la possibilità di rispecchiarsi,
totalmente e incondizionatamente. E’ l’aspirazione di ogni comunicazione
“trasparente”: un miraggio peraltro estremamente pericoloso, come già
avvertivano con i compilatori del medievale Liber mostruorum, descrivendo
“quelli che parlano tutte le lingue”:
Liber
mostruorum de diversis generibus,
a cura di Corrado Bologna, Bompiani,
Milano, 1977, p. 63.
Testimoni
riportano di una razza variamente versatile, in un’isola del Mar Rosso.
Costoro parlano tutte le lingue del mondo, e perciò lasciano di
stucco gli stranieri che capitano lì venendo da lontano, chiamando
per nome i loro conoscenti, nella loro lingua: così li acchiappano
e se li mangiano subito, senza neppur cuocerli.
Affascinante metafora
di un certo tipo di spettacolo anche qui ideale, pronto a catturare nella
vertigine del suo mondo l’incauto e avventuroso spettatore, con tutto il
suo vissuto, per farne l’ostaggio cannibalico della parola.

Affine alla lingua totale di questi cannibali
isolani è il discorso che sembra garantire la massima apertura e
disponibilità per costruire in realtà la più soffocante
delle ragnatele, il discorso onnivoro della società della comunicazione
diffusa. E’ quello che Roland Barthes definisce “discorso del potere”.

Roland
Barthes, Le bruissement de la langue, Seuil, Paris, 1984.
Discorso
pieno: in esso non c’è spazio per l’altro: di qui la sensazione
di soffocamento, di avvelenamento che può provocare in chi non vi
partecipa (…) E’ un discorso diffuso e se è possibile dirlo, osmotico,
che impregna gli scambi, i riti sociali, i divertimenti, il campo socio-simbolico
(soprattutto, è evidente, nelle società a comunicazione di
massa). (…) Jakobson ha efficacemente sottolineato che una lingua non
si definisce per quello che permette di dire, ma perché obbliga
a dire.
Ecco immediatamente
emergere la necessità di un discorso antagonista, che trovi nella
sua stessa oscurità, nei suoi vuoti e nei suoi slittamenti, il suo
punto di forza, l’apertura di provvisorie linee di fuga, la costruzione
di possibili sacche di resistenza.
Proprio sulla linea
d’equilibrio tra queste due tendenze (da una parte la forza del vuoto e
del silenzio, la libertà totale del caso, dall’altra l’invadenza
di un discorso che tende ad annullare ogni differenza) è possibile
tracciare l’evoluzione dì una propria lingua, trovando spesso un
appiglio nel dialetto o nel gergo, oppure nell’affascinante e arbitraria
costruzione di una “lingua franca”: al di fuori, in ogni caso, di un codice
imposto e dominante. In questo ambito, non si può dimenticare l’esempio
forse più radicale, quello dell’ultimo incompreso spettacolo di
Victor García, un Gilgamesh polemicamente
affidato in Francia a una compagnia tutta di attori arabi, appartenenti
alle più diverse nazionalità nordafricane e mediorientali,
unificate da un “panarabo” letterario, modellato su quello del Corano;
così questi immigrati denunciavano la propria diversità,
l’esclusione – anche linguistica – dal mondo in cui erano stati catapultati.
Sulla strada della
costruzione di una lingua che è al tempo stesso costruzione della
propria diversità e denuncia della propria irriducibilità
all’ambiente circostante, si è mosso invece Eugenio
Barba
, a partire dal programmatico multilinguismo di Ferai:
il risultato è una vera e propria “lingua franca” carica di significati
ideali, un mosaico di frammenti in cui è possibile, per ciascuno,
trovare una piccola parte di sé. Nello spettacolo infatti gli attori,
provenienti da paesi diversi, mantenevano la loro lingua d’origine o d’adozione:
tedesco, norvegese, svedese, naturalmente danese, ma anche un inserto latino,
per rivivere quest’altra storia di morte e resurrezione. Una scorciatoia,
forse, per riconoscersi in una totalità che trascende il mondo di
ciascun linguaggio: conservando zone franche per esplorazioni più
direttamente personali e trovando insieme l’ennesima metafora di una pratica
teatrale:
Eugenio
Barba, Aldilà delle isole galleggianti, Ubulibri, Milano,
1985, p. 93.
E’ lo stesso Barba, d’altro
canto, a focalizzare il punto di vista dello spettatore di fronte a una
lingua (o più in generale a un codice di comunicazione) a lui ignota.
Quando per esempio parla delle sue reazioni di fronte a un attore-danzatore
“orientale”: Di fronte a uno spettacolo il cui significato non può
comprendere appieno e la cui esecuzione non può apprezzare completamente,
si trova improvvisamente nell’oscurità. (…) Quando lo spettatore
si trova di fronte il “suo” teatro, a tutto ciò che già conosce,
i problemi che riconosce e che gli dicono dove o conte cercare le risposte,
creano un velo che nasconde l’esistenza del potere elementare della “seduzione”
(da The Dilated Body, Zeami Libri, Roma 1985, p. 13).

il contesto che decide del significato delle parole. Una parola può
solo essere precisa. L’origine di questo termine indica qualcosa di ben
distinto, così ben tagliato da non poter essere sostituito da nient’altro.
Si potrebbe dire che il significato
di essere attore è affrancarsi. Sono molti gli esempi storici in
cui è possibile constatare che, tramite la sua professione, l’attore
si affrancava, in un senso molto concreto, sociale e economico. Un affrancamento
non in senso vagamente psicologico, ma nel senso di:
zone franche,
en franchise de port, e forse anche nel senso di langue franche.

Forse un filosofo potrebbe
dire che gli attori (o certi attori) significano in maniera fisica, attraverso
un lavoro quotidiano, il disagio e persino la ripugnanza a accettare la
realtà della propria epoca: la loro scelta, prima dei loro spettacoli,
dice la loro incapacità a soddisfare i propri bisogni nella “vita
reale”; o il loro desiderio di non immettersi nelle “utilità del
proprio tempo”. Soltanto in futuro qualcuno potrà decifrare quale
era il significato, quali tracce ha lasciato la
zone franche dell’attore,
che ha scelto l’esercizio di un lavoro che scompare con lui.

Con il miraggio, aldilà
dei risultati effettivamente realizzabili, di una serie infinita di linguaggi
“universali”, sempre diversi, sempre più versatili (ma il rischio
è, oltrepassato il limite, quello di ricadere nel cannibalismo),
in un’inesauribile serie di combinazioni: potenziale “Meta-lingua”, in
continua creazione e autodistruzione, dai codici cangianti come sabbie
mobili, prefigurata in parte da alcune teorizzazioni sulla Saperlingua
creata da Gildas Bourdet per il Théâtre
de la Salamandre.
La stratificazione
di una lingua franca avviene di norma attraverso l’accostamento di elementi
di diverse aree geografiche. Il teatro offre però, rispetto alla
realtà, un’ulteriore possibilità: quella di condensare, in
un unico momento, le diverse stratificazioni storiche di una lingua. O
addirittura, di lingue diverse, alcune attuali, altre scomparse da secoli,
altre ancora proiettate nel futuro. A seconda della chiave dell’operazione,
lo spettacolo può diventare il terreno su cui misurare lo scorrere
del tempo, le distanze tra universi fatti di parole lontanissime: o al
contrario offrire, attraverso le differenti trame linguistiche, la costanza
di qualche dato naturale e irriducibile al divenire, l’affiorare di un
mito che attraversa tutta la storia.
E’ questo il caso,
per esempio, del recente Le piante di Padiglione
Italia
, in cui unificati dal mito botanico affiorano frammenti
di greco antico e di latino, per proiettarsi, nell’ultima parte dello spettacolo,
nel Basic, il linguaggio principe dei personal computer.
Tornando, aldilà
dei paradossi e dei circoli viziosi, alla pratica scenica di una lingua
svuotata di significato, sale in primo piano il tessuto che sorregge, al
di là della parola, ogni forma di comunicazione verbale: inflessione,
espressività, intonazione, atteggiamento. Aspetti peraltro esplorati
da molti recenti studi di semiologia, prossemica, eccetera, i cui risultati
vengono spesso applicati sulla scena in una specie di verifica sperimentale.
E’ il cammino verso una lingua che non vive
più del classico dualismo significato-significante, ma solo di intensità,
di scariche di energia, di affettività emozionale liberata dall’incontro
e dalla comunicazione. Parallela e contrapposta a questa enfatizzazione
del “tessuto significante”, ma sempre trascendendo la strettoia del significato,
è la tendenza al canto, lo slittamento verso il puro suono. La lingua
non si pone più al servizio di un discorso: trova piuttosto il suo
punto di riferimento e il suo significato profondo nel corpo. Il canto
diventa in questo caso l’espressione di una fisicità che rifiuta
ogni mediazione per farsi direttamente soffio e respiro, grido e affanno,
battito ritmico e ipnotico, alla ricerca di una trasparenza immediata,
di una riconoscibilità che passa attraverso l’identificazione con
l’altro: un’identificazione puntuale, a cercare una corrispondenza tra
organo e organo, sensazione e sensazione, quali la consegna di uno stato
d’animo che trascenda la semplice testimonianza dello spettatore.
È a una comunicazione di questo tipo che
pensava Antonin Artaud, tracciando la genesi
di un suo profetico linguaggio del corpo:
 
Antonin
Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, Adelphi,
Milano, 1966, p. 147.
Quel
che usciva fuori dalla mia milza o dal mio fegato aveva la forma delle
lettere d’un antichissimo e misterioso alfabeto masticato da un’enorme
bocca, ma spaventosamente repressa, orgogliosa, illeggibile, gelosa della
sua invisibilità.
Lingua organica e
primordiale, in grado di scatenare e cogliere la potenza dell’inconscio,
di dare voce e segno alla fisicità muta dell’essere, in grado di
ritrovare col geroglifico di un soffio… un’idea del teatro sacro.
Come suggerisce Eugenio Barba, il corpo
dell’attore come la stele di Rosetta, e lo spettatore nel ruolo di Champollion
.

Queste due strade, quella che tende al puro
contorno e quella che punta al nocciolo corporeo dell’espressione, rischiano
però di crollare, nella pratica teatrale, in un vuoto che confina
con la totale trasparenza: da una parte verso un formalismo “mimico” che
ha perso ogni sostanza; dall’altra, quando non scatta il meccanismo dell’identificazione,
in un’esercitazione solipsistica senza altro sbocco se non il virtuosismo.

Una via d’uscita,
la più semplice e immediata, è quella di trascendersi nella
musica. Volendo però insistere sulla strada dell’invenzione linguistica,
resta aperta una possibilità, suggerita dalla carica di immediatezza
di un linguaggio fatto di pura emozionalità: la ricerca di una lingua
in cui tutti i suoni siano “giusti”: appropriati cioè a quel che
intendono significare, superando l’arbitrarietà di ogni sistema
di segni sufficientemente complesso. E’ un filo che percorre tutta la riflessione
filosofica occidentale, a partire dal Cratilo platonico, con la
sua ricerca, ora ironica ora più convinta, di un’esattezza “fonetica”
delle parole. Perché 
Platone,
Cratilo, Laterza, Bari, 1982, p. 43.
chi
aggiunge lettere o ne toglie, altera fortemente il senso delle parole;
cosicché con mutamenti pur minimi, fa che tal volta esse significano
proprio il contrario.
Questa ricerca è
ovviamente appannaggio della poesia, e infatti al teatro di poesia faranno
tendenzialmente riferimento i tentativi in questa direzione.
Ma suggerisce contemporaneamente un passo
ulteriore: l’evocazione di una lingua originaria e primordiale. L’obiettivo
divenuta allora la lingua, quella parlata dagli uomini prima del disastro
di Babele, quella che gli uomini parleranno ai tempi della Fratellanza
Universale.

Il sogno di questo idioma adamitico affiora
spesso anche in teatro: ma generalmente senza la presunzione di arrivarvi
effettivamente, accontentandosi di proiettarsi in un passato meno lontano
ma forse ugualmente mitico.

E’ il caso per esempio di Tartessos, in
cui lo spagnolo Miguel Romero Esteo resuscita con la sua lingua la civiltà
mediterranea precedente le invasioni fenicie e ariane, in una maniacale
ricostruzione di questa età dell’oro dimenticata da secoli. L’intero
dramma – ammesso che così possa definirsi un testo dichiaratamente
irrappresentabile, per la sua mole e la struttura grandiosa ed ermetica
– vive della stratificazione e dello scontro di culture diverse. Parallelamente
nella scrittura di Romero Esteo s’incontrano e s’intrecciano le lingue
più diverse: lo spagnolo, che costituisce l’ossatura dell’azione,
o piuttosto il commento didascalico essenziale alla sua comprensione; numerosi
frammenti di “tartesso”, la lingua originaria della città, ricostruita
e reinventata dallo scrittore in ritmi e sonorità che richiamano
quelle della lingua basca; e poi il greco antico (del resto uno dei personaggi,
Eulakios, è un greco) e i vari linguaggi africani di alleati, sudditi
e ambasciatori: bororo, etiopi, eccetera.

Questo vertiginoso polilinguismo risponde
alla necessità di un’accuratezza filologica nella ricostruzione
della civiltà di Tartessos: si ispira infatti ai pochi documenti
originali in lingua tartessa, traslitterati in caratteri latini. Ma si
lega contemporaneamente alle precedenti opere di Romero Esteo, vicine
allo sperimentalismo linguistico praticato dalle avanguardie storiche.
Questi due aspetti apparentemente contradditori – la trasgressione delle
normali regole morfologiche e sintattiche e la ricerca di una lingua “originaria”
– trovano il punto di tangenza nella esasperata musicalità della
scrittura. Romero Esteo, con la sua formazione di musicista, ha infatti
composto per Tartessos anche una serie di musiche, canti e cori
rituali, in un contrappunto liturgico dell’azione che proprio nell’uso
di idiomi silenziosi trova il suo ermetico fascino.

In una direzione analoga
si muove in parte anche il celeberrimo Grammelot di Dario
Fo
che, oltre gli ascendenti colti – Molière e Commedia
dell’Arte in testa – ritrova le cadenze e gli accenti di un dialetto padano
ormai dissolto, di un universo contadino e materno tanto dimenticato da
dover esser reinventato. Anche se è ovviamente impossibile negare
al Grammelot un chiaro segno politico: una politica che è prima
di tutto pedagogia, alla scoperta (o meglio, riscoperta) della propria
alterità.
La lingua santa avantidiluviana di
Vico trova così una sua precisa collocazione storica e sociale,
una forza potenzialmente rivoluzionaria, il mezzo di una possibile presa
di coscienza di classe, ritagliandosi uno spazio autonomo dal “discorso
del potere” barthesiano.
All’estremo opposto
della lingua primordiale, affini fin quasi a chiudere il cerchio, troviamo
invece i possibili e ambiziosi esperanti della Consapevolezza Totale. Ma
il tempo dell’Eden Futuro sembra oggi estremamente lontano: e alla Lingua
Universale non si chiede tanto di sancire un auspicabile stato di fatto,
quanto di promuoverne l’avvicinamento. La lingua diventa quindi un elemento
attivo, in grado di modificare la stessa realtà. E’ quanto vorrebbe
fare, con i suoi quattro livelli di marca neoplatonica, la nuova Generalissima
della Società Raffaello Sanzio.
La perfezione della Generalissima ha un presupposto
implicito, rintracciabile ancora una volta, nella sua formulazione più
sintetica, nel Cratilo: I primi nomi gli dei li posero e perciò
sono giusti
. In altri termini, l’esattezza della lingua dipenderebbe
dall’esattezza dei nomi assegnati alle cose. 

Teoricamente è possibile ribaltare
la prospettiva: invece di una lingua che assegna i nomi alle cose, è
possibile immaginare una lingua che attraverso il nome chiama le cose all’essere.
Una lingua che crea essa stessa il mondo di cui parla (in cui le cose senza
nome semplicemente non esistono) ha sedotto molti antropologi e semiologi,
ribaltando la visione della lingua come semplice specchio della realtà;
ma che prima di loro, attraverso le parole dei poeti, ha chiamato alla
vita affascinanti e infiniti universi paralleli, isole incantate cui la
scena è riuscita, a volte, a dare consistenza.

D’altro canto l’esattezza
dei nomi non è sufficiente a garantire la perfezione di una lingua:
l’esattezza delle parti non garantisce l’esattezza del Tutto. Da questo
punto di vista, sarebbe necessario concepire una lingua in cui siano possibili
unicamente affermazioni vere: un linguaggio in cui (Wittgenstein
insegna) le frasi senza senso sono impossibili: semplicemente impronunciabili.
Questa lingua però per sua stessa natura,
come ogni lingua “perfetta” sembra refrattaria a un uso puramente teatrale:
il teatro può portare in scena il suo condensarsi o il suo dissolversi,
ma se si esaurisce in essa rischia di perdere ogni tensione e carica evocativa,
pietrificandosi in una forma refrattaria a ogni sviluppo.
Franz
Kafka, Descrizione di una battaglia, in Parabole, schizzi, a
cura di Giuliano Baioni, Dall’Oglio, Milano 1982.
Non
è quella febbre, quel mal di mare di terraferma, conte una sorta
di lebbra? Non avete la sensazione come di non potervi più accontentare,
per l’ardore che vi sentite addosso, dei veri nomi delle cose, non ne avete
mai abbastanza e, nella fretta, rovesciate su di esse dei nomi a casaccio?
Purché sia in fretta, in fretta! Ma non appena siete fuggiti via
da loro, ecco che ne avete già di nuovo scordati i nomi. Il pioppo
dei campi, che avete chiamato ‘Torre di Babele’ perché non sapevate
o non volevate saper che era un pioppo, ondeggia di nuovo senza nome, e
voi dovete chiamarlo ‘Noè quand’era ubriaco’.
Il libro, la parola,
non sono più, in questo caso, la metafora del mondo. E’ piuttosto
il mondo a diventare metafora del Libro, dando una forma ai suoi momenti
forti, trovando un’esistenza ai suoi passi canonici: puro simbolo, fissato
per l’eternità e destinato a fluttuare eternamente alla ricerca
di un impossibile legame con una realtà evanescente, inafferrabile.
In questo passaggio della parola al mondo è possibile trovare una
lontana affinità con la genesi di un segno teatrale – costituito
di cose e immagini, e quindi materia – a partire da un testo letterario
preesistente: rapporto sempre labile, destinato ogni volta alla dissoluzione,
fonte di eterna insoddisfazione.
Altre direzioni possono invece essere segnalate
da due passi di Wittgenstein. Il primo riporta al celeberrimo linguaggio
dei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, frutto di una totale regressione
del segno nell’oggetto:
Ludwig
Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, 1974.
Il
linguaggio delle parole permette combinazioni insensate di parole, ma il
linguaggio delle rappresentazioni non permette combinazioni insensate di
rappresentazioni.
Pare quasi una giustificazione
a priori di ogni spettacolo fatto di pure immagini, del semplice succedersi
di avvenimenti. Di uno spettacolo cioè fatto di cose e non
di parole (sempre che non si pretenda che esista qualcosa di simile a una
“lingua teatrale” fatta di immagini: la cui organizzazione, però,
potrebbe trascendere la coscienza del regista).
La seconda citazione può invece fornire
un tramite tra la “febbre” di Kafka e le sofferte riflessioni del primo
Artaud. E’ uno dei passi in cui Wittgenstein
abbozza l’invenzione della sua “lingua personale”: non destinata quindi
alla comunicazione o alla descrizione di oggetti o eventi, ma alla pura
e semplice maneggiabilità del proprio mondo, interiore e esteriore.
Ivi,
p. 118. Sul “linguaggio privato” di Wittgenstein, vedi anche Saul Kripke
Wittgenstein
, Boringhieri, Torino, 1985.
Sarebbe
anche possibile un linguaggio in cui uno potesse esprimere per iscritto
ed oralmente le sue esperienze vissute o interiori – i suoi sentimenti,
umori, eccetera – per uso proprio? – Perché queste cose non possiamo
già farle nel linguaggio ordinario? – Ma io non l’intendevo così.
Le parole di questo linguaggio dovrebbero riferirsi a ciò di cui
chi parla può avere conoscenza; alle sue sensazioni immediate, private.
Dunque un altro non potrebbe comprendere questo linguaggio.
Ennesima lingua ipotetica,
probabilmente inesistente, in cui la massima libertà coincide con
la completa solitudine, quella immaginata da Wittgenstein finisce per chiudersi
su se stessa. Trova la sua perfezione proprio perché non può
essere sottoposta a alcuna verifica: diventa uno strumento muto che, nella
totale adesione al pensiero, finisce per perdere il contatto con il mondo
e con gli altri. Ma proprio la difficoltà a fissare il pensiero
nel linguaggio (che Wittgenstein qui cancella totalmente, superandola di
slancio), è il punto di partenza del a parabola artaudiana, testimoniato
dalla giovanile corrispondenza con Jacques Rivière:
Antonin
Artaud, Lettera a Jacques Rivière del 5 giugno 1923, in Al
paese dei Tarahuniara e altri scritti, cit., p. 6.
Soffro
d’una spaventevole malattia dello spirito. Il mio pensiero mi abbandona
a tutti i gradi. Dal fatto semplice del pensiero al fatto esterno della
sua materializzazione in parole. Parole, forme di frasi, direzioni interne
del pensiero, reazioni semplici dello spirito, io sono alla ricerca costante
del mio essere intellettuale. E dunque quando posso cogliere una forma,
per quanto imperfetta, la fisso, nel timore di perdere tutto il pensiero.
Sono al di sotto di me, lo so, ne soffro, ma vi acconsento per paura di
morire completamente.
Il problema non è
più, chiaramente, quello della comunicazione: non è in gioco
il rapporto interpersonale attraverso cui può essere fondata la
realtà (o l’esistenza) di un mondo. E’ in gioco, solo e unicamente,
un Io che si sta dissolvendo e vuole disperatamente resistere, fissarsi
in qualche modo nell’Essere. E questo è possibile solo attraverso
la parola. Attraverso quella che Artaud stesso definisce lingua pura:
Antonin
Artaud, Il paese del Tarahumara, cit., p. 167.
Si
può inventare la propria lingua e far parlare la lingua pura con
senso extra grammaticale, ma bisogna che questo senso sia valido in sé,
cioè provenga da orrore.
Solo la sensazione
dell’orrore (la crudeltà) può trascinare l’Io
al di fuori del vuoto del suo ebete e ignaro sopravvivere, fuori dall’impossibilità
di essere, oltre lo stupore, fino alla sensazione del mistero della vita
e della morte. E’ questa l’unica possibilità di ricomporre la frattura.
Ma, d’altro canto, l’orrore che è nelle cose – nascosto,
dimenticato, rimosso – può nascere solo dalle cose. E quando
il mondo è diventato opaco, soltanto un mondo di secondo grado,
una realtà distillata, di livello superiore, condensato e sublime,
può riscattare il nostro sguardo e il nostro essere.
Affine – nell’affermazione
della necessità della pratica del Teatro – è il processo
che porta Artaud all’invenzione delle sue glossolalie, frammenti di una
vera e propria lingua che vivono della necessità di essere effettivamente
pronunciate: rese quindi segni teatrali, attivi e “magici”, e non semplici
graffiti poetici. Dal momento che sono anch’essi cose perché
solo al loro livello possono diventare efficaci sulle cose stesse. Finché
restano muti grafismi, sono inutili in un mondo come quello dipinto da
Van Gogh, che non dipingeva linee o forme, ma cose della natura inerte
come in piena convulsione.
Antonin
Artaud, Van Gogh, il suicida della società (Van Gogh le suicidé
de la societé,
in Oeuvres complètes, vol. XIII
Gallimard, Paris, 1974, p. 42.
Non
descriverò dunque un quadro di van Gogh secondo van Gogh, ma dirò
che van Gogh è pittore perché ha ricollegato la natura, perché
l’ha come dire ritraspirata e fatta sudare, perché l’ha raccolta
in fascine sulle sue tele, in monumenti di colori, l’incastro secolare
di elementi, la pressione spaventosa e elementare di apostrofi, di strisce,
di virgole, di barre di cui non si può credere, dopo di lui, che
non siano composti gli aspetti della natura.
Qui, in questa natura
fatta segno, in questo mondo-libro di straordinaria potenza, il soffio
e il respiro trovano efficacia sovrumana:
Ivi,
p. 49. 
Roltan

tarer

tensur

purtan.

Perché anche
un soffio può essere sufficiente in un mondo come quello in cui
vive Artaud, in cui
Antonin
Artaud.
le
cose non sono venute da uno spirito infinitesimale che partito dal nulla
si sia ispessito e coagulato fino all’essere. Sono venute da un corpo esistente,
che ha tratto
dalle sue molecole, dal niente stesso, col
suo soffio corpi, oggetti, cose che ha fabbricato con le proprie mani.
Alla scena tocca quindi
il compito di raggiungere, con l’ultimo respiro, la terribile perfezione.
Al teatro tocca la responsabilità di realizzare questo stacco, questo
salto nella trascendenza della perfezione assoluta e immutabile. In questo
modo, il teatro si rivela regno del mistero, luogo in cui è possibile
sperimentare l’inconoscibile, riscattare forze sovrumane e ignote ai più.
E a farsi carico di questo compito atroce, non può essere che l’attore,
con l’orrore sacro che ispira la sua maschera, lo scheletro animato che
s’intravede oltre la marionetta, il morto, il non-esistente in grado di
metterci in contatto con il mondo infero. Appare così più
comprensibile il fascino esercitato in scena dalle cosiddette “lingue morte”,
quelle forse in cui l’attore può più intimamente identificarsi,
dal greco antico al tartesso, dall’ebraico all’avestico, o più di
recente dall’antico copto dei papiri gnostici (con inserti di yiddish e
di greco ellenistico) recuperato da Eugenio Barba
per il suo Oxyhincus Evangeliet, il “quinto Vangelo” portato in
scena dall’Odin Teatret.
Affrontando il problema
nella maniera più diretta, i Magazzini Criminali
hanno preteso addirittura di far parlare, nei loro spettacoli, la lingua
dei morti, traendo ispirazione da antiche iscrizioni tombali, da segni
ritrovati sui ruderi di città distrutte dal fuoco e sepolte dai
millenni. Ancora una volta, più che nei normali processi di comunicazione,
sono in gioco le associazioni inconsce, l’evocazione di mondi sotterranei
e lontanissimi.
Come atto creativo,
l’invenzione delle lingue teatrali si presenta dunque come esplorazione
delle diverse possibilità della comunicazione: sia che si tratti
di esplorarne alcuni aspetti, sia che ci si impegni nella verifica di ipotesi
teoriche sulla natura della comunicazione, sia che ci si avventuri alla
ricerca di una “lingua perfetta” (e come abbiamo visto una lingua può
essere perfetta da molti punti di vista), la scena offre l’occasione di
una immediata verifica pratica, legata alla materialità di ogni
processo comunicativo, e non alla sua natura astratta di insieme di segni.
Questo è l’aspetto
sperimentale, quasi scientifico della linguistica ipotetica e della sua
messinscena: ci parla dello slittamento del linguaggio al di fuori dei
canoni abituali e spesso inconsapevoli cui veniamo sottoposti dal linguaggio
stesso, disegnando nel contempo le sue patologie e i possibili rimedi;
ci racconta l’affievolirsi della capacità di comunicazione interpersonale,
cui corrisponde inevitabilmente la crisi della lingua come espressione
del mondo e dell’io, l’impossibilità di delimitare un’area di comunicazione
autentica.
 Ma aldilà
di questo, c’è la scommessa su un messaggio destinato forse a perdersi
nel nulla, a chiudersi totalmente su se stesso. Un messaggio cui l’attore
si affida però totalmente, ogni volta: un messaggio che probabilmente
lo trascende. Perché l’attore sa, malgrado tutto, di restare uomo:
un uomo che può giocare con il mistero, ma che resta tale. Ma chi
può negare la possibilità che chi lo ascolta non oda, in
qualche istante segreto, il canto segreto delle sirene?
L’ineffabile, per
sua natura, non può essere pronunciato. Ma può, forse, essere
udito. Questo è uno dei molti paradossi della comunicazione teatrale:
e la sua chiave sta, in parte, anche nell’invenzione e nella pratica delle
“lingue immaginarie”.

Breve
antologia della fantalingua

Il greco antico 

(Frammenti per una trilogia

di Andrei Serban

(dal programma di sala dei Frammenti
per una trilogia,
presentato alla Biennale di Venezia nel 1972).

Ci si accorge che
nel teatro che si serve di un linguaggio comprensibile la parola è
utilizzata per trasmettere qualcosa a livello dell’informazione o della
psicologia. Non ci si interessa molto ad essa. Avvicinando una lingua antica,
è impossibile discernere un senso diretto, ma in tale apparente
mancanza di senso, si ritrova forse una possibilità più larga
di espressione. In una relazione immediata, concreta con il suono, la parola,
si può scoprire una superficie infinita per creare ritmi, energie,
impulsi di un ordine diverso.
Il greco antico è forse per gli attori
il materiale più generoso che sia mai stato scritto. A quell’epoca
si è sentito il bisogno di inventare un linguaggio poetico per assolvere
un compito immenso: quello di inviare con le parole messaggi a grande distanza,
in uno spazio aperto non solo al coro dei cittadini, ma anche al mare,
all’aria ed agli astri. Ci si può immaginare allora come queste
parole dovessero portare in sé una forza ed un’energia sicure per
rendere possibile e sostenere tale contatto. (…) Tutta la ricerca consiste
nel ritrovare questo suono, questa parola, nel servirla, nel vedere cosa
ha potuto essere anticamente. 

Ci si concentra sulla possibilità di
produrre un suono mai fatto prima.

Pronunciando il verso antico non è
solo il ritmo a vivere ma l’immaginazione intera che comincia a muoversi
in direzioni molteplici. Si tenta di vedere immagini nel suono. Si crede
di diventare chi, per primo, ha pronunciato le parole. Vibrazioni nascoste
si lasciano intravedere e si comincia a capire la “partitura” del testo
in un modo più vero di qualsiasi analisi logica. A vivere attraverso
le parole non è solo la nostra immaginazione ma tutto l’essere.
Si tratta di svelare il paradosso secondo il quale testa, cuore e voce
non sono separati ma legati l’uno all’altro. Tutto il corpo è strumento
complesso e sensibile che deve essere accordato se si vuole servirsene.
Perché il suono esca in modo giusto è necessario cercare
e prendere coscienza di una sorgente, trovare in sé un appoggio
che le permetta di crescere.

Sviluppare una possibilità di affermazione
completa. Un impegno. Il movimento e la voce si ritrovano in uno sforzo
comune. Il gesto e il respiro esistono indispensabili l’uno all’altro come
espressione di un tutto.

L’Orghast

di Peter Brook

(da Peter Brook o il teatro
necessario,
a cura di Franco Quadri, Edizioni della Biennale di Venezia,
Venezia 1976)

Per un gruppo internazionale
non può porsi il problema della parola. Quando delle persone che
giungono da diverse parti del mondo si riuniscono, bisogna trovare un modo
di relazione. Non si può lavorare veramente nel campo verbale senza
dare la preferenza a una lingua piuttosto che a un’altra, e se si usa in
prevalenza una certa lingua, si nota che alcune persone non possono aprirsi
con una lingua straniera. La forma del teatro fondata su una lingua è
stata quindi completamente eliminata. (…) Cerchiamo ciò che anima
una cultura. Piuttosto che prendere la forma cultura in sé, cerchiamo
di scoprire ciò che la anima. E necessario che l’attore cerchi di
uscire dalla sua cultura e, più in là, dai suoi stereotipi.
(…) Spogliandosi dei suoi tic etnici, il giapponese diventa più
giapponese e l’africano più africano, e si raggiunge uno stadio
in cui le forme sono più fissate: appare una situazione nuova che
permette a persone di origine differente un nuovo atto di creazione. (…)
Il fenomeno somiglia al fenomeno musicale, dove tutti i suoni mantengono
la loro identità ma si congiungono per suscitare un nuovo evento.
Dal
Racine di Coquelin 
al persiano di Kamenski

di Alexandr Tairov 

(da Le Théâtre
liberé,
L’Age d’Homme-La Cité, Losanna 1974, pp. 67-68)

Citerò ancora
una volta Coquelin: “Prévost raccontava ridendo che una certa sera,
quando stava per terminare una delle tirate di Ippolito, mentre il pubblico
lo seguiva senza fiato, la memoria gli mancò completamente, proprio
nel momento in cui stava per pronunciare gli ultimi due versi. Impossibile
rallentare il movimento per attendere il suggeritore. Decide in un lampo
e con grande slancio, senza riprender fiato, lancia due alessandrini raffazzonati
da chissà quale gergo, che il pubblico non riuscì ovviamente
a sentire, ma che vennero applauditi con furore, tanto il gesto, l’accento,
il movimento, in una parola, rendevano chiara, eloquente e vigorosa
quella lingua improvvisata”. (…) Nel 1919 si rappresentava a Mosca Stenka
Razin,
una pièce di Vassilij Kamenskij. La parte della principessa
persiana Meîgran era affidata alla Koonen. La parte implicava un
passaggio di cui nessuno, malgrado il più ardente desiderio, poteva
capire una sola parola. Ciononostante, pochi brani dello spettacolo catturavano
come quello l’attenzione del pubblico, composto per di più dagli
spettatori più ingenui e meno educati.
Ecco il testo:

Aî Khial boura ben 

Sivirim sizè tchok

Aî zalma, aî
ghiaz

Dja-manaî, dja manaî.

All’inizio Kamenski aveva cercato di convincerci
che si trattava di parole persiane ma poi ha finito per ammettere – e questo
va a suo merito – che non appartenevano a nessuna lingua.

L’arabo del Corano 

(Gilgamesh

di Victor García 

(da “Le Monde”)

Con questa leggenda,
il francese non funziona, non fa scattare nessuna immagine. Ho pensato
allo spagnolo, ho provato con l’italiano, non ne usciva niente! Mi sono
sempre immaginato che l’arabo fosse simile al sumero. Ho provato l’esperienza
con attori provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Hanno razionalità
diverse, parlano in maniere diverse, li ascolto andare gli uni verso gli
altri, rispondersi, e so che non mi sono sbagliato, teatralmente. Abbiamo
fatto un lavoro musicale, nient’affatto intellettuale. Gli attori – ci
sono solo uomini in scena – devono abbandonare la loro identità
culturale per costruire quella dello spettacolo. Per mostrare questa ricerca
di immortalità, l’avventura della morte. Sì, una storia pessimista…
Solitamente io in scena parlo della morte e termino con una resurrezione.
Muoio e poi risorgo…
La
Saperlingua 
(Le Saperleau

di Anne-Françoise Benhamou 

(dal programma di sala di
Le Saperleau di Gildas Bourdet, presentato dal Théâtre
de la Salamandre a Lille nel 1977)

Se il testo del Saperleau
è spesso al limite dell’intelligibile, è perché
è nato dal piacere molto particolare di andare a teatro a vedere
spettacoli in lingua originale. Per quanto complesso e letterario possa
essere il testo recitato in una lingua straniera – Büchner, Eschilo,
Shakespeare.. si trova di fatto messo allo stesso livello di un libretto
che “garantisce” la recitazione. E mentre il testo conserva per l’attore
e il regista la sua densità, la sua complessità, le sue contraddizioni,
per lo spettatore resta opaco. Restano unicamente, a testimoniare il suo
peso e il suo senso, l’autorità e la coerenza interna della recitazione.
“E’ proprio questo il mio piacere”, sembra dirci l’attore straniero, rivestito
del resto di una legittimità ancora più difficile da mettere
in questione, dato che il principio resta per noi impenetrabile: attore
per diritto divino. Con un semplice effetto di scarto, ecco risorgere il
mito di una teatralità allo stato puro, emancipata dal discorso,
autonoma da ogni senso, significante finalmente liberato da ogni significato.

La Saperlingua insegue così la finzione
di una lingua cui abbiano tolto il suono. Così facendo, Bourdet
pone, più che una problematica letteraria, una domanda al teatro
e agli attori: l’opacità della lingua, il tenue filo della storia
narrata, fanno forse del Saperleau e la scena per un progetto utopico:
una recitazione che sembra autorizzarsi da sola, fondarsi su di un’esigenza
accessibile a lei sola.

Utopia, del resto: come sbarazzarsi del senso?
Eliminate la trama, i personaggi, la finzione, denunciateli, ritorneranno
al galoppo. Trasgredire la farsa, il vaudeville, il marivaudage, il naturalismo
non significa rompere con i codici, ma fare in modo che si denuncino l’un
l’altro. Non implica un addio al senso: significa organizzare la sua disorganizzazione.
Un’incoerenza fatta di frammenti di coerenza. Ma da questi frammenti risorgono
– dalle loro stesse ceneri, magari per un breve istante personaggi e finzione,
allo stesso modo in cui nella Saperlingua sopravvivono spesso la logica
ben nota di quel francese che trasgredisce, tutta la sua sintassi. Più
che un teatro dell’altrove, il testo produce dunque, attraverso le sue
rotture e i suoi codici, una originale sovversione, mettendo continua mente
in crisi le battute più efficaci, i giochi di scena più espressivi,
o altri effetti incomparabili. Dunque, nessun bisogno di sottotitoli: questo
teatro in collera con se stesso fa apparire, di fronte allo spettatore,
perfettamente identificabili tutti quei teatri che accusa con la violenza
distruttrice, disperata e gioiosa del comico.

Dal latino al Basic

(Le piante di Padiglione Italia) 

di Pietro Bacilieri 

(da Echi dal regno permanente
della metamorfosi,
in Magazzini 8, Ubulibri, Milano, 1984)

L’ultima scema, la
serra vuota con le due piante superstiti che si parlano in linguaggio Basic,
e la voce femminile che, alla fine di tutte, chiede solo (o ancora)
“un blazer in crépe marocain”, per la sua vita finta, ribadendo
che “questa è moda / questa è carne di film”, cioè
è ancora artificio, è l’ennesima moda (il canto della natura)
in cui si incarna la finzione. E le ultime parole, “posso paragonarti a
una giornata d’estate?”, cadono nel buio di un tempo incerto. Tempo che,
nello spettacolo, ha valenze diverse: per i Giardinieri è il tempo
reale dello spettacolo, dell’osservazione esterna, che essi comandano;
per gli attori, è come se esistessero infinite serie di tempo, per
cui in una scena rivivono a Creta la leggenda del Minotauro, in un’altra
si trovano in un orto macchiato d’ombra nell’Ottocento italiano, in un’altra
ancora sono due figure di paraventi cinesi nel Settecento, eccetera.

Il Grammelot 

(Mistero buffo

di Dario Fo 

(da Compagni senza censura 1,
p. 62)

Posso dire una battuta
di un operaio di Caltagirone: il quale alla fine dello spettacolo, è
intervenuto dicendo: “Ti ringrazio perché questa sera per la prima
volta mi sono sentito un intellettuale anch’io, perché stasera ho
capito che io ho una cultura, che dietro a me c’è una cultura, me
l’hai fatta ritrovare, rivedere, e ho capito che certi modi di dire, certe
cose, che io credevo banali, sono invece la cultura vera che i padroni
ci hanno fregato. Da questo momento, mi voglio interessare voglio andare
a vedere fine a che punto, dove, ecc.”

 

Il discorso si allarga di più quando arrivi
per esempio nel Veneto, in certi posti della Lombardia, della Romagna,
per certi discorsi che ci sono dentro, dove senti l’operaio, il contadino
che arriva a capire prima, perché il suo linguaggio di tutti i giorni,
e non quello che magari il dialetto non lo parla più. Perché
capisce, intuisce la sua logica dello scherno e del grottesco.

La Generalissima 

(Kaputt Necropolis 

della Società Raffaello Sanzio)

(dal programma di sala di Kaputt
Necropolis
)

 Negli ultimi
cinquecento anni schiavi e cittadini venivano forzatamente reclutati dalle
potenze coloniali europee, imbarcati in molte parti del mondo e inviati
a svolgere lavori agricoli in Africa, nella regione dell’Oceano Indiano,
in Oriente, nei Caraibi e nelle Hawaii.
Furono costretti a comunicare all’interno
della loro comunità poliglotta per mezzo del rudimentale sistema
linguistico chiamato pidgin.

Il pidgin è una lingua estremamente
povera nella sintassi e nel vocabolario, ma per i bambini nati in una comunità
coloniale era l’unica lingua comunque disponibile. La lingua creola è
il germe della comunicazione. Il linguaggio del futuro ridurrà all’osso
il verbo come un cancro; il cervello deve contenere più simboli
e meno vocaboli. Parla con poche parole. Sarai più capito. Fai collane
di simboli: ti aprono porte. Vendi le tue collane agli altri. Non parlare
come tutti. Le parole serie solo quattro per me: agone, apotema,
meoteora, blok.

Da queste parole immense discendono altre
sedici parole: sono le parole del secondo livello che sporcano la purezza
del primo, perché cominciano a de scrivere ciò che dovrebbe
essere già capito. Da queste sedici parole discendono – purtroppo
– altre ottanta parole (terzo livello) che si allontanano sempre più
dalle quattro parole-chiave. Alle ottanta parole ne seguono altre quattrocento:
seno le parole del quarto livello, le più deboli di tutte, le più
equivoche. Ma sono le parole dei principianti. Bisogna avere pazienza.
La testa scoppia perché è troppo piena, il corpo è
supplicante (più bello) perché è stanco, si dicono
cose da pazzi ma sempre logiche.

L’ebraico 

(Spinoza et Vermeer)

di Gilles Aillaud

(“La lezione di ebraico” da Spinoza
et Vermeer,
testo di Gilles Aillaud, regia di Jean Jourdheuil e Jean-Franqois
Peyret. scena di Nicky Rieti. Coproduzione del Théâtre Gérard
Philipe e del Festival d’Automne. Parigi, Théâtre de la Bastille,
novembre 1984)

SPINOZA. In ebraico
le vocali non sono lettere. Gli Ebrei dicono che “le vocali sono l’anima
delle lettere” e che le lettere senza vocali sono “corpi senza anima”.
Affinché questa differenza tra lettere e vocali venga compresa con
maggior chiarezza, la si può spiegare benissimo con l’esempio del
flauto che le dita suonano con i loro tocchi; le vocali sono i suoni musicali;
le lettere sono i fori coperti dalle dita. La lingua ebraica è come
un deserto di pietre sul quale soffia un vento straniere. Le vocali non
sono presenti in alcun luogo; possono essere sottintese, o espresse dai
punti aggiunti alle lettere. Ma, con il tempo e trasportate più
lontane del deserto, queste lettere dai tratti taglienti, quasi sempre
rettilinei, si sono fatte via via più piccole e arrotondate, per
esempio nell’uso degli ebrei italiani, spagnoli o lusitani. Le si direbbe
usurate dalla vece umana che le levigò come la risacca con i ciottoli
della spiaggia.
Oltre all’assenza delle lettere che rappresentano
le vocali, un’altra causa di ambiguità peculiare di questa lingua
è che gli Ebrei non erano abituati a dividere i discorsi scritti,
né a renderne più chiaro il significato rafforzandoli con
dei segni.

A questi due difetti si è potuto senza
dubbio supplire con i punti e gli accenti; ma questi due mezzi sono stati
inventati e istituiti da uomini di un’epoca successiva. Gli antichi scrivevano
senza punti, e cioè senza vocali, e senza accenti. I punti, come
la melodia degli accenti, sono una aggiunta del tempo in cui si credette
di dover interpretare la Bibbia. Chi voglia oggi interpretare la Bibbia
senza pregiudizi deve considerare dubbio il testo così completato.

C’è un’ulteriore difficoltà,
particolare alla lingua ebraica, che dipende dal fatto che le lettere che
nascono dallo stesso organo vengono spesso confuse. Per esempio, le lettere
Aleph, Gitel, Hgain, He vengono chiamate gutturali e praticamente
senza alcuna differenza una viene impiegata al posto dell’altra. Così
el, che significa verso, viene sovente preso per hgal,
che significa sopra, e viceversa. Perciò accade sovente che
tutte le parti di un testo vengano rese ambigue, o sembrano suoni usciti
di rettamente dalla bocca di un cammello.

La lingua universale
dei morti

(Genet a Tangeri)

di Federico Tiezzi

(da I Magazzini 8, Ubulibri,
Milano, 1984).

Nel momento in cui
ho deciso di scrivere il testo di questo spettacolo (e come teste-testo)
mi sono sentito liberate: una leggera nebbia mi era partita dal cervello.
Ho girato per molti anni sull’idea di un testo che classicamente riproducesse
il Testo e però ne facesse saltare attraverso il linguaggio i naturali
passaggi drammatici. E poi ho sempre voluto scrivere una tragedia. Pasolini,
Carducci (il titolo “tragedia barbara” viene a riferimento delle luminose
Odi barbare) sono stati due costanti punti di riferimento; Gadda
e il Dolce stil novo sono stati la matrice, l’accecamento della lingua.
Nonché un amore. Mi hanno offerto, i Quattro, quella lingua barbara
che mi e fiorita attorno ai temi e sulle evoluzioni sintattiche e grammaticali
di Jean Genet. Insieme, una “lingua universale” mi affiorava alle labbra:
una lingua che era insieme etrusco e latino virgiliano, spagnolo e ittita,
inventate e davvero. Una “lingua universale” (…), una lingua incomprensibile
e indecifrabile, segreta nel significato e che sempre si dà in esametri,
una lingua alla quale corrisponde una scrittura altrettanto segreta, altrettanto
indecifrabile che solo i bambini della rivoluzione conoscono, ridendosene
del significato. Una lingua nuova per la rivoluzione ovvero ogni rivoluzione
ha bisogno di una lingua: questa è quella che le offro. Del resto,
ora: spossessare Genet del suo linguaggio è stato uno dei
miei motivi, non un pastiche e nemmeno un mélange di temi
genettiani, ma una appropriazione indebita, il furto di una visione, un
pasto selvaggio, da fiera, di quattro romanzi: Notre Dâme
des Fleurs
, Miracle de la rose,

Pompes funèbres, Journal du voleur.
Il teatro ne è rimasto fuori: e l’apparizione di Solange alla fine
del I atto è giusto un atto d’amore.
Mi era chiaro che avrei dovuto utilizzare
un linguaggio osceno: il sangue di Genet è fatto dell’oscenità,
i suoi globuli sanguigni sono aspersi da questa benedizione della lingua;
altrettanto chiaro era l’utilizzare quei metri straordinari che Carducci
aveva, luminosi, estratti dall’antichità e sillabati in italiano.
Non so perché ma credo che sia per una ragione epica.

Questi metri musicano i temi: i ragazzi, la
rivoluzione, Beirut, la morte, e ne fanno un canto. Che presto ho voluto
trasformare in un insieme ubriaco, in orgia verbale. Solo così Genet
e la sua poesia atroce avrebbero potuto parlare drammaturgicamente, dentro
una storia inventata, con strani personaggi come un ectoplasma fumato dalla
lingua.

E’ quella parte in ombra di noi che ho voluto
nominare: quella contrada profumata di noi “che ho chiamato Spagna” (Genet,
Journal du voleur).

Il copto 

(Oxyrhincus Evangeliet

di Eugenio Barba 

(da The Dilated Body,
Zeami Libri, Roma, 1985, p. 36).

Quando ho iniziato
a lavorare alla produzione il cui titolo definitivo sarebbe stato Oxyrhincus
Evangeliet
non c’erano né un testo scritto né una scenegiatura
– neppure un unico tema guida. C’era piuttosto un interallacciamento di
temi, di figure storiche e mitiche prese da periodi differenti e da culture
lontane, di personalità politiche contemporanee e di personaggi
di romanzi. Tutti costoro hanno iniziato a popolare il mio spazio mentale,
attraverso gli attori, lo spazio materiale del teatro.

In questo doppio spazio, i sentieri dei vari
protagonisti hanno iniziato a intersecarsi: era nata una

storia non prevista.

I miei suggerimenti e le improvvisazioni
degli attori, le nostre intuizioni reciproche insieme alle

scelte fortuite, si sono lentamente cristallizzati
in tracce d’azione, rapporti e situazioni spesso basati sulla simultaneità.

L’universo vocale della composizione è
stato composto in questa fase del lavoro. Ho scritto alcuni testi
che evocano la logica e le ballate sui fuorilegge brasiliani e la Kabbalah,
discorsi politici contemporanei o poesie d’amore, aneddoti sui rabbini
Hassidici o croniche medievali, a volte reinventate attraverso le improvvisazioni
degli attori. 
Tutti questi testi sono stati “tradotti”:
per tutto lo spettacolo gli attori parlano il linguaggio di Oxyrhincus,
la città ellenistica sulle rive del Nilo in cui ritrovati tre frammenti
di vangeli apocrifi.

Ho poi preso i testi pronunciati dagli attori,
li ho tradotti nella mia lingua – l’italiano – e ho composto un testo che
cerca di trasferire la dimensione lineare del linguaggio scritto, il flusso
di una storia che non procede per transizioni ma per salti.

Dal
primo manifesto 

del Teatro della crudeltà 
di Antonin Artaud

(da Il teatro e il suo doppio,
Einaudi, Torino, 1968, p. 168)

Questo linguaggio
oggettivo e concreto del teatro serve a captare e a imprigionare i sensi.
Percorre le sensibilità. Abbandonando l’utilizzazione occidentale
della parola, trasforma le singole parole in sortilegi. Alza la voce. Ne
utilizza le vibrazioni e le qualità. Fa martellare violentemente
i ritmi. Macera i suoni. Mira a esaltare, intorpidire, sedurre, fermare
la sensibilità Libera il senso di un nuovo lirismo dal gesto che
con il suo precipitare o con il suo espandersi nell’aria finisce per andar
oltre il lirismo delle parole. Spezza infine la soggezione intellettuale
al linguaggio trasmettendo il senso di una nuova e più profonda
intellettualità che si cela sotto i gesti e sotto i segni, innalzati
a dignità di esorcismi particolari.

Oliviero_Ponte_di_Pino

2005-12-16T00:00:00




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